Bancarotta fraudolenta documentale e prova dell'elemento soggettivo dell'amministratore “testa di legno”

Francesca Massimo
01 Giugno 2020

La questione sottoposta al vaglio della Cassazione riguarda la necessità di acquisire la prova della sussistenza dell'elemento soggettivo in capo all'amministratore formale di una società, per la sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta documentale in capo allo stesso.
Massima

Al fine di pervenire all'affermazione della penale responsabilità dell'amministratore formale di una società per il reato bancarotta fraudolenta documentale, sub specie di occultamento o sottrazione delle scritture contabili in frode ai creditori, è necessaria la dimostrazione della sussistenza del dolo specifico in capo allo stesso, non essendo sufficiente valorizzare unicamente il suo ruolo di prestanome “professionale”.

Il caso

La vicenda da cui trae origine la sentenza qui commentata si riferisce ad una pronuncia della Corte di Appello di Milano che confermava la sentenza di condanna emessa nei confronti dell'imputato dal Tribunale di quella città, per i reati di bancarotta fraudolenta per distrazione e di bancarotta fraudolenta documentale.

In particolare, le contestazioni elevate a carico dell'imputato avevano ad oggetto la distrazione di beni sociali detenuti in leasing e la bancarotta fraudolenta documentale, sotto forma di occultamento o sottrazione delle scritture contabili, allo scopo di recare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori.

La Corte di Appello di Milano, nel rigettare i motivi di impugnazione proposti, aderiva all'orientamento maggioritario formatosi in seno alla Corte di Cassazione, sia con riferimento alla bancarotta per distrazione di beni detenuti in leasing, in relazione alla quale affermava che il reato è integrato, in quanto li sono stessi entrati a far parte del patrimonio sociale destinato a garantire i creditori, sia quanto alla bancarotta fraudolenta documentale, rispetto alla quale valorizzava unicamente il ruolo di prestanome “professionale” rivestito dall'imputato in diverse società.

Avverso tale decisione proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell'imputato censurando la decisione della Corte meneghina in relazione ad entrambe le contestazioni.

In particolare, secondo il ricorrente, in relazione ai beni detenuti in leasing non sarebbe stata raggiunta la prova della distrazione in quanto, da un lato, non era stato accertato il loro effettivo ingresso nella sfera patrimoniale della fallita, dall'altro, la società proprietaria dei predetti beni non si era insinuata al passivo della fallita, con la conseguenza che doveva ritenersi che la stessa non vantasse crediti nei confronti di quest'ultima, presumibilmente perché i beni le erano stati restituiti.

Quanto alla ritenuta responsabilità per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, il difensore eccepiva il mancato accertamento del dolo in capo all'imputato la cui responsabilità si fondava unicamente nel fatto di aver omesso di impedire, nella sua qualità di amministratore di diritto, le condotte poste in essere dall'amministratore di fatto.

La questione

La questione sottoposta al vaglio della Cassazione riguarda la necessità di acquisire la prova della sussistenza dell'elemento soggettivo in capo all'amministratore formale di una società, per la sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta documentale in capo allo stesso. Sarà quindi necessaria, nell'ipotesi di occultamento o sottrazione delle scritture contabili, la dimostrazione della finalità di aver agito per procurare a sé i ad altri un ingiusto profitto o per recare pregiudizio ai creditori.

Le soluzioni giuridiche

Prima di affrontare la questione relativa all'elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta documentale, è opportuno analizzare brevemente l'intervento della Suprema Corte sul tema della configurabilità del reato di bancarotta per distrazione di beni detenuti dalla società in leasing.

Osservava la Corte, anzitutto, che il motivo di ricorso proposto dal ricorrente su tale punto risultava essere nuovo rispetto alle doglianze avanzate innanzi alla Corte milanese. Invero la difesa con i propri motivi di ricorso sosteneva, per la prima volta, che i beni non fossero mai entrati nella disponibilità della società fallita, mentre innanzi al Giudice di appello aveva proposto il diverso tema della mancanza di titolarità giuridica della fallita sui beni in parola, con la conseguenza che li stessi potevano essere rivendicati unicamente dalla società di leasing mediante azione civile o querela per appropriazione indebita.

Nonostante la doglianza così proposta fosse destinata a essere dichiarata inammissibile, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione, che postulino accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito (Cass. pen., Sez. III, 31 agosto 2007, n. 18440), la Corte precisava come i Giudici milanesi avessero fatto corretto uso dei principi giuridici per affermare la responsabilità dell'imputato per il reato in parola.

Infatti, la Corte meneghina aveva correttamente affermato che il mancato rinvenimento dei beni da parte del curatore fallimentare aveva influito negativamente sulla garanzia patrimoniale dei creditori, da un lato, impedendo l'esercizio di diritti da parte del fallimento, mediante ad esempio il riscatto del bene, dall'altro, gravando il fallimento degli oneri derivanti dal mancato adempimento dell'obbligo di restituzione nei confronti del proprietario degli stessi.

La giustificazione assunta dai Giudici milanesi era coerente con la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il reato in argomento deve ritenersi integrato quando venga posta in essere una qualsiasi manomissione del contratto di leasing, che impedisca l'acquisizione alla massa del bene o che comporti per la fallita un onere economico derivante dall'inadempimento dell'obbligo di restituzione. La distrazione del bene provoca, altresì, la distrazione dei diritti esercitabili dal fallimento, con contestuale pregiudizio per i creditori derivante dall'inadempimento delle obbligazioni verso il concedente (Cass. pen., Sez. V aprile 2018, n. 21933, Rv. 272992).

Dichiarato inammissibile il predetto motivo di ricorso, la Corte accoglieva, invece, quello relativo alla mancata dimostrazione da parte dei giudici dell'appello della sussistenza dell'elemento psicologico del reato di bancarotta fraudolenta documentale, sub specie di occultamento o sottrazione delle scritture contabili in frode ai creditori, in capo all'amministratore c.d. “testa di legno”.

L'art. 216, comma 1, n. 2, l. fall., come noto, prevede due differenti fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale. La prima, riguarda la condotta dell'amministratore che “ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili”, la seconda, quella dell'amministratore che “li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari”.

Precisavano i giudici di legittimità che la fattispecie di occultamento delle scritture contabili, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta, richiede il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, e costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa, in seno all'art. 216, comma 1, n. 2), l. fall., rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture che, invece, integra un'ipotesi di reato a dolo generico e presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi (ex multis, Cass. pen., Sez. V, 5 marzo 2019, n. 26379, Rv. 276650).

La soluzione interpretativa offerta dalla sentenza che qui si commenta si inserisce ad un recente orientamento giurisprudenziale, secondo il quale al fine di ritenere sussistente in capo all'amministratore apparente di una società la responsabilità del reato di cui all'art. 216, comma 1, n. 2, l. fall., prima parte, non è sufficiente fare riferimento alla mera carica formale rivestita dal soggetto all'interno della società, ma è, invece, necessario provare la sussistenza del dolo specifico anche in capo allo stesso.

La Corte censurava la sentenza dei giudici di appello, in quanto aveva affermato la responsabilità dell'imputato unicamente valorizzando il ruolo di prestanome professionale svolto dallo stesso in diverse società, aderendo, quindi, al più tradizionale orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale l'amministratore apparente deve rispondere del reato in parola, anche nel caso in cui sia accertato il suo ruolo di prestanome, in quanto sussiste il diretto e personale obbligo dell'amministratore di diritto di tenere e conservare le scritture contabili (ex multis, Cass. pen., Sez. V, 26 settembre 2018, n. 54490, Rv. 274166).

In particolare, secondo la Cassazione, a fronte della accertata presenza di un amministratore di fatto, vero gestore della società, la Corte di Appello “non si è preoccupata di dar conto della presenza di elementi fattuali idonei a supportare la presenza dell'elemento psicologico che caratterizza l'ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o per omessa tenuta, in frode ai creditori, delle scritture contabili”.

In definitiva, quindi, secondo la Corte di Cassazione la responsabilità dell'amministratore formale non può derivare unicamente dalla assunzione della carica, ma devono essere individuati gli elementi fattuali dai quali si possa evincere la sussistenza del dolo specifico in capo all'amministratore c.d. “testa di legno”, e quindi la sua volontà di agire in frode ai creditori.

Per tali ragioni la Corte, in accoglimento del motivo di ricorso, annullava con rinvio la sentenza in esame in punto di responsabilità per la bancarotta fraudolenta documentale, rinviando al giudice di appello per un nuovo esame.

Osservazioni

Secondo il tradizionale orientamento della Corte di Cassazione, la responsabilità dell'amministratore apparente per il reato di bancarotta fraudolenta documentale deriverebbe dalla mera assunzione della carica, in quanto sullo stesso incombe un diretto e personale obbligo di tenere e conservare le scritture contabili, senza che sia necessario, a differenza delle ipotesi di bancarotta patrimoniale, che l'amministratore formale sia consapevole dei disegni criminosi nutriti dall'amministratore di fatto, attinenti alla distrazione di beni costituenti il patrimonio sociale (ex multis, Cass. pen., Sez. V, 19 febbraio 2010, n. 19049 del 19/02/2010, Rv. 247251, Cass. pen., Sez. V, 30 ottobre 2013, n. 642, Rv. 257950).

Con la sentenza in commento, la Cassazione aderisce, invece, ad un orientamento maggiormente garantista formatosi recentemente in seno alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nel rispetto del principio di colpevolezza di cui all'art. 27 della Costituzione, la sola assunzione della carica di amministratore apparente non fonda automaticamente un giudizio di colpevolezza, anche in tema di bancarotta fraudolenta documentale. Secondo i giudici di legittimità, anzi, la responsabilità va esclusa quando emerga che l'amministratore di fatto abbia concretamente gestito, in maniera complessiva e sostitutiva la società, in modo da relegare il ruolo dell'amministratore diritto a un mero atto formale.

Non si può, cioè, trattare, chiarisce la Cassazione “di una responsabilità di posizione, derivante dalla sola assunzione della carica formale, conseguentemente affermandosi la sola responsabilità dell'amministratore di fatto con esclusione di quella dell'amministratore formalmente in carica, in quanto la responsabilità di quest'ultimo non può essere desunta, nè sulla base della mera titolarità della carica (responsabilità di posizione), né in forza di comportamenti esclusivamente negligenti nell'espletamento (o nel mancato espletamento) delle mansioni alla stessa connesse” (Cass. pen., Sez. V, 9 aprile 2019, n. 35095).

E dunque, in tema di bancarotta fraudolenta documentale, per poter fondare la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell'amministrazione dell'impresa fallita, alla violazione dei doveri di vigilanza e di controllo che derivano, ex lege, dalla accettazione della carica deve essere aggiunta la dimostrazione non solo astratta e presunta, bensì effettiva e concreta, della consapevolezza dello stato delle scritture, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari o, per le ipotesi con dolo specifico, di farne emergere la strumentalità verso fini di pregiudizio in danno dei creditori(Cass. pen., Sez. V, 1 marzo 2019, n. 34112).

Infatti, se da un lato è certamente vero che la carica di amministratore di diritto di una società assegni alla persona che la ricopre doveri di vigilanza e controllo (sintetizzabili nella posizione di garanzia ex articolo 2392 del Codice Civile), la cui violazione comporta responsabilità penale a titolo di dolo generico, è pur vero che “l'addebito di consapevole mancanza di condotta impeditiva del fatto illecito può muoversi soltanto quando la condotta omissiva sia stata accompagnata dalla rappresentazione della situazione anti-doverosa, onde legittimare la prefigurazione dei consequenziali eventi tipici del reato” (Cass. pen., Sez. V, 2 luglio2018, n. 40176) o, nella prospettazione del dolo eventuale, l'accettazione del rischio del loro accadimento.

Quanto, poi, all'ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale punita a titolo di dolo specifico, ai fini dell'affermazione di responsabilità, la responsabilità dell'amministratore apparente potrà essere affermata unicamente quando vengano specificamente individuati gli elementi di prova dai quali possa desumersi che lo stesso abbia agito allo scopo di recare pregiudizio ai creditori (animus nocendi) ovvero al fine di recare a sé o ad altri un ingiusto profitto (animus lucrandi).

Diversamente opinando, l'automatico riconoscimento della responsabilità dell'amministratore di diritto per i fatti illeciti commessi dall'amministratore di fatto, in relazione alla tenuta dei libri contabili, contrasterebbe con il principio di personalità della responsabilità penale, individuando in capo al prestanome, o una sorta di responsabilità oggettiva, derivante dalla mera assunzione della carica, o un addebito a sfondo meramente colposo, per aver omesso di vigilare sulle condotte del reale gestore.

In definitiva, quindi, così come già avvenuto in tema di bancarotta patrimoniale, in seno alla Corte di legittimità si sta sviluppando un orientamento, maggiormente aderente al di principio di colpevolezza di cui all'art. 27 della Costituzione, secondo cui non è sufficiente la mera assunzione della carica per l'affermazione della penale responsabilità per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, ma è richiesto un rigoroso accertamento dell'elemento soggettivo in capo all'amministratore apparente, in particolare nei casi in cui sia accertata la presenza di un amministratore di fatto, quale vero dominus della società.

Guida all'approfondimento

P. Paiardi, Codice del Fallimento, Giuffrè Editore, 2013;

E. Fontana, Limiti alla responsabilità della 'testa di legno' nella bancarotta fraudolenta documentale, in Diritto & Giustizia, fasc. 167/2017, p. 17;

C. Perrone, Osservazioni a Cass. Pen., Sez. Sez. V, data udienza Ud. 22 settembre 2015, data deposito (dep. 29 febbraio 2016), n. 8260, in Cassazione Penale, fasc. 7-8/2017, p. 2901;

E. Fontana, Sarà anche una testa di legno… ma senza il dolo non c'è bancarotta!, in Diritto & Giustizia, fasc. 1/2014, p. 78;

D. Galasso, La «testa di legno» non risponde delle condotte dell'amministratore 'di fatto', se…, in Diritto & Giustizia, fasc. 1/2014, p. 209.

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