Concetto di “insussistenza del fatto” e relativo regime di tutela nell'ipotesi di licenziamento illegittimo

12 Giugno 2020

Nel caso di licenziamento illegittimo, l'applicazione della tutela reintegratoria ex art. 18 comma 4, l. n. 300 del 1970, presuppone l'assenza ontologica del fatto materiale, alla quale deve essere equiparata l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità; non rileva, invece, ai fini dell'applicazione della suddetta tutela, l'eventuale insussistenza del "fatto giuridico".
Massima

Nel caso di licenziamento illegittimo, l'applicazione della tutela reintegratoria ex art. 18 comma 4, l. n. 300 del 1970, presuppone l'assenza ontologica del fatto materiale, alla quale deve essere equiparata l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità; non rileva, invece, ai fini dell'applicazione della suddetta tutela, l'eventuale insussistenza del "fatto giuridico".

Il caso

Il Tribunale ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla società al lavoratore per avere questi riportato condanna sulla base di una sentenza di patteggiamento exart. 444 c.p.p., per fatti non compiuti in connessione del rapporto di lavoro; conseguentemente ha dichiarato risolto alla data del licenziamento il rapporto medesimo, ed ha condannato la società a pagare al lavoratore, ex art. 18, comma 6, l. n. 300 del 1970 (nel testo novellato dall'art. 1, l. n. 92 del 2012), una indennità pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita.

Con pronuncia del 2015 la Corte d'Appello escludeva ogni tutela reintegratoria e, ritenuto di dover applicare la tutela indennitaria cd. forte di cui al comma 5 del citato art. 18, aumentava a dodici mensilità l'indennizzo in favore del lavoratore.

La decisione di secondo grado veniva cassata dalla Suprema Corte, con sentenza del 2016, la quale enunciava i seguenti principi di diritto: a) «Solo una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso può integrare stricto iure una responsabilità disciplinare del dipendente, diversamente non configurandosi neppure un obbligo alcuno di diligenza e/o di fedeltà ex art. 2104 e 2105 cc e, quindi, una ipotetica violazione sanzionabile ai sensi dell'art. 2106 cc»; b) «Condotte costituenti reato possono - anche a prescindere da apposita previsione contrattuale in tal senso - integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell'instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino - attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto - incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza».

La Corte d'Appello, in diversa composizione quale giudice del rinvio, con pronuncia del 2018 accoglieva il reclamo proposto dal lavoratore e, per l'effetto, dichiarava l'illegittimità del licenziamento; annullava il recesso e condannava la società a reintegrare il lavoratore nonché a risarcire il danno quantificato in dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita, oltre alla regolarizzazione previdenziale ed assistenziale.

In sintesi, i giudici di seconde cure, dopo aver rilevato l'intempestività della contestazione, ritenevano il licenziamento illegittimo perché i fatti extralavorativi rilevanti in sede penale non erano in concreto tali da poter desumere il venir meno dell'elemento fiduciario e la tutela applicabile era quella prevista dall'art. 18, comma 4, l. n. 300 del del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, per insussistenza del fatto da intendersi in senso giuridico e non meramente materiale.

La società ricorreva per la cassazione di tale pronuncia sulla base di tre motivi, illustrati con memoria. Resisteva con controricorso il lavoratore.

La questione

Il caso in esame consente di riflettere sulla portata ermeneutica del concetto di insussistenza del fatto e, conseguentemente, sul regime di tutela applicabile nell'ipotesi di licenziamento illegittimo.

Invero, mentre l'art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, collega la disciplina della reintegrazione all'insussistenza del “fatto contestato”, l'art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015 fa riferimento all'insussistenza del “fatto materiale contestato”. Sul punto la Suprema Corte ha osservato che la diversa soluzione lessicale adottata dal legislatore del 2015 può spiegarsi con l'esigenza di dissipare per la nuova disciplina i dubbi interpretativi presenti nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale dell'epoca sul citato articolo 18 (Cass. n. 12174 del 2019).

È opportuno osservare che in tema di licenziamenti individuali, costituzionalmente regolata dagli artt. 4 e 35 Cost. secondo il principio della necessaria giustificazione del recesso, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato una nozione di insussistenza del fatto contestato che “comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare o quanto al profilo oggettivo ovvero quanto al profilo soggettivo della imputabilità della condotta del dipendente” (Cass., n. 10019 del 2016).

Dunque, l'insussistenza del fatto contestato comprende anche l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità o rilevanza giuridica e quindi il fatto sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare, oltre che il fatto non imputabile al lavoratore.

La Suprema Corte ha altresì chiarito come ogniqualvolta il fatto contestato presupponga anche un elemento non materiale (come la gravità del danno) allora tale elemento diventa anch'esso parte integrante del "fatto materiale" come tale soggetto ad accertamento, sicché, anche in tale ipotesi, l'eventuale carenza determina la tutela reintegratoria (Cass., n. 20545 del 2015).

Mette conto rilevare come le medesime conclusioni abbiano trovato conferma anche in relazione alla disciplina dettata dal d.Lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla quale la Corte ha osservato che “pur dovendosi valutare il tenore letterale della nuova disposizione, nondimeno sia parimenti indubitabile che le espressioni utilizzate (id est: fatto materiale contestato) non possano che riferirsi alla stessa nozione di "fatto contestato" come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla l. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4 e che costituisce, all'attualità, diritto vivente” (Cass. n. 12174 del 2019). Invero, precisa la stessa giurisprudenza di legittimità, che il medesimo criterio razionale che ha già portato la Suprema Corte a ritenere che "quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il Legislatore, parlando di "insussistenza del fatto contestato", abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione" (in termini, ab imo, Cass. n. 20540 del 2015), induce il convincimento, sia pure in presenza di un dato normativo, parzialmente mutato, che la irrilevanza giuridica del fatto, pur materialmente verificatosi, determina la sua insussistenza anche ai fini e per gli effetti previsti dal d.lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2” (Cass. n. 12174 del 2019).

Ne consegue che al fatto accaduto, ma disciplinarmente del tutto irrilevante, non può logicamente riservarsi un trattamento sanzionatorio diverso da quello previsto per le ipotesi in cui il fatto non sia stato commesso.

Al riguardo la Cassazione ha recentemente evidenziato la considerazione che l'art. 3, al pari dell'art. 18, fa riferimento alla contestazione, già valorizzata dalla Corte per equiparare alla insussistenza del fatto la completa irrilevanza dello stesso sotto il profilo disciplinare e che, dunque, anche rispetto alla nuova disciplina, impone di ritenere che il "fatto materiale contestato", di cui al d.lgs n. 23 del 2015, art. 3, comma 2, sia il "fatto contestato" e cioè, in definitiva, un fatto non solo materialmente integrato ma anche di rilievo disciplinare. Conseguendo a ciò il principio di diritto, secondo cui: "Ai fini della pronuncia di cui al d.lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2, l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare" (Cass, n. 12174 del 2019).

Le soluzioni giuridiche

Nel caso de quo, la Corte territoriale aveva ritenuto applicabile la tutela di cui all'art. 18, comma 4, l. n. 300/1970 reputando che il concetto di "fatto" dovesse intendersi in senso giuridico e non materiale e che l'insussistenza o la manifesta insussistenza che legittima l'accesso alla tutela reintegratoria attenuata non può non riguardare il difetto - nel medesimo fatto - di elementi essenziali della giusta causa o del giustificato motivo, tanto più che la riforma di cui alla l. n. 92/2012 non ha modificato, per quel che interessa, le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla l. n. 604/1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. o per giustificato motivo.

Ritenendo non condivisibili tali assunti, la Suprema Corte ribadisce (Cass., n. 12365/2019) che, a seguito delle modifiche apportate dalla l. n. 92/2012 al regime sanzionatorio dettato dall'art. 18, l. n. 300 del 1970, il giudice deve procedere ad una valutazione più articolata circa la legittimità dei licenziamenti disciplinari rispetto al periodo precedente (Cass., nn. 13178 del 2017; 18823 del 2018; 32500 del 2018).

In primo luogo deve accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo effettivamente la riforma del 2012 "modificato le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla l. n. 604 del 1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può che avvenire per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 cc o per giustificato motivo" (Cass., sez. un., n. 30985 del 2017).

Nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, deve poi svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno delle due condizioni previste dal comma 4 dell'art. 18 per accedere alla tutela reintegratoria ("insussistenza del fatto contestato" ovvero rientrante "tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili"), dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal comma 5," da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale" (Cass., sez. un., n. 30985 del 2017).

Ciò posto, merita osservare che, nella fattispecie in esame, il Collegio rileva in primo luogo come non sia stato corretto, da parte dei giudici del rinvio, collegare la sussistenza o manifesta insussistenza del fatto al difetto degli elementi essenziali della giusta causa o del giustificato motivo. Trattandosi, invero, sotto l'aspetto metodologico, di due valutazioni diverse: l'una riguardante l'esistenza della giusta causa e l'altra la tutela applicabile, che devono essere svolte autonomamente.

In secondo luogo, la Cassazione si sofferma sul concetto di "fatto", sottolineando che, in sede di legittimità, si è affermata la tesi secondo cui la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970, oltre che quella della assenza ontologica del fatto, comprende anche l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità (Cass., nn. 20540 del 2015; 29062 del 2017; 3655 del 2019), ma non certamente disciplina un concetto di "fatto giuridico".

Alla luce dell'impianto sistematico così delineato, che la Suprema Corte ribadisce anche nel caso in esame, pur tenendo conto delle peculiarità della fattispecie, la stessa sottolinea che l'indagine che avrebbe dovuto compiere la Corte territoriale, una volta esclusa la giusta causa del licenziamento, sarebbe stata quella di valutare se il fatto addebitato, certamente sussistente nella sua materialità, presentasse o meno quei caratteri di illiceità ovvero se rientrasse la fattispecie nell'ambito operativo delle "altre ipotesi" di cui all'art. 18, comma 5, l. n. 300/1970, che giustifica, di contro, una tutela indennitaria forte, ma non quella reintegratoria.

Dunque, la Cassazione rileva come nel caso de quo la Corte territoriale si sia discostata dai principi statuiti dalla giurisprudenza di legittimità, applicando in modo non esatto il disposto dell'art. 18, commi 4 e 5, l. n. 300 del 1970 e non interpretando correttamente il concetto di "sussistenza del fatto".

Osservazioni

In conclusione, sembra interessante osservare quanto precisato dalla Cassazione nella fattispecie in esame, vale a dire che, in caso di condotta extra lavorativa costituente reato, accertato successivamente con sentenza passata in giudicato, rilevante sul rapporto di lavoro a prescindere da apposite previsioni in tal senso del contratto collettivo e commesso quando il rapporto di lavoro non era ancora in essere, la verifica sul carattere di illiceità non deve essere rapportata alla responsabilità disciplinare, non configurandosi un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c., ma deve essere parametrata alla rilevanza giuridica che il comportamento del soggetto può rivestire, con riguardo al "disvalore sociale oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell'azienda", in virtù di una non perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare (stante l'autonomia tra i due giudizi), onde evitare la conseguenza che ogni condotta, comunque accertata come reato, sarebbe illecita e, quindi, idonea a giustificare un licenziamento.

La Suprema Corte, a titolo esemplificativo, evidenzia poi come la rilevanza che può assumere, ai fini disciplinari, con riguardo al carattere di illiceità richiesto dall'art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970, un reato contravvenzionale colposo, commesso prima dell'instaurazione del rapporto di lavoro ma accertato successivamente, è certamente diversa dalla commissione di un delitto la cui violazione del bene giuridico protetto, in termini di antigiuridicità, può incidere in modo più intenso e concreto nell'ambito del rapporto lavorativo contrattuale tra datore e dipendente.

Si tratta di una valutazione, precisa il Collegio, che si pone ed opera su un piano diverso e successivo, perché attinente al profilo della tutela da applicare e non a quello della sussistenza della giusta causa e del connesso accertamento della lesione del vincolo fiduciario.

Guida all'approfondimento

- V. Speziale, Il licenziamento disciplinare, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 142, 2014.

- M. Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act (un commento provvisorio, dallo schema al decreto) WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT–236/2015.

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