La responsabilità penale da “contagio” sui luoghi di lavoro

08 Giugno 2020

La ripresa delle attività produttive e commerciali espone il datore di lavoro ad un possibile responsabilità per lesioni colpose nascente dall'inadempimento delle misure cautelari volte a ridurre il rischio di contagio. A fronte di un rischio di diffusione oggettivamente impossibile da dominare...
Abstract

La ripresa delle attività produttive e commerciali espone il datore di lavoro ad un possibile responsabilità per lesioni colpose nascente dall'inadempimento delle misure cautelari volte a ridurre il rischio di contagio. A fronte di un rischio di diffusione oggettivamente impossibile da dominare, finanche per un ipotetico agente modello, la radicata tendenza giurisprudenziale ad “invertire” la logica dell'accertamento potrebbe infatti aprire la strada ad inaccettabili forme di responsabilità “da posizione” o ad eventuali accertamenti tecnici di dubbia affidabilità. Per tale motivo, pur a fronte delle più rassicuranti posizioni espresse dalla circolare INAIL del 20 maggio 2020, di per sé stesse prive di qualsiasi valore cogente in tema di causalità e di colpa, resta viva l'esigenza di un intervento legislativo che tenga conto della peculiarità del contesto.

Il contagio da Covid 19 e gli obblighi del datore di lavoro progressivamente affermatisi nel recente quadro normativo

Come evidenziato nella circolare INAIL del 3 aprile 2020, le malattie infettive e parassitarie vengono a loro volta tradizionalmente inquadrate, per l'aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro. Da questo punto di vista, la causa virulenta è equiparata sotto il profilo medico-legale alla causa violenta. Allo stesso modo, dal punto di vista strettamente giuridico è difficile dubitare dell'esigenza di ricondurre l'attuale epidemia proprio all'interno di quella “valutazione dei rischi” che costituisce il fulcro essenziale del Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. A tale riguardo, considerato che l'art. 2, comma 1, lett. n), definisce l'attività di prevenzione come “il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno”, non sembra possibile sostenere, almeno sulla base delle attuali conoscenze scientifiche, che lo svolgimento di un'attività lavorativa non possa comportare, almeno in buona parte dei casi, una maggiore esposizione al rischio di cui si discute.

Ciò nonostante, durante la fase di lockdown, la specifica individuazione delle attività economiche “non sospese” (in quanto ritenute fondamentali per l'assetto politico, economico e sociale del paese) aveva consentito in qualche modo di individuare una sorta di bilanciamento “normativo” fra le opposte esigenze di tutela, tale quantomeno da esprimere una piena consapevolezza circa l'esistenza di una significativa area di “rischio consentito”. Inoltre, la situazione di emergenza rendeva allora del tutto “inesigibile” una immediata attuazione delle possibili misure di cautela: la palese inadempienza delle strutture pubbliche (ed in primo luogo degli ospedali) alle aspettative di protezione che sarebbe stato lecito attendersi almeno in quel settore e l'oggettiva indisponibilità delle mascherine sembrava porre al riparo tutti gli imprenditori dal pericoloso confronto con immaginarie figure di “agente modello” (nella pratica del tutto inesistenti) che avrebbero invece potuto ritenersi dedite a realizzare una piena tutela delle sicurezza dei loro dipendenti. Da qui il possibile dubbio che lo stringente sistema normativo teso a garantire la sicurezza del lavoro potesse ritenersi inevitabilmente sospeso, perlomeno in termini di fatto se non proprio in termini di diritto.

In un paese che risultava ancora dilaniato dalla paura, le legittime richieste del mondo sindacale hanno però progressivamente condotto all'elaborazione di una serie di indicazioni normative, di diversa natura e provenienza, ma spesso dotate di un sicuro contenuto precettivo e tali astrattamente da suffragare un eventuale rimprovero colposo. Già con il d.p.c.m. dell'11 marzo 2020 era stata infatti “raccomandata” l'assunzione di protocolli di sicurezza anti-contagio ed erano state fornite alcune prime indicazioni in tema di rispetto della “distanza interpersonale di un metro”, di adozione di “strumenti di protezione individuale” e di “sanificazione dei luoghi di lavoro”.

Il 14 marzo le parti sociali hanno poi definito un “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” che ha poi assunto pieno valore normativo per l'effetto del d.p.c.m. del 22 marzo 2020.

Secondo la relativa premessa, “la prosecuzione delle attività produttive può avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione”, con conseguente abbandono di qualsiasi “presunzione di necessità”. In questa prospettiva, l'eventuale rischio di contagio ancora “consentito” sarebbe infatti esclusivamente quello che dovesse risultare ineliminabile finanche attraverso “adeguati” livelli di protezione, tanto più che la contestuale indicazione del “lavoro agile” come modalità alternativa di svolgimento della prestazione sembra rende ancora più precaria ogni ragionevole individuazione di un livello di rischio ancora “legittimo”. Con tale intervento, l'obbligo prevenzionistico del datore di lavoro viene in ogni caso esplicitamente ricondotto ad una preliminare valutazione del rischio e diviene quindi oggetto di tutta una serie di linee guida che si sviluppano ben al di là delle precedenti indicazioni. Unitamente al problema della disciplina degli accessi e delle uscite dall'azienda, con eventuale misurazione della temperatura corporea, vengono infatti tematizzate anche la tutela dei soggetti “fragili”, la gestione degli spazi comuni (mensa, spogliatoio, aree fumatori, ecc.), la riorganizzazione delle attività aziendali; la mobilità interna, le attività in presenza, la gestione di una persona sintomatica, la prosecuzione dei servizi di sorveglianza sanitaria e la costituzione in azienda di un Comitato per l'applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione, e vengono poi ulteriormente specificate le precedenti raccomandazioni in tema di distanziamento, di dispositivi di protezione (da adottare previa mappatura delle attività aziendali) e di sanificazione.

Con i protocolli allegati al successivo d.p.c.m. del 26 aprile 2020, le misure da adottare sono state poi ulteriormente integrate, andando a realizzare un vero e proprio sistema, come tale strutturalmente analogo a quello preesistente, ma per molti versi autonomo e destinato per questo a trovare attuazione in un documento integrativo rispetto alla preesistente valutazione dei rischi. Ad alcune ulteriori disposizioni specifiche, come ad esempio quelle attinenti alla certificazione della avvenuta “negativizzazione” al tampone degli eventuali dipendenti contagiati, alla collaborazione fra appaltatori e committenti ed ai detergenti per le mani, si sovrappone – in modo ormai definitivo – una esigenza molto più ampia, relativa alla completa riorganizzazione dell'attività dell'azienda in modo tale da evitare il concentramento di persone all'interno degli stessi locali e finanche in sede di accesso o di uscita delle medesime.

Ulteriori informazioni in merito al ruolo del medico competente sono poi fornite dalla Circolare del 29 aprile 2020 del Ministero della salute.

Da ultimo, si sono infine affacciate sulla scena anche le ordinanze di provenienza regionale, dietro le quali sembra aleggiare il nodo ancora irrisolto dei tamponi e del tracciamento, con il rischio di un vero e proprio corto circuito nella linea che dovrebbe collegare la prevenzione pubblica a quella privata.

I vari protocolli e la necessaria riorganizzazione aziendale

In questo quadro, la progressiva introduzione di protocolli ha avuto pertanto il merito di sbloccare l'impasse politico-economico determinato dal lockdown, ma non ha certo potuto fornire, in un contesto scientifico ancora attraversato da molti dubbi e da poche certezze, delle indicazioni sufficientemente chiare e precise.

Il novero e la struttura delle regole protocollari qui semplicemente evocate lumeggia infatti con estrema chiarezza l'arduo compito attribuito ai datori di lavoro e l'estrema difficoltà di elaborare un adeguato sistema di prevenzione Covid-19, garantendone al contempo la corretta esecuzione.

Inoltre, mentre per le attività non sospese, l'organizzazione prevenzionistica aveva potuto comunque misurarsi con la pratica, per le attività progressivamente “riaperte” si è invece posto il problema di una riorganizzazione “a freddo” ancora tutta da verificare sotto il profilo della sua effettiva attuabilità.

Nell'ovvia impossibilità di affrontare in questa sede le numerose problematiche che le piccole e le grandi imprese sono stati chiamate, talvolta in sostanziale solitudine talaltra con il contributo dei diversi organi aziendali (RSPP, DPO, risorse umane, consiglio di amministrazione, organismo di vigilanza, ecc.), è forse opportuno un breve richiamo al tema della corretta informazione dei dipendenti (ma anche dei fornitori, dei clienti e di tutti gli aventi causa) ed al fondamentale principio di auto-responsabilità. Non potendo egli controllare né la possibile positività al virus di coloro che accedono presso le sedi aziendali (l'insufficienza della cautela connessa alla misurazione della temperatura risulta in questo senso piuttosto evidente), né l'effettivo rispetto del distanziamento (a tal fine si dovrebbero infatti immaginare delle forme di tracciamento tanto invasive da risultare verosimilmente ingiustificate), né il corretto utilizzo di guanti e mascherine o del livello di pulizia delle mani, il principale compito del datore di lavoro sembrerebbe infatti essere quello di sensibilizzare adeguatamente dipendenti e visitatori al rispetto delle regole comunemente stabilite nell'interesse comune. Se così è, ogni ulteriore intervento sembrerebbe allora doversi muovere proprio sulla base di questo presupposto, sia per quanto attiene alle verifiche in sede di accesso (con il possibile ricorso a forme di autocertificazione e con l'eventuale utilizzo ad adiuvandium del termoscanner o di strumenti analoghi), sia per quanto riguarda la messa in atto di scelte organizzative atte effettivamente a garantire il distanziamento sociale nei luoghi di lavoro (che saranno poi i diretti interessati a dover rispettare), sia infine sotto il profilo dei controlli, volti appunto a rafforzare il valore cogente delle varie disposizioni emanate.

L'estremo rigore dell'approccio giurisprudenziale in tema di responsabilità del datore di lavoro per morte o lesioni di un suo dipendente e le peculiarità dell'accertamento causale relativo al contagio

Nel quadro appena delineato non pare allora fuor d'opera ricordare l'estremo rigore che caratterizza l'approccio giurisprudenziale in materia di sicurezza sul lavoro, e ciò sia per quanto riguarda all'accertamento del rapporto di causalità che per quanto attiene propriamente alla colpa. Sotto il primo profilo, si afferma generalmente che ad escludere il rapporto di causalità fra l'eventuale omissione datoriale e l'evento lesivo sia soltanto un eventuale comportamento del lavoratore assolutamente “abnorme”, come tale oggettivamente imprevedibile, e non già una sua semplice condotta esorbitante dall'ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartiti dal datore di lavoro o di chi ne fa le veci. E sarebbe poi ancor più difficile, sulla base dei principi generali vigenti in materia, ritenere interrotto il nesso di causalità fra omissione ed evento in forza della condotta negligente di un terzo soggetto, magari presentatosi sul luogo di lavoro a dispetto delle sue precarie condizioni di salute piuttosto che della rilevata positività di un familiare o semplicemente avvicinatosi a mezzo metro di distanza dal lavoratore in tal modo contagiato. Tuttavia, proprio i rilievi precedentemente svolti in merito alla centralità di un'adeguata informativa e della conseguente diretta responsabilità delle persone che si trovano ad accedere nei locali aziendali con piena consapevolezza dei loro doveri dovrebbero indurre in questo caso a valorizzare adeguatamente il principio di auto-responsabilità.

Per il resto, l'unico profilo rilevante nell'attuale prospettiva giurisprudenziale, è invece rappresentato, dalla possibilità di individuare un comportamento “virtuoso” del datore di lavoro che avrebbe invece consentito di evitare il verificarsi dell'evento. Tuttavia, in una prospettiva ex post, quale è quella che sovrintende all'analisi di un infortunio sul lavoro o di un eventuale contagio, sarà sempre possibile individuare - a fronte dell'ampiezza strutturale delle regole cautelari contenute nel Testo Unico e delle stesse indicazioni protocollari in materia di Covid-19 - un qualche intervento organizzativo che avrebbe potuto concretamente impedire il verificarsi del fatto. Da questo punto di vista, è allora difficile pensare che i principi abitualmente enunciati con riferimento alla causa violenta possano trovare una diversa declinazione con riferimento alla causa virulenta.

Eppure, la prima particolarità del tema del contagio è data proprio dall'estrema difficoltà di dimostrare il rapporto causale: non solo e non tanto per quanto attiene all'avvenuto contagio proprio sul luogo di lavoro (che potrebbe essere eventualmente desunto dalla cronologia delle sintomatologie e delle positività rilevate), quanto piuttosto all'effettiva incidenza della presunta condotta omissiva (come ad esempio la mancanza attuazione di adeguate disposizioni organizzative per l'utilizzo dei dispositivi o per l'effettivo distanziamento sociale) sul singolo caso in esame. Ma anche tale fondamentale profilo di riflessione, posto esplicitamente in evidenza dalla circolare Inail del 20 maggio 2020, non appare del tutto rassicurante in quanto inevitabilmente affidato ad un giudizio tecnico di carattere medico-legale, nell'ambito del quale non è affatto detto che “la mancata dimostrazione dell'episodio specifico di penetrazione nell'organismo del fattore patogeno” possa essere considerata ostativa all'accertamento di un rapporto causale penalmente rilevante, tanto più in considerazione della molteplicità di tesi scientifiche sulle possibilità modalità di contagio che ci è stato dato ascoltare in questi mesi.

Sulla base di quali consolidate indicazioni scientifiche e giurisprudenziali, potremo allora affermare che in presenza di riscontrate omissioni agli obblighi protocollari e di una contestuale accertata diffusione del virus proprio all'interno del luogo di lavoro non si giungerà ugualmente a stabilire un rapporto di causa ed effetto fra queste due circostanze?

Le concrete dinamiche dell'eventuale accertamento giurisdizionale

Ciò premesso, la posizione “comprensiva” che è stata apparentemente assunta dall'Inail nei confronti dei datori di lavoro ha tuttavia avuto il merito di fornire una valida giustificazione alla scelta di non interpretare la mera segnalazione di un contagio sul lavoro a scopo indennitario come un dato di per sé stesso idoneo a determinare la trasmissione degli atti in Procura, con conseguente apertura di un procedimento penale: del resto, se così non fosse, i relativi fascicoli si aggirerebbero già oggi intorno alle cinquantamila unità, ingolfando inutilmente una macchina giudiziaria ormai prossima alla “bancarotta”.

Di conseguenza, il complesso accertamento istruttorio, prima ancora che tecnico, necessario a valutare la possibile inadeguatezza delle misure adottate e la conseguente incidenza causale delle omissioni ad essa correlate dovrebbe essere tendenzialmente riservato alla sola ipotesi di una notitia criminis originata dalla denuncia della persona offesa.

Sul piano pratico, la logica dell'accertamento che si renderà allora necessario sembrerebbe poter essere scandita in 5 momenti distinti:

i) può effettivamente affermarsi con la dovuta certezza che il contagio di un determinato lavoratore sia avvenuto in uno specifico luogo di lavoro?

ii) quali potrebbero state allora le concrete modalità di contagio?

iii) il datore di lavoro aveva o meno adottato, prima del contagio, le misure cautelari che dovevano ritenersi doverose alla luce del quadro normativo esistente?

iv) l'eventuale omissione emersa nel caso concreto può davvero ritenersi condicio sine qua non di quello specifico contagio?

v) l'eventuale rapporto causale non risulta comunque interrotto dal comportamento gravemente negligente del lavoratore contagiato o di un altro soggetto?

Nell'ipotesi in cui la notitia criminis risultasse invece correlata ad una verifica ispettiva da parte delle autorità a ciò preposte, il profilo relativo all'adozione ed all'attuazione delle misure di prevenzione diverrebbe invece assolutamente preliminare, costituendo appunto lo scopo diretto ed immediato dell'ispezione, mentre l'eventuale individuazione di casi di contagio dovrebbe ragionevolmente porsi come un eventuale step successivo, suscettibile di assumere una possibile rilevanza solo all'esito dell'effettivo riscontro di gravi omissioni.

Quali regole cautelari?

In ogni caso, a prescindere dal percorso logico che si dovesse ritenere più opportuno nelle diverse situazioni, è evidente che il tema relativo all'adozione ed all'attuazione dei protocolli di riferimento si rivelerà in ogni caso centrale e che un'efficace prevenzione del contagio sul luogo di lavoro presuppone per l'appunto l'implementazione di riferimenti normativi sufficientemente chiari e precisi.

Purtroppo, la progressione degli eventi ed il rapido susseguirsi di provvedimenti volti a delineare un sistema prevenzionistico “ideale”, pur ispirata da finalità astrattamente apprezzabili, ha finito per dar vita ad un contesto piuttosto nebuloso, e verosimilmente ancora precario, anche in ragione dell'evidente ritardo con il quale si sta svolgendo la parallela attività di prevenzione pubblica fondata sulla diffusione, l'efficacia e la tempestività dei test e delle oggettive incertezze sull'evoluzione dell'epidemia, oltre che sulle sue effettive modalità di propagazione.

In altre parole, se si vuole davvero stimolare uno sforzo serio e duraturo da parte dei datori di lavoro, sembra necessario tracciare con maggior chiarezza il contenuto degli obblighi protocollari, lasciando eventualmente alla contrattazione fra le parti sociali tutta una serie di profili che non dovrebbero invece tradursi in alcuna indicazione vincolante ed incentivando piuttosto eventuali sistemi di verifica ex ante, volti in qualche modo a “certificare” la validità degli sforzi compiuti o a segnalare tempestivamente gli eventuali profili di criticità.

Proprio in questa direzione dovrebbe muoversi allora il possibile intervento normativo di cui si sta discutendo in questi giorni, cercando di contemperare l'obbligo di attivazione del datore di lavoro a fronte dell'attuale contesto epidemiologico, un adeguato coordinamento con i test validati dal sistema sanitario nazionale ed il principio di auto-responsabilità di tutti coloro che accedono in un determinato luogo (pubblico o privato che sia) ed a prescindere dalla natura dell'attività ricreativa o lavorativa ivi svolta.

A fronte dell'esigenza di elaborare e di rispettare alcune semplici regole di comportamento, da tutti condivise, la tendenza a contrapporre una presunta condizione di costrizione al lavoro dei lavoratori dipendenti ad una smisurata capacità preventiva ed organizzativa del loro datore di lavoro rischierebbe invece di rivelarsi del tutto controproducente.

In conclusione

Al cospetto di un problema nuovo, il legislatore sembra chiamato ad un intervento normativo che contemperi le varie esigenze, sollecitando i datori di lavoro ad elaborare soluzioni organizzative adeguate ed evitando invece di determinare accertamenti alquanto complessi a fronte di fenomeni di diffusione del contagio allo stato non ancora adeguatamente governabili.

Guida all'approfondimento

In dottrina sul tema:

Dovere, Covid -19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi, in Giustizia Insieme, 22 aprile 2020;

Dovere, La sicurezza dei lavoratori in vista della fase 2 dell'emergenza da Covid-19, in Giustizia Insieme, 5 maggio 2020;

C. Corsaro – M. Zambrini, Compliance aziendale, tutela dei lavoratori e gestione del rischio pandemico, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 3;

G. Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, in WP CSDLE “Massimo D'Antona”, 413/2020;

R. Guariniello, La sicurezza del lavoro al tempo del coronavirus, (e-book), WKI, 2020, 5;

Il principio del sibi imputet nella teoria del reato. Contributo allo studio della responsabilità penale per fatto proprio. Torino, Giappichelli, 2017.

In giurisprudenza, sulla possibile interruzione del nesso causale connessa al comportamento abnorme del lavoratore, cfr. Cass., Sez. IV, 05.12.2018 - 27.12.2018, n. 58272; Cass., Sez. VII, 22.11.2017 – 15.12.2017, n. 55866; Cass., Sez. IV, 29.11.2017 – 01.02.2018, n. 4916.

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