Danno da riduzione o perdita della capacità lavorativa: i criteri generali cui attenersi per la valutazione
09 Giugno 2020
La fattispecie. Due donne convenivano dinanzi al Tribunale competente la società di assicurazioni che garantiva l'uomo che le aveva danneggiate, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti in conseguenza di un sinistro stradale. Il Tribunale accoglieva la domanda con riferimento al risarcimento del danno non patrimoniale ma rigettava quella relativa al danno patrimoniale, liquidando il danno in conformità e sottraendo l'acconto pagato dalla società assicurativa convenuta. Successivamente la sentenza veniva impugnata in via principale della compagnia assicurativa nonché in via incidentale da ambo le attrici originarie. La Corte di Appello ritenne che il Tribunale, dopo aver liquidato il danno in moneta attuale e avendo accordato alle danneggiante gli interessi e la rivalutazione sul capitale già espresso in moneta attuale, aveva in tal modo rivalutato due volte il credito risarcitorio. Inoltre, il giudice di primo grado aveva errato nel defalcare l'acconto pagato dall'assicuratore senza previamente rivalutarlo mentre, d'altro canto, le attrici non avevano diritto al risarcimento del danno patrimoniale da perdita delle capacità di guadagno e da distruzione del veicolo, in quanto non li avevano provati. La sentenza di appello veniva impugnata per cassazione da entrambe le interessate.
Con altro motivo, articolato in più in censure, una delle ricorrenti si doleva, altresì, del rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa. Deduceva, infatti, che il consulente tecnico d'ufficio aveva accertato essere residuati dal sinistro postumi permanenti nella misura del 65%, che, al momento del sinistro, la donna stava per conseguire la laurea in architettura e che, anche a voler ritenere non vi fosse la prova del presumibile futuro svolgimento della professione di architetto, se questa fosse rimasta sana, in ogni caso l'invalidità sofferta le impediva finanche lo svolgimento del lavoro domestico, ed anche questo pregiudizio era comunque un danno suscettibile di valutazione patrimoniale. Ciò posto, la Suprema Corte ha trovato fondato il motivo sulla premessa del fatto che le Sezioni Unite già da tempo avevano stabilito che gli unici vizi motivazionali ancora censurabili in sede di legittimità sono quelli che consistono in un'anomalia motivazionale che si tramuta in una violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione. Nel caso di specie - continuano i Giudici di Cassazione - la Corte di Appello era chiamata a stimare il danno patrimoniale da perdita della capacità di guadagno patito da un soggetto non lavoratore al momento dell'infortunio ma che aveva subito una rilevante invalidità. In questi casi, rammenta la Suprema Corte, al giudice di merito è richiesta una duplice valutazione e, precisamente, da un lato, deve stabilire se la vittima - qualora fosse rimasta sana - avrebbe verosimilmente svolto un lavoro redditizio; dall'altro, deve stabilire se i postumi precludono o no la possibilità di svolgere in futuro un lavoro e trarne un reddito. Invece, nella vicenda processuale de qua la Corte di Appello aveva rigettato la domanda adducendo che l'attrice non aveva fornito alcuna prova di contrazione dei propri redditi. Tuttavia, i Giudici rammentano che è impossibile pretendere da un soggetto non percettore di reddito 'la prova di contrazione del proprio reddito'. Inoltre, non esiste alcuna conseguenzialità logica tra l'affermazione che la vittima non era laureata e la conclusione che tale circostanza escludeva che, negli anni a venire, avrebbe potuto svolgere la professione di architetto.
Secondo la Suprema Corte, essendo chiamato a liquidare un danno futuro, il Giudice di merito non doveva accertare se la vittima fosse laureata ma doveva accertare:
- se fosse verosimile che, rimanendo sana, avrebbe conseguito la laurea; - inoltre, essendo la vittima un soggetto non percettore di reddito, la Corte di Appello non poteva limitarsi a negare l'esistenza del danno solo perché non poteva ritenersi che la stessa avrebbe svolto, se fosse rimasta sana, la professione di architetto, ma avrebbe dovuto accertare se i postumi residuati all'infortunio erano compatibili con lo svolgimento di attività lavorative, ivi compreso il lavoro domestico, confacenti alle abilità e al grado di istruzione della danneggiata.
Per questi motivi, la sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte di Appello competente, la quale nel riesaminare il gravame dovrà applicare il seguente principio di diritto: il danno da perdita o riduzione della capacità lavorativa di un soggetto adulto che, al momento dell'infortunio, non svolgeva alcun lavoro remunerato, va liquidato stabilendo, in primo luogo, se possa ritenersi che la vittima, se fosse rimasta sana, avrebbe cercato e trovato un lavoro confacente al proprio profilo professionale; in secondo luogo, se i postumi residuati all'infortunio consentano o meno lo svolgimento di un lavoro confacente al profilo professionale della vittima.
FONTE: www.dirittoegiustizia.it |