La previa affissione del codice disciplinare è irrilevante se la sanzione riguarda un comportamento del dipendente pubblico contrario al “minimo etico”

08 Giugno 2020

Anche nel pubblico impiego contrattualizzato deve ritenersi, relativamente alle sanzioni disciplinari, che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cd. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare prevista dall'art. 55 del d.lgs. n. 150 del 2009...
Massima

Anche nel pubblico impiego contrattualizzato deve ritenersi, relativamente alle sanzioni disciplinari, che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cd. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare prevista dall'art. 55 del d.lgs. n. 150 del 2009, in quanto il dipendente pubblico, come quello del settore privato, ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta.

Il caso

M. R. M., dipendente del comune di C. ricorreva in Appello avverso la sentenza del Tribunale che lo aveva visto soccombente. Il lavoratore aveva agito in giudizio chiedendo l'accertamento della illegittimità del licenziamento disciplinare irrogatogli all'esito di un procedimento disciplinare – portato avanti pur in pendenza di procedimento penale – per la gravità dei fatti contestati.

La Corte di appello rigettava il ricorso, ritenendo irrilevante la questione relativa alla mancata affissione del codice disciplinare presso l'ufficio di applicazione del dipendente in ragione del fatto che la natura dell'addebito mossogli oltrepassava i limiti del cd. minimo etico.

La Corte territoriale, poi, riteneva che la mancata comunicazione al dipendente della notizia del fatto contestato in concomitanza con la trasmissione della stessa all'ufficio per i procedimenti disciplinari, non facesse venire meno il potere disciplinare dell'amministrazione, stante la natura non perentoria di tale termine, previsto all'art. 55-bis, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001 (ratione temporis vigente). Parimenti non rilevante era ritenuto il fatto che tra la contestazione dell'addebito disciplinare e l'audizione del dipendente interessato fosse trascorso un intervallo temporale inferiore ai venti giorni previsti dal medesimo art. 55-bis, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001.

M. R. M. proponeva ricorso per la cassazione della sentenza della Corte di appello, affidandosi a tre motivi. Con il primo motivo sosteneva la violazione dell'art. 7, l. n. 300 del 1970 e degli artt. 47 e 55, d.lgs. n. 165 del 2001 in ragione della specificità del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni vista la inderogabilità della normativa ad esso relativa. Con il secondo motivo contestava la violazione dell'art. 55-bis per non aver la Corte di appello ritenuto determinante il mancato rispetto del termine di cinque giorni per la trasmissione della notizia del fatto al dipendente interessato e per non aver considerato la decadenza dell'amministrazione dall'esercizio del potere disciplinare per il mancato rispetto del termine di venti giorni per l'audizione a difesa del lavoratore.

La questione

La questione esaminata dalla Corte di cassazione nella sentenza in commento verte sulla validità del licenziamento disciplinare irrogato al dipendente pur in mancanza del codice disciplinare affisso nei locali dell'amministrazione e, seppur con rilievo minore, sulla perentorietà o meno dei termini per la comunicazione al dipendente della notizia del fatto disciplinarmente rilevante e per l'audizione a difesa. Nella fattispecie la Suprema Corte ha pronunciato in riferimento ad un licenziamento irrogato nei confronti di un dipendente pubblico che era stato accusato di concorso esterno in associazione mafiosa seppur non vi fosse presso l'amministrazione di appartenenza alcun codice disciplinare affisso. I giudici della Suprema Corte hanno concentrato le proprie valutazioni in ordine al cd. minimo etico, inteso quale livello base di consapevolezza (che, come tale, deve necessariamente appartenere a tutti i dipendenti pubblici) in riferimento alla illiceità di determinate azioni.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione, esaminando congiuntamente le questioni di diritto proposte dal ricorrente, ha inteso seguire il proprio recente orientamento che vede come non necessaria la previa affissione del codice disciplinare di cui all'art. 55, d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 per tutti quei casi in cui il comportamento del dipendente pubblico sia immediatamente percepibile dal lavoratore stesso come illecito, perché contrario al cd. minimo etico o a norme di rilevanza penale. La giurisprudenza ritiene, infatti, che il dipendente possa agevolmente rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta. Tale principio, esteso anche al pubblico impiego contrattualizzato a partire da due pronunce del 2016 e del 2017 (segnatamente, Cass., sez. lav., 18 ottobre 2016, n. 21032 e Cass., sez. lav., 31 ottobre 2017, n. 25977) è diretta derivazione di quello sorto, in epoca ben più lontana, nell'ambito dei rapporti di lavoro alle dipendenze di privati.

I Giudici della Suprema Corte, dunque, hanno fondato la propria decisione sulla valorizzazione dell'affissione del codice disciplinare esclusivamente quale predeterminazione delle sanzioni rispetto a fatti di diversa rilevanza disciplinare e non quale fondamento del potere disciplinare in assoluto. Tale ultimo è da rinvenirsi, infatti, nella norma generale di cui all'art. 2106 c.c. Così statuendo, la Corte, ha ribadito – rendendolo orientamento prevalente – che nelle ipotesi in cui i fatti disciplinarmente rilevanti siano talmente gravi da contrastare con il minimo etico, il dipendente non possa non essere in grado di comprendere di per sé ed ex ante (anche in assenza della tipizzazione del codice disciplinare) la illiceità del proprio comportamento.

La rimessione alla contrattazione collettiva della individuazione di tipologie e conseguenze delle infrazioni disciplinari (ex art. 55, d.lgs. n. 165 del 2001) non fa venir meno le norme generali del codice civile, la cui applicazione – ad avviso della Cassazione – permette di sanzionare le condotte del dipendente pubblico che si pongano in contrasto con gli obblighi di cui agli artt. 2104 e 2105, c.c., «esorbitando dal minimo etico». La sanzione di un fatto talmente grave da essere irrimediabilmente incompatibile con il rapporto di pubblico impiego non può, in altri termini, essere subordinata alla pubblicazione del codice disciplinare.

Anche gli altri motivi di ricorso sono stati disattesi dalla Suprema Corte la quale ha riconosciuto – in ciò facendo applicazione di un costante orientamento della giurisprudenza – la natura endoprocedimentale a tutti i termini asseritamente violati dall'amministrazione nello svolgimento del procedimento disciplinare. Tale natura non determina la decadenza dall'azione disciplinare per il mancato rispetto dei termini se non quando risulti concretamente pregiudicato il diritto di difesa.

Osservazioni

Con la pronuncia in commento si sgombra il campo da ogni possibile dubbio in ordine all'estensione al settore del pubblico impiego contrattualizzato del principio del cd. minimo etico. Si tratta delle ipotesi in cui il comportamento del lavoratore – sia esso dipendente da privati o da pubbliche amministrazioni – si connota per una gravità così palese da porsi esplicitamente in contrasto con gli obblighi tipici del rapporto di lavoro. Il lavoratore non percepisce la illiceità del suo comportamento perché essa è chiaramente espressa nel codice disciplinare affisso o pubblicato dal datore di lavoro ma la coglie autonomamente in ragione del palese contrasto con le norme imperative di legge. La consapevolezza della illiceità del comportamento è tanto più marcata nell'ambito del pubblico impiego ove il dipendente non solo è soggetto agli obblighi generali di diligenza e fedeltà, ex artt. 2104 e 2015 del codice civile, ma anche al rispetto delle norme costituzionali di cui agli artt. 97 e 98. Un reato come quello che ha determinato la sanzione espulsiva (concorso esterno in associazione mafiosa ex artt. 110 e 416-bis c.p.), infatti, è certamente in contrasto con l'operato della Pubblica Amministrazione che deve essere assicurato nel rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità e con l'esclusività del servizio dei pubblici dipendenti che deve essere rivolto unicamente alla Nazione.

Minimi riferimenti bibliografici

- A. Di Paolantonio, Il procedimento disciplinare, in Il lavoro pubblico, Milano, 2019.

- L. Di Paola, Il potere disciplinare nel lavoro privato e nel pubblico impiego privatizzato, Milano, 2010.

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