Commento breve agli articoli 284, 285 e 286 del Codice della Crisi sulla regolazione della crisi di gruppo con qualche spunto e non pochi dubbi interpretativi

03 Giugno 2020

Uno degli elementi di maggiore innovazione del Codice della crisi d'impresa è la disciplina delle procedure di gruppo. In questo contributo intendiamo ripercorrere quella relativa alle procedure di regolazione della crisi, condividendo con il lettore alcuni spunti e dubbi interpretativi.
Premessa

Le norme che prenderemo in considerazione sono quelle già emendate con le modifiche ed integrazioni previste dal decreto correttivo al Codice della crisi, approvato, in via preliminare, dal Consiglio dei Ministri il 13 febbraio 2020, di seguito anche il “decreto correttivo”, nella prospettiva che esse saranno recepite senza particolari modifiche.

L'art. 284 prevede che più imprese in stato di crisi o di insolvenza appartenenti al medesimo gruppo e aventi ciascuna il centro degli interessi principali nello Stato italiano possano proporre, con un unico ricorso, la domanda di accesso al concordato preventivo o di omologazione di accordi di ristrutturazione con un piano unitario o con piani reciprocamente connessi e interferenti (questi piani li chiameremo di qui, per semplicità, e come fa per altro a un certo punto lo stesso Legislatore, “piani di gruppo”).

Secondo l'art. 2, “gruppo di imprese” è l'insieme della società, delle imprese e degli enti, escluso lo Stato, che ai sensi degli art. 2497 e 2545-septies del codice civile sono sottoposti alla direzione e al coordinamento di una società, di un ente o di una persona fisica, sulla base di un vincolo partecipativo o di un contratto.

Secondo tale definizione si deve presumere, salvo prova contraria, che l'attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci o dalla società o ente che controlla le predette, direttamente o indirettamente, anche nei casi di controllo congiunto. Si tratta di nozione largamente mutuata dalla disciplina degli artt. 2497 e ss. del codice civile, con un tratto peculiare e nuovo: la presunzione relativa secondo cui il controllo, sia individuale che congiunto, è indice dell'esistenza della direzione e coordinamento in capo al soggetto che lo detiene.

Il ricorso “unico” cui allude l'art. 284 deve articolarsi:

  • nella illustrazione delle ragioni di maggior convenienza, in funzione del migliore soddisfacimento dei creditori, della scelta di presentare un piano di gruppo, invece che piani autonomi per ciascuna impresa;
  • nella quantificazione del beneficio stimato per i creditori di ciascuna impresa del gruppo, anche per effetto della sussistenza di vantaggi compensativi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo (previsione questa aggiunta dallo schema di decreto correttivo);
  • nella rappresentazione della struttura del gruppo e dei vincoli partecipativi o contrattuali tra le imprese;
  • nell'indicazione del registro delle imprese in cui è stata fatta la pubblicità della direzione e coordinamento.

Al ricorso si deve allegare, se redatto, il bilancio consolidato unitamente alla documentazione prevista, rispettivamente, per l'accesso al concordato preventivo o agli accordi di ristrutturazione.

La norma precisa che le masse attive e passive restano autonome e distinte anche in questa fattispecie, che si presenta fin da subito come un compromesso tra opportunità – per il miglior soddisfacimento dei creditori, appunto – di trattare unitariamente il piano di risanamento e riequilibrio, e gestione separata delle posizioni individuali dei singoli componenti il gruppo.

Il quinto comma dell'art. 284 prevede che il piano di gruppo possa essere redatto anche in relazione agli accordi stragiudiziali coi creditori e non soggetti ad omologazione, purché sia idoneo a consentire il risanamento dell'esposizione debitoria di ciascuna impresa e ad assicurare il riequilibrio complessivo della situazione finanziaria di ognuna. Il piano deve venire asseverato da un professionista indipendente, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità. Lo schema di decreto correttivo ha ampliato i compiti del professionista indipendente, che dovrà anche attestare le ragioni di maggiore convenienza della scelta di presentare un piano di gruppo invece di un piano autonomo per ciascuna impresa, nonché la quantificazione del beneficio stimato per i creditori di ciascuna impresa del gruppo.

Il piano di gruppo nello scenario concordatario

Il contenuto del piano di gruppo nello scenario concordatario è declinato dall'art. 285.

La norma esordisce chiarendo che il piano può prevedere la liquidazione di alcune imprese e la continuazione dell'attività di altre. Varrà tuttavia per tutto il gruppo la disciplina del concordato in continuità se, confrontando i flussi complessivi dalla continuazione dell'attività comparati con quelli che derivano dalla liquidazione, risulti che i creditori delle imprese del gruppo siano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale.

Qui si pongono diverse e rilevanti questioni.

La prima.

Il concordato di gruppo ammette diversi concordati individuali che seguano le regole degli artt. 84 e ss.? Ammette, insomma, che sotto la propria egida alcune imprese accedano al concordato in continuità ed altre a quello liquidatorio? La risposta ci sembra positiva. Che altro può voler dire la formula dell'incipit del primo comma dell'art. 285? Così si potrà avere un concordato di gruppo che non è né in continuità né liquidatorio, ma è il coordinamento, secondo le norme sostanziali e procedurali del capo che stiamo esaminando, di diverse procedure, che mantengono un elevato grado di autonomia.

La seconda.

Che significa allora la regola contenuta nel secondo periodo del primo comma dell'art. 285? Quel “Si applica tuttavia la sola disciplina del concordato in continuità quando, confrontando i flussi …”? Non può, ci pare, che voler dire che dal combinarsi dei concordati delle singole entità possa germinare una specie distinta: il concordato in continuità di gruppo, o metaconcordato in continuità, che assorbe e assimila tutti i concordati individuali, trasformando quelli in liquidazione in concordati in continuità, con tutti i benefici connessi. Si noti che non è il contrario. Cioè non si dà un concordato liquidatorio di gruppo che assimila a sé i concordati singoli. E questo è un altro segno del favor continuitate (Favor che trova poderosa copertura nella disciplina comunitaria. Si veda, da ultimo, la Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione) cui ormai il Legislatore ci ha abituato.

Ma se così è, quali saranno i criteri da applicare nella qualificazione e nella individuazione dei flussi da considerare mettendo in atto il criterio comparativistico di cui alla norma?

Natura dei concordati delle singole società

Una prima soluzione appare semplice. Procedendo dal particolare al generale, dall'atomo alla molecola, potremmo individuare, in base ai criteri dell'art. 84, la natura dei concordati delle singole società e attribuire ai flussi che derivano dai concordati in continuità la natura di flussi dalla continuità e a quelli che derivano dai concordati in liquidazione la natura di flussi dalla liquidazione: quindi fare la somma e comparare.

Ma per quanto semplice e piana, questa che, per capirci, potremmo chiamare “atomistica-derivata”, potrebbe non essere la sola soluzione. La norma, nella sua vaghezza, ne consente un'altra, che esalta il concetto di unità economica di gruppo in chiave sostanziale e che fa leva su una visione consolidata dei flussi, che prescinde dalla loro provenienza da questa o quella singola entità giuridica.

In tale approccio, che potremmo chiamare “consolidato”, l'interprete è chiamato ad esaminare il piano di gruppo nella sua interezza e unicità e a distinguere tra flussi che derivano dalla continuazione di unità economiche produttive, a prescindere dalla circostanza che siano incistate in entità che singolarmente prese potrebbero accedere solo a un concordato liquidatorio, e flussi che derivano da atti liquidatori, anche qui a prescindere dalla loro sedes particolare, sia essa continuistica o liquidatoria.

Fatta questa distinzione, si procederà alla somma dei “ricavi attesi” dalla continuità e la si confronterà con quella dei flussi della liquidazione degli asset, decidendo per conseguenza se si potrà dare il concordato in continuità di gruppo, capace di assimilare alla propria natura tutti i concordati individuali. Se tale prevalenza non verrà raggiunta, allora continueranno a sussistere i concordati individuali con le loro specifiche caratterizzazioni liquidatorie o continuistiche.

Ora, tra i due, l'approccio consolidato ci appare il più rispondente allo spirito della nuova disciplina, che intende esaltare l'integrazione delle società del gruppo e la loro capacità di ottenere miglior risultato in uno sforzo collettivo invece che individualistico.

Quello atomistico-derivato ha però il pregio della sicurezza nell'appoggiarsi, nella definizione delle procedure cui sarebbero ammesse le singole entità isolate, all'art. 84, in specie quando venga in rilievo il tema del concordato in continuità indiretta. Nella teoria atomistica-derivata tale qualificazione infatti non pone problema, proprio in virtù della definizione dell'art. 84. Nella teoria consolidata invece il problema si pone. Dovremo anche qui mutuare – in relazione ad ogni singolo nucleo di potenziale continuità indiretta - quanto previsto dal secondo e terzo comma dell'art. 84? O invece potremo guardare alla semplice continuazione di una “azienda vitale” in capo al terzo?

Anche se la prima soluzione ha il pregio della chiarezza e del rimando ad una definizione che fa parte dell'ordinamento, la questione ci pare aperta, e sarà interessante vedere come verrà risolta dalla giurisprudenza.

In ogni caso, una volta stabilito che si sia in presenza di un concordato in continuità indiretta per tutta o parte l'attività del gruppo, deve essere chiaro che il prezzo che il terzo paghi per l'acquisto dell'azienda vada ascritto ai flussi della continuità e non certo a quelli della liquidazione.

Detto questo, sia che si sposi la teoria che abbiamo voluto chiamare atomistica-derivata, sia quella consolidata, o qualsiasi altra che venga elaborata in futuro, si pone il problema del carattere della prevalenza della sommatoria dei flussi. O se si vuole, e più profondamente, della currency dei flussi stessi. Il problema è stato ben posto da un recente provvedimento del Tribunale di Milano, un decreto del 28 novembre 2019, a proposito di un concordato misto. I Giudici milanesi, opinando circa la moneta da considerare per la soddisfazione dei creditori*, hanno concluso, adottando una interpretazione anticipatoria del contenuto dell'art. 84, in specie del terzo comma, che non può certamente trattarsi solo del numerario, ma anche di altre utilità**, elaborando così l'icastico concetto di prevalenza “quantitativa attenuata”. Ne segue che il Giudice dovrà essere messo nelle condizioni di apprezzare nel confronto non solo i semplici flussi monetari, ma anche tutte quelle utilità “specificamente individuate ed economicamente valutabili” tra cui spicca la “prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa”, di cui all'art. 84 terzo comma.

*In evidenza

Il concetto di “miglior soddisfacimento dei creditori” è stato introdotto nel nostro ordinamento nel 2012 dall'art. 186–bis L.F., relativo al concordato in continuità. Tale definizione è più ampia rispetto alla semplice “soddisfazione dei crediti”, in quanto ricomprende ogni possibile motivo di convenienza per i creditori, anche all'infuori della sola soddisfazione quantitativa dei crediti (si pensi, ad esempio, alla possibilità di evitare gli effetti di una revocatoria fallimentare oppure alla prosecuzione di un rapporto commerciale). In questo senso si è espresso anche il CNDCEC con il documento approvato con delibera del 3 settembre 2014, in tema di principi di attestazione dei piani di risanamento, dove viene specificato, altresì che “La locuzione utilizzata dal Legislatore, infatti, lascia intendere che lo stesso non abbia strettamente voluto ancorare il giudizio di legittimità della proposta di concordato con continuità al presupposto che venga promessa ai creditori una qualche maggiore attribuzione patrimoniale (sia pur diversa dalla dazione in denaro) rispetto alla discontinuità. Una tale interpretazione discende dall'inequivoco dato letterale della disposizione, che fa leva sull'elemento soggettivo del creditore, senza menzionare quello oggettivo del credito, invece, al centro della disposizione sul degrado dei crediti privilegiati, lasciando, in astratto, spazio all'espressione di un giudizio favorevole anche nelle ipotesi in cui la minore soddisfazione del credito sia compensata dall'attribuzione al creditore di una qualche diversa “utilità esterna”. Nondimeno la prevista vantaggiosità economica per i creditori deve essere individuabile e non limitarsi a una mera enunciazione di principio sulla preferibilità del concordato”.

Il concetto in esame ha trovato legittimazione anche in giurisprudenza, che ha esteso tale concetto anche ad altre situazioni concordatarie. Infatti la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3324 del 19 febbraio 2016, ha affermato che “il criterio della miglior soddisfazione dei creditori (…) individua come autorevolmente sostenuto in dottrina, una sorta di clausola generale, applicabile in via analogica a tutte le tipologie di concordato (…) quale regola di scrutinio di legittimità degli atti compiuti dal debitore ammesso alla procedura”.

Sul punto rinvio al mio scritto su questa rivista Continuità indiretta e procedure competitive: due termini inconciliabili?, in Ilfallimentarista.it, 24 ottobre 2019.

**In evidenza

In particolare, i Giudici milanesi osservano che il criterio adottato dal nuovo codice “se concentra, da una parte, il proprio orizzonte sulle modalità di creazione delle risorse da destinare ai creditori (liquidazione o ricavi della continuità) dovendo sempre "i ricavi attesi" essere superiori ai valori della liquidazione, dall'altra parte, amplia l'area semantica del "ricavato prodotto dalla continuità", facendovi rientrare il magazzino, nonché i rapporti contrattuali già in essere o già risolti nel passato, ma che proseguiranno o verranno rinnovati e, infine, i rapporti di lavoro. In altri termini, la nuova disposizione abbraccia il criterio della prevalenza quantitativa, ma al contempo ne “attenua” la portata poiché dà aere alla dimensione operativa segnalata dai rapporti di lavoro, eleggendo questo aspetto come indicatore di “vitalità” aziendale. Non solo: stabilisce che la currency della soddisfazione dei creditori non sia solo monetaria ma si dilati per accogliere ogni “utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile”. E su questo infra.

Procedendo nell'esame dell'art. 285, siamo introdotti alle “operazioni contrattuali e riorganizzative, inclusi i trasferimenti di risorse infragruppo” che il piano di gruppo può prevedere purché un attestatore certifichi che sono necessarie per la continuità aziendale delle imprese per le quali essa è prevista nel piano e coerenti con l'obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese del gruppo. Il favor per la continuità aziendale è tale – non sfugga infatti che simili manovre sono contemplate solo nei concordati e negli accordi di ristrutturazione in continuità – da dare la stura a riassetti e trasferimenti di risorse all'interno del gruppo potenzialmente lesivi dei diritti dei creditori e dei soci delle singole entità.

La norma si incarica di prescrivere che gli effetti pregiudizievoli di queste “operazioni” possano essere contestati dai creditori dissenzienti di una classe dissenziente o, mancando le classi, da creditori che rappresentino almeno il venti per cento dei crediti di una singola società con lo strumento del ricorso in opposizione all'omologazione del concordato di gruppo. Lo stesso vale per i creditori non aderenti agli accordi di ristrutturazione di gruppo.

Ma nonostante le opposizioni, il Tribunale omologherà il concordato o gli accordi di ristrutturazione qualora ritenga che i creditori possano essere soddisfatti in misura non inferiore a quanto ricaverebbero dalla liquidazione giudiziale di ogni singola società secondo un canone di giudizio che costituisce una costante di garanzia per i creditori (Si veda l'art. 112, ove tuttavia si parla di credito e non di creditore, e l'art. 48, comma quinto, sul cram-down dell'Amministrazione Finanziaria).

Qui farà gioco l'isolamento delle masse attive e passive di ogni componente il gruppo. Infatti tutti i giudizi di convenienza e di opportunità si basano sul confronto tra situazioni atomistiche e quadro complessivo e consolidato, ma la necessità di tutelare adeguatamente le posizioni soggettive dei creditori e dei soci impongono un rigoroso riferimento a quel che sarebbe la sorte delle singole entità senza la procedura comune.

La norma si incarica di chiarire quale sia la posizione e la tutela dei soci delle società che subiscono pregiudizio alla redditività ed al valore della propria partecipazione sociale – così precisa il decreto correttivo - dalle manovre infragruppo. Essi sono privati dell'azione dell'art. 2497 del codice civile, per essere vestiti del solo rimedio dell'opposizione all'omologazione del concordato. E il Tribunale è chiamato ad omologare il concordato o gli accordi, respingendo il ricorso, se tale pregiudizio è escluso dall'esistenza di vantaggi compensativi derivanti alle singole imprese dal piano di gruppo.

Non sfuggirà che qui, a differenza che nell'art. 2497 del codice civile, l'elemento di novità è la fonte dei vantaggi compensativi: il piano di gruppo, e non l'attività di direzione e coordinamento o operazioni dirette ad eliminare il pregiudizio. E il piano può prevedere flussi riparatori di segno contrario a quelli che hanno portato il pregiudizio, ma potrebbe apprestare rimedi più obliqui. Potrebbe infatti essere la stessa regolazione di gruppo il rimedio: il che accadrà ogni volta che da sola l'entità non potrebbe salvarsi dalla liquidazione giudiziale, con grave distruzione di valore mentre insieme alle altre società del gruppo e nel contesto di una unica procedura essa potrebbe assicurare maggiori ritorni per il ceto creditorio.

Procedimento del concordato di gruppo

L'art. 286 tratta del procedimento del concordato di gruppo.

La centralizzazione del processo avviene eleggendo un unico foro per tutti i procedimenti – si tratta normalmente del foro del soggetto che esercita l'attività di direzione e coordinamento ovvero, mancando questa figura, dell'impresa con la maggiore esposizione debitoria – e nominando un solo Giudice Delegato e un solo Commissario Giudiziale per tutte le imprese del gruppo. Lo schema di decreto correttivo prevede inoltre che il Tribunale con il decreto di omologazione nomini, se il concordato è con cessione dei beni, un unico liquidatore giudiziale.

Ora, a tale centralizzazione si contrappone la conservazione della autonomia delle singole procedure. La disciplina prevede infatti un comitato dei creditori per ciascuna impresa del gruppo (la previsione è frutto del decreto correttivo) eche il voto venga espresso dai creditori in modo separato, seppur contestuale, sulle proposte presentate dalle singole società loro debitrici. E il concordato di gruppo passa solo se le proposte delle singole imprese sono tutte approvate con le maggioranze di cui all'art. 109. Sono escluse dal voto le imprese del gruppo titolari di crediti nei riguardi dell'impresa ammessa alla procedura: specificazione questa della regola di inibizione del voto in conflitto di interessi.

Qui, si pone la questione della clausola simul stabunt simul cadent. È necessario infatti che tutti i concordati individuali siano approvati per aversi l'approvazione del concordato di gruppo. Diventa allora cruciale comprendere se sia possibile lasciar fuori dalla procedura consolidata alcune entità del gruppo, per le quali la prognosi di successo della proposta di concordato sia infausta e se sia possibile modificare in corsa il perimetro del concordato estromettendo le società per le quali l'approvazione del concordato si riveli particolarmente problematica.

Ci pare che la disciplina non imponga a tutte le imprese di gruppo – ovviamente quelle che versino in stato di crisi o di insolvenza - di associarsi nella domanda di concordato. Non pare nello spirito di una normativa tutta tesa a favorire il salvataggio delle imprese introdurre elementi di rigidità. Qui è caso di dirlo, ubi lex voluit dixit. Si deve quindi postulare ampia libertà per i debitori facenti parte di un gruppo di ricorrere a forme distinte di regolazione: il concordato di gruppo per alcuni, l'accordo di ristrutturazione o il piano attestato o financo la liquidazione giudiziale per altri.

Circa il tema della modificabilità del perimetro delle società da includere nel procedimento di concordato, non se ne vede alcun impedimento fino al deposito della proposta di concordato. Ciò che rileva infatti è la situazione che si sottopone al giudice dell'ammissione con la proposta, anche se la domanda anticipatoria prospetta un perimetro diverso. Dopo il deposito della proposta e l'avvio del procedimento di ammissione, simili modifiche non potranno che importare una riconsiderazione dell'intera procedura.

Notevole è infine la regola contenuta nell'ultimo comma dell'art. 286, secondo la quale la risoluzione o l'annullamento del concordato di gruppo non possono darsi quando i relativi presupposti si verifichino soltanto rispetto a una o più imprese del gruppo, a meno che non ne risulti significativamente compromessa l'attuazione del piano anche nei confronti delle altre imprese. Il che significa che l'inadempimento (art. 119) o la dolosa esagerazione del passivo o la sottrazione o dissimulazione di parte rilevante dell'attivo (art. 120) di singoli concordati non si riverbereranno sul concordato di gruppo a meno che non venga significativamente compromessa l'attuazione dei piani delle imprese non oggetto diretto della patologia. Insomma, ancora una norma che eleva rimedi concepiti per far fronte alle disfunzioni di procedure individuali ad un piano collettivo, diluendone la forza in nome di una visione consolidata dei fenomeni di gruppo, in cui le posizioni individuali trascolorano davanti al fenomeno sostanziale, e così ben presente agli operatori economici, dei gruppi di imprese.

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