Fallimento: disciplina generale

Mariacarla Giorgetti
16 Giugno 2020

La disciplina della procedura fallimentare è stata dettata, per decenni, dalle previsioni del R.D. n. 267 del 16 marzo 1942, la cosiddetta legge fallimentare, profondamente modificata da svariati interventi riformatori (di cui forse il più importante risalente al 2006). Verrà prossimamente sostituita dal D.Lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019, noto come ‘Codice della crisi e dell'insolvenza'. Il Codice della crisi e dell'insolvenza prevede un profondo cambiamento delle regole della concorsualità, privilegiando – secondo un orientamento che da decenni ha iniziato a manifestarsi – la continuità e la sopravvivenza dell'impresa piuttosto che la liquidazione della stessa, tentando di eliminare, anche nel lessico, sia la volontà punitiva, sia il disvalore sociale da sempre insito nell'idea di ‘fallimento'.
Premessa

La disciplina della procedura fallimentare è stata dettata, per decenni, dalle previsioni del R.D. n. 267 del 16 marzo 1942, la cosiddetta legge fallimentare, profondamente modificata da svariati interventi riformatori (di cui forse il più importante risalente al 2006). Verrà prossimamente sostituita dal d.lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019, noto come ‘Codice della crisi e dell'insolvenza'.

Il Codice della crisi e dell'insolvenza prevede un profondo cambiamento delle regole della concorsualità, privilegiando – secondo un orientamento che da decenni ha iniziato a manifestarsi – la continuità e la sopravvivenza dell'impresa piuttosto che la liquidazione della stessa, tentando di eliminare, anche nel lessico, sia la volontà punitiva, sia il disvalore sociale da sempre insito nell'idea di ‘fallimento'.

L'entrata in vigore della disciplina – o almeno della maggior parte delle disposizioni – è stata fissata prima a diciotto mesi dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e da ultimo a partire dal 1° settembre 2021. Nelle more dell'entrata in vigore, dunque, ad essere applicata sarà la vecchia legge fallimentare, sulla cui disciplina conviene spendere alcune considerazioni.

La dichiarazione di fallimento

La fase della dichiarazione di fallimento è il primo momento della procedura concorsuale, di particolare rilievo e complessità e articolata in una serie di sotto-momenti.

Come noto, la dichiarazione di fallimento richiede la coesistenza di due presupposti, uno soggettivo e uno oggettivo, indicati rispettivamente dagli artt. 1 (così come modificato dal D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) e 5 della Legge fallimentare. L'iniziativa per la dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 6 Legge Fallimentare, riformato nel 2006, avviene con ricorso, presentato d'ufficio, dal debitore o da uno o più creditori o su richiesta del pubblico ministero.

I presupposti della dichiarazione

Un breve cenno meritano i presupposti perché sia possibile la dichiarazione di fallimento, uno di natura soggettiva e uno di natura oggettiva.

Dal punto di vista soggettivo, assume rilievo l'art. 1 della Legge Fallimentare: sono assoggettabili al fallimento gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, escludendo gli enti pubblici, gli imprenditori agricoli e i piccoli imprenditori. Proprio concentrandosi sul concetto di ‘piccolo imprenditore', occorre ricordare che la riforma del 2006 ne ha modificato la portata, restringendola. Sono stati esclusi dalla categoria dei soggetti fallibili gli esercenti un'attività commerciale che, in forma individuale o collettiva, non presentano uno dei seguenti elementi, anche in via alternativa: l'avere effettuato investimenti nell'azienda per un capitale di valore superiore a 300.000 euro; l'avere realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a 200.000 euro; avere un ammontare di debiti anche non scaduti superiore ad euro cinquecentomila. Si tratta di limiti che devono essere aggiornati ogni tre anni, con decreto del Ministro della Giustizia in base alle variazioni degli indici Istat.

Il presupposto oggettivo è, invece, disciplinato dall'art. 5 Legge fallimentare. Si dispone che l'imprenditore, perché possa essere dichiarato fallito, deve trovarsi in stato d'insolvenza tale da non poter più soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Possiamo precisare che cosa debba intendersi per stato di insolvenza alla luce di quanto la Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare. Con un arresto del 2005, la Corte ha sostenuto che lo stato d'insolvenza dell'imprenditore commerciale, che funge da presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d'impotenza strutturale e non soltanto transitoria a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito dei venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività. Ancora nel 2013, la medesima Corte di legittimità, in un'ordinanza ha aggiunto che lo stato d'insolvenza deve intendersi consistente nell'oggettiva impossibilità in cui si trova l'imprenditore, con riferimento al momento della dichiarazione medesima, di far fronte, per il venir meno delle normali condizioni di liquidità e di credito, tempestivamente e con mezzi ordinari, alle proprie obbligazioni. Pertanto, le circostanze inerenti alla concreta sussistenza o meno di una o più obbligazioni rimaste inadempiute, al loro ammontare, al rapporto fra passivo ed attivo dell'impresa, alla possibilità o meno di estinguere i debiti dopo la dichiarazione di fallimento, senza far ricorso a liquidazione di attività, se non possono considerarsi decisive, singolarmente esaminate, al fine dell'affermazione o negazione dello stato d'insolvenza, costituiscono, d'altra parte, elementi presuntivi idonei ad evidenziare, ove valutati nel loro insieme, la ricorrenza o meno dell'indicata obiettiva incapacità dell'imprenditore a fronteggiare i propri impegni.

Si tratta di contenuti formatisi sulla base di una giurisprudenza che affonda le proprie radici in alcune pronunce degli anni Settanta e che oggi ha ottenuto il suo suggello nelle previsioni del D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, ossia nel Codice della crisi e dell'insolvenza, che accoglie, precisa ed eleva a criteri normativi i concetti stessi di ‘crisi' e di ‘insolvenza' come maturati nella riflessione della Corte.

L'iniziativa

Circa l'iniziativa della dichiarazione di fallimento, essa ha subito profonde trasformazioni con la riforma apportata alla Legge fallimentare con il d.lgs. n. 5 del 2006. Il testo che oggi leggiamo dell'art. 6 legge fallimentare, così come modificato dall'art. 4 D.Lgs. n. 5/2006, recita che il fallimento viene dichiarato su ricorso del debitore, di uno o più creditori o su richiesta del pubblico ministero. Come si può notare, è stato eliminato qualunque riferimento all'iniziativa d'ufficio. Più precisamente, l'ipotesi di dichiarazione di fallimento pronunciata d'ufficio è stata limitata alle sole evenienze prese in esame dall'art. 7 legge fallimentare, ossia il caso dell'iniziativa del pubblico ministero. Infatti, essa è ammessa laddove l'insolvenza emerga nel corso di un procedimento penale, ovvero risulti dalla fuga, dall'irreperibilità o dalla latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell'attivo o perché segnalata dal giudice che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile.

Sempre in relazione alla fase dichiarativa del fallimento, occorre ricordare gli obblighi che gravano sull'imprenditore che chiede il fallimento. Si tratta di obblighi previsti dall'art. 14 della legge fallimentare. Tra di essi spiccano l'obbligo di depositare, presso la cancelleria del tribunale, le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti o, se l'impresa ha avuto minore durata, dell'intera esistenza della stessa. Occorre, altresì, il deposito di uno stato particolareggiato ed estimativo delle attività, nonché l'elenco nominativo dei creditori, dei rispettivi crediti e l'indicazione dei ricavi lordi per ciascuno degli ultimi tre esercizi. Si può ricordare che prima del 2007 il termine non si riferiva agli ultimi tre ‘esercizi', bensì ai ricavi degli ultimi tre ‘anni'. È richiesta, inoltre, l'indicazione di coloro che vantano diritti reali e personali sui beni in possesso del debitore e dei titoli relativi da cui sorgono i rispettivi diritti.

I termini per la dichiarazione

La dichiarazione di fallimento può avvenire entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo. Inoltre, ai sensi dell'art. 10 legge fallimentare, nell'ipotesi di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è prevista la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività da cui decorre il termine annuale sopra ricordato.

Si può, inoltre, verificare l'ipotesi di fallimento dell'imprenditore defunto: si tratta della previsione dell'art. 11 legge fallimentare. La dichiarazione di fallimento del soggetto defunto avviene su richiesta dell'erede, a condizione che non si sia verificata la confusione tra l'asse ereditario e il patrimonio personale dell'erede medesimo. La disciplina è ulteriormente precisata dall'art. 12 legge fallimentare, ai sensi del quale nell'ipotesi di morte dell'imprenditore successivamente alla dichiarazione di fallimento, la procedura concorsuale prosegue nei riguardi degli eredi, anche laddove l'eredità sia accettata con beneficio d'inventario.

La competenza

La scelta del tribunale presso il quale aprire la procedura fallimentare avviene secondo i dettami dell'art. 9 legge fallimentare. Il criterio prescelto è quello del tribunale del luogo in cui l'imprenditore ha la sede principale dell'impresa.

Gli organi del fallimento

Gli organi del fallimento sono il giudice delegato, il curatore e il comitato dei creditori. Sono tutti nominati dal tribunale fallimentare, ai sensi dell'art. 23 legge fallimentare. Quest'ultimo, che potrebbe considerarsi organo anch'esso della procedura, è tenuto a regolamentarla per intero procedura, e, oltre che alla nomina, provvede alla revoca e alla sostituzione degli altri organi. La riforma del 2006 ha notevolmente ridimensionato il ruolo del giudice delegato, che un tempo concentrava tutte le funzioni direttive, mentre oggi, ai sensi dell'art. 25 legge fallimentare, ad esso sono attribuiti solamente "funzioni di vigilanza e controllo sulla regolarità della procedura". Inoltre, il giudice delegato ha a tutt'oggi il potere di approvare il programma di liquidazione e di pronunciarsi sulle domande di ammissione al passivo dei creditori.

Più articolata è la serie di attribuzioni del curatore fallimentare, enucleate all'art. 31 legge fallimentare: gli è, infatti, attribuita la gestione dell'intera procedura e, ai sensi della riforma del 2006, egli è responsabile anche dell'apposizione dei sigilli sui beni del debitore, nonché della formazione dello stato passivo, della redazione dell'inventario, della compilazione dell'elenco dei creditori e della redazione del bilancio dell'ultimo esercizio. Il curatore, inoltre, sotto la mera vigilanza del giudice delegato, è tenuto a compiere, in accordo con il comitato dei creditori, le scelte migliori per la gestione della procedura.

Lo stesso comitato dei creditori ha assunto un ruolo più decisivo dopo la riforma del 2006. Infatti, se in precedenza vantava competenze esigue, ha assunto nella successiva novella un'importanza maggiore già nella prima fase della procedura. Se prima, infatti, aveva solo il compito di fornire il proprio parere nei casi obbligatori e su richiesta del curatore, oggi ha assunto una nuova autonomia. Il comitato dei creditori viene nominato dal giudice delegato entro trenta giorni dalla sentenza di fallimento ed è composto da tre o da cinque membri, scelti tra i creditori in modo tale da garantire una rappresentanza equilibrata. Esso svolge funzioni di vigilanza sull'attività del curatore, di autorizzazione degli atti dallo stesso posti in essere, nonché di rilascio di pareri, sia nei casi previsti dalla legge che su richiesta del tribunale o del giudice delegato, secondo quanto previsto dall'art. 41 legge fallimentare.

Il procedimento

Il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolge dinanzi al tribunale in composizione collegiale e avviene in camera di consiglio, secondo quanto previsto dall'art. 15 legge fallimentare. In particolare, il comma 2 dell'articolo citato prevede che “il tribunale convoca, con decreto apposto in calce al ricorso, il debitore ed i creditori istanti per il fallimento; nel procedimento interviene il pubblico ministero che ha assunto l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento". Ai fini di rapidità processuale è previsto che il decreto di convocazione e il ricorso stesso vengano notificati, a cura della cancelleria, all'indirizzo di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese o dall'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti.

Quanto al contenuto del decreto, è indispensabile che esso contenga l'indicazione che il procedimento sia finalizzato all'accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento ed esso deve fissare un termine non inferiore a sette giorni, prima dell'udienza, per la presentazione di memorie e il deposito di documenti e relazioni tecniche. Inoltre, e in ogni caso, il tribunale dispone che l'imprenditore depositi i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, nonché una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata.

La dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 16 legge fallimentare – sensibilmente rinnovato dal decreto legislativo del 2006 – avviene con sentenza emessa dal tribunale. Nella sentenza vengono nominati il giudice delegato e il curatore; inoltre, vi è l'ordine, per il fallito, di depositare i bilanci, le scritture contabili e fiscali obbligatorie nonché l'elenco dei creditori entro tre giorni. Inoltre, nella stessa sentenza è fissato il luogo, il giorno e l'ora dell'adunanza in cui si procederà all'esame dello stato passivo, operazione che comunque deve avvenire entro il termine perentorio di centoventi giorni. Nella medesima sentenza è poi assegnato ai creditori e dei terzi, che vantano diritti reali o personali sui beni del fallito, un termine (che deve comunque precedere di almeno trenta giorni l'adunanza dei creditori) per proporre domanda di insinuazione al passivo in cancelleria.

La sentenza dichiarativa di fallimento produce i suoi effetti dalla data della pubblicazione, secondo quanto previsto dall'art. 133, comma 1, c.p.c.; invece, nei riguardi dei terzi, gli effetti si producono dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese, secondo la previsione dell'art. 17, comma 2, legge fallimentare. Nei riguardi della sentenza si può proporre reclamo entro trenta giorni, ai sensi dell'art. 18 legge fallimentare.

Gli effetti del fallimento

Quanto agli effetti del fallimento, prodotti dalla sentenza dichiarativa, occorre distinguere tra effetti giuridici nei confronti del fallito (artt. 42, 49 legge fallimentare) e dei creditori (artt. 51, 63 legge fallimentare), nonché sugli atti pregiudizievoli ai creditori e sui rapporti giuridici preesistenti (artt. 64, 83-bis legge fallimentare).

Per quanto attiene agli effetti nei riguardi del fallito, si ricorda che la sentenza di fallimento, ai sensi dell'art. 42 legge fallimentare, "priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento". Vi si devono reputare ricompresi anche i beni che pervengono al fallito durante il fallimento, fatta salva la rinuncia da parte del curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, all'acquisizione degli stessi, qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione siano superiori al valore presumibile di realizzo.

La sentenza dichiarativa di fallimento, poi, ai sensi dell'art. 43 legge fallimentare, determina la perdita, per il fallito, della legittimazione processuale nelle controversie relative ai rapporti di diritto patrimoniale, per le quali potrà stare in giudizio il curatore. È fatto salvo il caso in cui vi siano, a carico di quest'ultimo, imputazioni di bancarotta e se il suo intervento è previsto dalla legge. L'art. 43 legge fallimentare è stato modificato con l'aggiunta di un nuovo comma 3, introdotto dal decreto legislativo 27 giugno 2015 n. 83, ai sensi del quale: “3. L'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo. 4. Le controversie in cui è parte un fallimento sono trattate con priorità. Il capo dell'ufficio trasmette annualmente al presidente della corte di appello i dati relativi al numero di procedimenti in cui è parte un fallimento e alla loro durata, nonché le disposizioni adottate per la finalità di cui al periodo precedente. Il presidente della corte di appello ne dà atto nella relazione sull'amministrazione della giustizia.”

Ancora, ai sensi dell'art. 44 legge fallimentare, la sentenza dichiarativa determina l'inefficacia di ogni atto compiuto dal fallito o di pagamenti dallo stesso ricevuti dopo la sentenza dichiarativa di fallimento; infine, ai sensi dell'art. 48 legge fallimentare, essa fa sorgere l'obbligo in capo al fallito, laddove si tratti di persona fisica, di consegnare la propria corrispondenza al curatore, inclusa quella elettronica, ovvero, qualora il fallito sia persona giuridica, di indirizzare la corrispondenza al curatore.

Per quanto attiene agli effetti nei riguardi dei creditori, essi sono regolati dall'art. 51 legge fallimentare. Si legge che dal giorno della dichiarazione del fallimento nessuna azione (sia essa individuale, esecutiva o cautelare), anche laddove riguardante i crediti maturati durante il fallimento, possa essere iniziata o proseguita sui beni nello stesso compresi. È intuitivo, infatti – come si legge all'art. 52 legge fallimentare – che con l'apertura della procedura fallimentare si apra il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito e quindi, ogni credito, anche munito di diritto di prelazione, "nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge".

Più articolata è la disciplina degli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori: si tratta del tema, affrontato dagli artt. 54, 60 legge fallimentare – della c.d. "revocatoria fallimentare". Vediamo nel dettaglio la sorte degli atti negoziali. Gli atti a titolo gratuito e i pagamenti (con scadenza posteriore alla dichiarazione di fallimento) compiuti dal fallito nei due anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento sono dichiarati privi di effetto rispetto ai creditori. Gli atti a titolo oneroso, i pagamenti e le garanzie, salvo che l'altra parte provi che non conosceva lo stato di insolvenza del debitore, sono invece revocati. Tuttavia, ai sensi dell'art 67-bis, legge fallimentare: “Gli atti che incidono su un patrimonio destinato ad uno specifico affare previsto dall'articolo 2447-bis, primo comma, lettera a) del codice civile, sono revocabili quando pregiudicano il patrimonio della società”.

Per quanto attiene, invece, agli effetti del fallimento sui rapporti giuridici pendenti, entrano in gioco gli artt. 72, 83-bis legge fallimentare. Si legge che nei contratti ancora ineseguiti o non completamente eseguiti da entrambe le parti, in caso di fallimento di una delle due parti, l'esecuzione del contratto rimane sospesa fino a quando il curatore dichiara di subentrare nello stesso in luogo del fallito, assumendo tutti gli obblighi relativi, ovvero di sciogliersi dal medesimo (così specificamente recita l'art. 72 legge fallimentare).

Tra gli effetti determinati dalla sentenza dichiarativa di fallimento, vi è quello, possibile, dell'esercizio provvisorio dell'impresa, che può essere disposto dal tribunale. Si può decidere, anche soltanto per specifici rami d'azienda, laddove l'interruzione delle attività possa arrecare gravi pregiudizi ai creditori. L'esercizio provvisorio dell'impresa può essere successivamente autorizzato dal giudice delegato, su proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori, con un decreto motivato che ne determina anche la durata. Il giudice delegato può ordinare la cessazione dell'esercizio provvisorio qualora il comitato dei creditori, convocato trimestralmente dal curatore per essere informato sull'andamento della gestione, non ravvisi l'opportunità della continuazione. D'altra parte, lo stesso tribunale, laddove ne ravvisi l'esigenza, può in ogni momento decidere per la cessazione dell'esercizio provvisorio, provvedendo con decreto motivato.

Custodia e amministrazione del fallimento

Successivamente alla fase della dichiarazione di fallimento, si entra nella fase – profondamente modificata dalla novella del 2006 -, della custodia e dell'amministrazione delle attività fallimentari.

Rileva, anzitutto, l'art. 84 legge fallimentare, ai sensi del quale il curatore procede, secondo le norme del codice di procedura civile, ad apporre i sigilli sui beni situati presso la sede principale dell'impresa e su tutti gli altri beni del debitore, con la possibilità di chiedere, laddove si riveli necessaria, l'assistenza della forza pubblica. Nell'evenienza in cui tali beni si trovino, invece, in diversi luoghi, per completare le operazioni, l'apposizione dei sigilli può essere delegata ad uno o a più coadiutori designati dal giudice delegato.

Il curatore è poi tenuto a ricevere e a depositare in un luogo idoneo – eventualmente anche presso terzi – una serie di beni che la legge fallimentare ha cura di elencare: le somme di denaro contante; i titoli (compresi quelli scaduti), le scritture contabili, e ogni altra documentazione dallo stesso richiesta o acquisita, se non ancora depositata in cancelleria. Tutto ciò è previsto dall'art. 86 legge fallimentare. Poi, una volta rimossi i sigilli, il curatore deve redigere l'inventario nel più breve termine possibile, avvisando il fallito e il comitato dei creditori, se non presenti, redigendo processo verbale delle attività compiute e prendendo in consegna i beni del fallito. Tanto è previsto dall'art. 87 legge fallimentare.

Il curatore, poi, deve invitare il fallito (o gli amministratori se si tratta di società), a fornire notizie su eventuali altre attività da includere nell'inventario: solo in seguito a tale ulteriore verifica, egli può depositarlo nella cancelleria del tribunale.

Ai sensi dell'art. 89 legge fallimentare, dopo avere esaminato le scritture contabili, gli atti e le notizie della procedura, il curatore deve stilare l'elenco dei creditori e dei titolari di diritti reali e personali, mobiliari e immobiliari e redigere il bilancio dell'ultimo esercizio, se non è stato presentato dal fallito che chiede il proprio fallimento ai sensi dell'art. 14.

Ai sensi dell'art. 90 legge fallimentare, occorre procedere alla formazione del fascicolo (anche informatico) della procedura fallimentare, che viene curato dal cancelliere dopo la pubblicazione della sentenza di fallimento. Vi è il diritto da parte dei soggetti che sono parte della procedura di prenderne visione ed estrarne copia.

L'accertamento del passivo

L'accertamento del passivo è una fase che caratterizza la procedura fallimentare e la distingue da tutte le altre procedure concorsuali. Essa viene presa in considerazione dall'art. 92 legge fallimentare, ai sensi del quale il curatore, esaminate le scritture contabili e gli altri atti, comunica "senza indugio" ai creditori del fallito (e ai titolari di diritti reali, personali, mobiliari o immobiliari sui beni del fallito), a mezzo posta ordinaria, elettronica o telefax, che è possibile partecipare al concorso trasmettendo "domanda di ammissione al passivo", secondo i requisiti che sono indicati all'art. 93; viene altresì indicata la data fissata per l'esame dello stato passivo e quella entro la quale vanno presentate le domande; viene inoltre inserita qualunque altra informazione che possa agevolare la presentazione della domanda e il suo indirizzo di posta elettronica certificata.

Ai sensi dell'art. 95 legge fallimentare – profondamente modificato dalla riforma del 2006 – una volta esaminate le domande presentate, il curatore predispone elenchi separati dei creditori e dei titolari degli altri diritti sui beni del fallito, rassegnando motivate conclusioni e depositando il progetto di stato passivo in cancelleria almeno quindici giorni prima dell'udienza fissata per l'esame, trasmettendolo al contempo ai creditori. Si legge, inoltre, che “In relazione al numero dei creditori e alla entità del passivo, il giudice delegato può stabilire che l'udienza sia svolta in via telematica con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione dei creditori, anche utilizzando le strutture informatiche messe a disposizione della procedura da soggetti terzi”. All'udienza, il giudice delegato decide su ciascuna domanda nei limiti delle conclusioni formulate e avuto riguardo alle eccezioni del curatore, oltre a quelle rilevabili d'ufficio e a quelle formulate agli altri interessati, potendo anche sentire il fallito, su sua richiesta.

Ai sensi dell'art. 96 legge fallimentare, una volta dichiarata l'esecutività dello stato passivo con decreto motivato del giudice delegato, il curatore è tenuto a comunicare ad ogni creditore l'esito della domanda, ad effettuare il deposito in cancelleria dello stato passivo e a informare tutti i destinatari del diritto di proporre opposizione secondo le disposizioni di cui all'art. 97 e 98 legge fallimentare.

Liquidazione e ripartizione dell'attivo

La liquidazione dell'attivo è disciplinata dall'art. 104-ter legge fallimentare, che ha subito modificazioni ad opera delle novelle del 2006, del 2007 e, recentemente, nel 2016. Si legge che “Entro sessanta giorni dalla redazione dell'inventario e in ogni caso non oltre centottanta giorni dalla sentenza dichiarativa di fallimento, il curatore predispone un programma di liquidazione da sottoporre all'approvazione del comitato dei creditori”. Occorre osservare che il programma deve essere reputato un atto di pianificazione e deve avere un contenuto specifico.

Il curatore – che se viola il termine di centottanta giorni rischia la revoca per giusta causa – fatto salvo quanto previsto dall'art. 107 legge fallimentare, può essere autorizzato dal giudice delegato ad affidare ad altri professionisti o a società specializzate alcune incombenze relative alla liquidazione dell'attivo. Su richiesta del comitato dei creditori il programma può essere modificato, mentre il curatore può presentare un supplemento del piano di liquidazione. Prima della approvazione del programma, il curatore può liquidare beni, su autorizzazione del giudice delegato e sentito il comitato dei creditori se già nominato, solo se dal ritardo può derivare pregiudizio all'interesse dei creditori. Il curatore, inoltre, su autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all'attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni, se la liquidazione non risulta conveniente. In questo caso, il curatore lo comunica ai creditori che, in deroga all'art. 51, possono intraprendere azioni esecutive o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore. Il programma, una volta approvato, è comunicato al giudice delegato, che autorizza l'esecuzione degli atti conformi allo stesso. La violazione senza giustificato motivo dei termini previsti dal programma di liquidazione è giusta causa di revoca del curatore, come in presenza di somme disponibili per la ripartizione, il mancato rispetto dell'obbligo previsto dall'articolo 110, comma 1, legge fallimentare.

L'art. 107 legge fallimentare disciplina il modo in cui devono eseguirsi le vendite. Si prevede, infatti, che “Le vendite e gli atti di liquidazione possono prevedere che il versamento del prezzo abbia luogo ratealmente (...). In ogni caso, al fine di assicurare la massima informazione e partecipazione degli interessati, il curatore effettua la pubblicità' prevista dall'art. 490, primo comma, del codice di procedura civile, almeno trenta giorni prima dell'inizio della procedura competitiva”.

Ai sensi dell'art. 109 legge fallimentare, poi, una volta eseguite le vendite, il giudice delegato provvede alla distribuzione della somma ricavata.

Procedimento di ripartizione

Il procedimento di ripartizione delle somme disponibili è disciplinato dall'art. 110 legge fallimentare. Si prevede in capo al curatore l'obbligo di predisporre, ogni quattro mesi, un prospetto delle somme disponibili e un progetto di riparto delle stesse, avverso il quale è possibile proporre reclamo, nelle forme previste dall'art. 26 legge fallimentare, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla comunicazione dell'avvenuto deposito. Inoltre, in pendenza dei giudizi di cui all'art. 98 legge fallimentare, il curatore indica nel progetto di ripartizione, per ogni creditore, le somme immediatamente ripartibili e quelle ripartibili solo previo rilascio, in favore della procedura, di una fideiussione autonoma e irrevocabile, in grado di garantire la restituzione delle somme ripartite in eccesso, anche in forza di provvedimenti provvisoriamente esecutivi resi nei giudizi di cui all'articolo 98, oltre agli interessi.

Una volta decorso il termine per il reclamo, il giudice delegato, su richiesta del curatore, dichiara esecutivo il progetto di ripartizione, per cui si procede alla liquidazione delle somme ricavate, secondo l'ordine previsto dall'art. 111 legge fallimentare, che comprende i crediti prededucibili, i crediti ammessi con prelazione, i crediti chirografari.

Una volta che sia stata conclusa la liquidazione dell'attivo e sia stato presentato il rendiconto del curatore a norma dell'art. 116 legge fallimentare, il giudice delegato ordina il riparto finale ai sensi dell'art. 117 legge fallimentare.

La chiusura del fallimento

In riferimento al momento della chiusura del fallimento, rileva l'art. 118 legge fallimentare: “Se nel termine stabilito nella sentenza dichiarativa di fallimento non sono state proposte domande di ammissione al passivo; quando, anche prima che sia compiuta la ripartizione finale dell'attivo, le ripartizioni ai creditori raggiungono l'intero ammontare dei crediti ammessi, o questi sono in altro modo estinti e sono pagati tutti i debiti e le spese da soddisfare in prededuzione; quando è compiuta la ripartizione finale dell'attivo; quando nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura”. A norma del comma 2 del medesimo art. 118 legge fallimentare, laddove il fallimento coinvolga una società, il curatore ne chiede la cancellazione dal registro delle imprese e la chiusura del fallimento determina anche la chiusura della procedura estesa ai soci, salvo che nei confronti di qualcuno degli stessi non sia stata aperta una procedura di fallimento come imprenditore individuale.

Inoltre, in seguito alla modifica introdotta nel 2015 sul testo dell'art. 118 legge fallimentare, occorre ricordare che la disciplina della chiusura del fallimento, quando è compiuta la ripartizione finale dell'attivo, non può essere ostacolata dalla pendenza di controversie in cui il fallimento in questione, nella persona del curatore, è coinvolto.

Merita di essere ricordato, infine, l'art. 120 legge fallimentare, ai sensi del quale con il decreto di chiusura del fallimento cessano gli effetti dello stesso sul patrimonio del fallito e le conseguenti incapacità personali e decadono gli organi preposti alla procedura.

Il nuovo codice della crisi e dell'insolvenza

Si è già accennato alla riscrittura complessiva della disciplina concorsuale operata con l'introduzione del ‘Codice della crisi e dell'insolvenza'. Anzitutto, la nuova legge sopprime definitivamente la dicitura ‘fallimento' sostituita dall'espressione ‘liquidazione giudiziale'. Il cambio di rotta, invero, non è solo terminologico, ma anche sostanziale. Infatti, la fase liquidatoria, nella nuova disciplina, è concepita come solo eventuale e non certamente come la soluzione preferibile: ad essere privilegiata, infatti, è la tempestiva individuazione dei motivi del dissesto e la sopravvivenza dell'impresa stessa.

Sommario