Irrinunziabilità del diritto alle ferie annuali e indennità sostitutiva per quelle non godute al momento della cessazione del rapporto

Annachiara Lanzara
16 Giugno 2020

Il diritto del prestatore di lavoro al pagamento dell'indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute sussiste ogni qualvolta la mancata fruizione delle stesse sia riconducibile alla impossibilità per il datore di lavoro – anche se non dipesa da sua colpa – di adempiere all'obbligazione di consentirne la relativa fruizione. L'indennità sostitutiva delle ferie non godute ha natura retributiva...
Abstract

Il diritto del prestatore di lavoro al pagamento dell'indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute sussiste ogni qualvolta la mancata fruizione delle stesse sia riconducibile alla impossibilità per il datore di lavoro – anche se non dipesa da sua colpa – di adempiere all'obbligazione di consentirne la relativa fruizione.

L'indennità sostitutiva delle ferie non godute ha natura retributiva, in quanto rappresenta la corresponsione, a norma degli artt. 1463 c.c. e 2037 c.c., del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica.

La sola ipotesi di esclusione del diritto del lavoratore alla fruizione dell'indennità sostitutiva per le ferie non godute si ha quando il datore fornisca in giudizio la prova di aver offerto un adeguato lasso di tempo per il godimento delle ferie, di cui il lavoratore non abbia usufruito, incorrendo così nella mora credendi.

(Nel caso di specie, essendo il rapporto di lavoro cessato per morte del lavoratore e, dunque, non essendo più possibile beneficiare delle ferie maturate in corso di rapporto, queste non possono essere che monetizzate in favore degli eredi, non potendo rinvenirsi, nel caso concreto, alcuna offerta del datore di godere del periodo di ferie alla quale il lavoratore abbia opposto rifiuto).

Il caso

La Corte d'appello di Firenze, confermando la sentenza impugnata nella parte in cui aveva rigettato l'opposizione proposta dalla Società ricorrente avverso il decreto con cui era stato ingiunto il pagamento della somma pari ad € 37.547,78 a titolo di indennità per ferie non godute a favore degli eredi del lavoratore defunto, in capo al quale era originariamente maturato l'anzidetto diritto, respingeva le doglianze con cui la Società datrice di lavoro si doleva della decisione sul punto assunta dal Giudice di prime cure.

Entrando nel merito della vicenda, la Corte d'appello adita riteneva dovuto l'importo richiesto a tale titolo, sull'assunto che il diritto alla corresponsione dell'indennità sussiste a prescindere dalla responsabilità del datore di lavoro per il mancato godimento delle ferie in capo al prestatore di lavoro, e sul rilievo che nel corso del giudizio non era stata allegata né provata alcuna specifica offerta da parte del datore volta a consentire il godimento delle ferie da parte del lavoratore che fosse stata poi disattesa dal medesimo.

Ancora, sempre nel merito della vicenda, la Corte territoriale adita riteneva altresì corretta la quantificazione della somma da erogare, calcolata tenuto conto delle buste paga predisposte dal datore e non specificamente contestate nel corso del giudizio e disattendeva l'eccezione di prescrizione sollevata dalla Società appellante, osservando che, decorrendo il dies a quo dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, la prescrizione di tale diritto non era ancora maturata.

Avverso tale pronuncia, la Società proponeva ricorso per cassazione affidandolo a 2 motivi. Opponevano difese gli eredi.

La questione

Il caso in esame consente di affrontare la delicata questione concernente il diritto alla corresponsione dell'indennità sostitutiva delle ferie quando, al termine del rapporto di lavoro, risulti che il prestatore di lavoro le abbia maturate ma non le abbia, di fatto, godute.

Il tema de quo assume notevole rilevanza in ragione della pluralità di questioni ad esso sottese che i Giudici sia di merito che di legittimità sono sovente chiamati ad affrontare.

Nel dettaglio, l'ordinanza in commento evidenzia un contrasto, nella giurisprudenza di legittimità, concernente il rapporto tra diritto alle ferie e monetizzazione del diritto alle stesse quando, al termine del rapporto di lavoro, il prestatore, pur avendo maturato ferie, non le abbia godute.

Prima di approfondire tale contrasto è, però, doveroso, in via preliminare, esaminare la questione giuridica portata all'attenzione della Suprema Corte nella pronuncia ivi esaminata.

La quaestio iuris oggetto dell'ordinanza in commento sta nel rapporto sussistente tra l'irrinunciabilità del diritto alle ferie, costituzionalmente protetto al comma 3 dell'articolo 36 della Costituzione, ed il correlato diritto del prestatore di lavoro alla corresponsione dell'indennità sostitutiva di quelle maturate durante il rapporto di lavoro ma non godute.

A tal riguardo, è bene brevemente ripercorrere la disciplina vigente in materia. Come noto, il contratto di lavoro subordinato è un contratto di durata dal quale sorgono obbligazioni che sono destinate ad essere adempiute nel corso del tempo. Tale “dimensione temporale” dell'adempimento comporta l'impiego delle energie psicofisiche del lavoratore, per la cui tutela il Legislatore ha introdotto limiti di durata giornaliera e settimanale della prestazione, oltre che adeguati periodi di riposo nel corso della giornata, della settimana e dell'anno, come si evince dall'art. 36, comma 3, Cost., alla stregua del quale “il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie retribuite e non può rinunciarvi” e dall'art. 2109 c.c., per cui “il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore”.

Invero, il diritto al riposo settimanale trova espresso riconoscimento anche nelle fonti di diritto internazionale, quali le Convenzioni OIL n. 14/1921 e n. 106/1957, ed in quelle comunitarie, quali l'art. 5 della direttiva 2003/88/CE, il cui principio di diritto è stato integralmente trasposto nell'art. 10, d.lgs. n. 66 del 2003, a norma del quale il lavoratore ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane che deve essere goduto (salva diversa previsione dei contratti collettivi) almeno per due settimane consecutive nell'anno di maturazione, mentre le restanti settimane possono essere fruite nei diciotto mesi successivi al termine dello stesso; tale periodo minimo deve essere goduto e non può essere monetizzato, eccezion fatta che per il caso di risoluzione del rapporto di lavoro.

Orbene, nel caso oggetto della presente disamina, la questione verte proprio attorno al tema della sussistenza o meno del diritto in capo agli eredi alla corresponsione dell'indennità sostitutiva delle ferie non godute e non più godibili a causa della cessazione del rapporto per morte del lavoratore.

Per la tesi sostenuta dalla Società, l'indennità sostitutiva delle ferie non godute non avrebbe potuto essere erogata agli eredi in quanto, non essendo sorto alcun diritto in capo al de cuius (che non aveva fruito del periodo offerto, per il godimento delle ferie, dal datore), nessuna situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela avrebbe potuto trasferirsi in capo agli eredi alla morte del lavoratore.

Da ciò la ricorrente faceva discendere che la sola azione che in astratto gli eredi avrebbero potuto esperire sarebbe stata quella volta al risarcimento del danno subito a causa della mancata fruizione delle ferie, ma che, in concreto, nemmeno tale azione avrebbe potuto essere avanzata poiché, non avendola esercitata nel lasso di tempo dovuto, la stessa si era inevitabilmente prescritta.

La quaestio iuris appena delineata, in termini generali prima e speciali poi, permette di condurre una riflessione sul tema del diritto alla corresponsione dell'indennità sostitutiva che spetta agli eredi del lavoratore quando il godimento delle ferie sia divenuto impossibile in ragione della cessazione del rapporto di lavoro per morte del lavoratore stesso, come avvenuto nella vicenda ivi esaminata.

Invero, proprio con riferimento a questo profilo, la fattispecie sottoposta all'attenzione della Suprema Corte permette di ribadire il principio di diritto, richiamato per l'appunto anche nell'ordinanza in commento, secondo cui il mancato godimento delle ferie postula, una volta divenuto impossibile per il datore adempiere all'obbligazione di consentire la fruizione delle ferie, anche senza sua colpa, il diritto del lavoratore al pagamento dell'indennità sostitutiva, che costituisce il corrispettivo, data la natura squisitamente retributiva dell'indennità, ai sensi degli articoli 1463 e 2037, c.c., del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica. Di conseguenza, l'esclusione del diritto del lavoratore all'indennità sostitutiva per le ferie non godute si ha solamente quando il datore dimostri in giudizio di avere offerto al lavoratore un adeguato lasso di tempo per il godimento delle ferie, di cui lo stesso non abbia usufruito, incorrendo così nella “mora credendi” (Cass., sez. lav., n. 2496 del 2018).

Orbene, alla luce di tali principi risulta evidente che, ove non sia più possibile beneficiare delle ferie maturate in corso di rapporto, come accaduto nel caso di specie, essendo il rapporto di lavoro cessato per morte del lavoratore, queste non possono che essere monetizzate, specie quando risulti che il prestatore di lavoro non abbia opposto alcun rifiuto all'offerta del datore di godere delle stesse.

Le soluzioni giuridiche

Preliminarmente, deve evidenziarsi come la Corte di cassazione nella pronuncia in commento si sia fermamente attenuta ai principi di legge, interni ed internazionali, sopra richiamati, affermando che le ferie non più fruibili dovessero essere monetizzate, alla luce dell'irrinunciabilità del diritto alle stesse costituzionalmente sancita all'articolo 36, comma 3, Cost.

Come anticipato ab origine, deve rilevarsi che il principio di diritto condiviso e praticato dal Collegio giudicante nell'ordinanza in commento se, da un lato, si pone sulla falsariga di alcuni, anche recenti, precedenti della Corte di legittimità sul punto (cfr. Cass., sez. lav., n. 2496 del 2018) dall'altro, però, contrasta con un altrettanto consolidato orientamento assunto dalla Suprema Corte improntato ad una differente ratio iuris.

Ed infatti con la sentenza n. 23967 del 2017 la Suprema Corte dirime la questione del diritto alla monetizzazione delle ferie maturate e non godute al termine del rapporto di lavoro affermando un principio giuridico differente.

Nel dettaglio, con la pronuncia da ultimo richiamata, la Corte di cassazione, giudicava corretto l'iter logico motivazionale seguito dalla Corte di merito adita sulla base del principio di diritto secondo cui alcun diritto all'indennità sostitutiva delle ferie non godute spetta in capo al prestatore di lavoro che, pur avendo il potere di attribuirsi il periodo di ferie senza alcuna ingerenza da parte del datore di lavoro, non lo eserciti e non ne fruisca, a meno che non riesca a provare in sede di giudizio che tale impossibilità sia imputabile a necessità aziendali di carattere eccezionale ed obiettivo (Sul punto: Cass. 14 marzo 2016, n. 4920; Cass. 13 giugno 2009, n. 13953; Cass. 7 giugno 2005, n. 11786; ed in motivazione con riferimento alla dirigenza pubblica Cass., sez. un., 17 aprile 2009, n. 9146 e Cass. 26 gennaio 2017, n. 2000).

Il ragionamento tenuto dalla Suprema Corte nella decisione della sentenza appena richiamata trae origine dall'esegesi del principio di cui all'art. 7 della direttiva 2003/88/CE alla stregua del quale “il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un'indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro”, ripreso poi anche dall'art. 10 d.lgs. n. 66 del 2003, e si sviluppa sulla considerazione che il divieto di monetizzazione de quo, ne uscirebbe vanificato qualora se ne consentisse la sostituzione con un'indennità, posto che l'erogazione di una somma non garantirebbe, allo stesso modo di un adeguato ristoro, il medesimo livello di tutela della salute psicofisica del lavoratore che gli spetta a fronte del dispendio delle energie psicofisiche perdute nello svolgimento della prestazione di lavoro.

Da ciò la Suprema Corte fa discendere che l'eccezione al divieto di monetizzazione prevista nella seconda parte delle disposizioni appena richiamate, operi solo ed unicamente nei limiti delle ferie non godute relative al periodo ancora pendente al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, fermo restando il divieto di monetizzazione di quelle riferibili agli anni antecedenti, dal momento che rispetto a queste ultime il datore di lavoro avrebbe dovuto assicurarne un'effettiva fruizione.

Secondo il ragionamento condotto dalla Suprema Corte, la ratio di tale principio è rinvenibile nell'assunto per cui una differente interpretazione dei principi in tema di monetizzazione delle ferie non godute finirebbe per rendere inoperante la regula iuris generale, risolvendosi nella previsione di una indiscriminata convertibilità pecuniaria del diritto che sarebbe solamente differita al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

A sostegno di tale principio la Corte di legittimità aggiunge che la soluzione accolta, comunque non lascerebbe il lavoratore privo di tutela poiché, sia in corso di rapporto che al termine dello stesso, il medesimo potrebbe azionare la tutela civilistica, facendo valere l'inadempimento del datore che abbia violato le norme inderogabili in tema di diritto alle ferie sopra richiamate, negando al lavoratore l'incomprimibile recupero delle energie psico-fisiche impiegate.

Sul punto, però, non può farsi a meno di evidenziare che l'inadempimento deve essere addebitabile al soggetto nei cui confronti l'azione di danno viene esperita e che, pertanto, è necessario che il mancato godimento delle ferie sia derivato da una causa imputabile proprio allo stesso datore.

Orbene, tale condizione di certo non si verifica quando il lavoratore, pur avendo il potere di attribuirsi liberamente le ferie, senza condizionamento da parte del titolare dell'impresa, non lo eserciti. In tale ipotesi, infatti, la mancata fruizione delle ferie rappresenta la conseguenza di un'autonoma scelta del lavoratore che esclude la configurabilità di un inadempimento colpevole del datore di lavoro.

Da un esame della sentenza in esame può desumersi che il principio di diritto che la Corte Suprema ha voluto esprimere è quello per cui la monetizzazione delle ferie maturate e non godute deve essere limitata all'annualità in corso, in quanto si tratta di ferie delle quali il prestatore di lavoro avrebbe potuto altrimenti godere, qualora il rapporto non fosse stato risolto ad iniziativa del datore di lavoro.

Senza ombra d'alcun dubbio è chiaro dunque come il principio di diritto espresso nella sentenza esaminata (Cass., sez. lav., n. 23967 del 2017) si ponga in evidente contrasto col principio espresso dalla Suprema Corte nell'ordinanza in commento, in quanto limita il diritto alla monetizzazione delle ferie non godute al solo periodo dell'annualità in corso e nega la corresponsione dell'indennità relativa al periodo antecedente, sulla base dell'assunto per cui la monetizzazione dei periodi precedenti vanificherebbe la portata della regola consacrata nell'art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2003 che ha dato attuazione alla direttiva 2003/88/CE, secondo cui l'erogazione dell'indennità non può essere ritenuta equivalente all'effettivo riposo cui ciascun prestatore di lavoro ha diritto, nell'auspicato fine di garantire l'incomprimibile tutela della salute psicofisica dello stesso.

Tale regula iuris si pone in inevitabile contrasto con quanto affermato nell'ordinanza in commento alla stregua della quale, dal mancato godimento delle ferie deriva il diritto del lavoratore al pagamento dell'indennità sostitutiva che ha natura retributiva in quanto rappresenta la corresponsione del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica, diritto che può essere negato solo ed unicamente quando il datore provi in giudizio di aver offerto adeguato tempo per il godimento delle ferie di cui il lavoratore non abbia usufruito, incorrendo così nella mora credendi.

Osservazioni

In conclusione, tirando le fila del discorso, è interessante osservare come in tema di ferie non godute e diritto alla corresponsione dell'indennità sostitutiva delle stesse si siano parallelamente affermati due distinti orientamenti che portano a soluzioni giuridiche parzialmente difformi, che potrebbero ledere l'interesse che tanto gli esperti del diritto quanto i cittadini ripongono nella certezza del diritto.

Venendo al dettaglio, l'orientamento giuridico per primo analizzato – quello oggetto dell'ordinanza in commento, che ribadisce quello già espresso da Cass. n. 2496 del 2018 – postula il principio per cui il diritto del lavoratore al pagamento dell'indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute sussiste ogni qualvolta (a fronte della mancata fruizione delle stesse da parte del lavoratore) sia divenuto impossibile per il datore, anche senza sua colpa, adempiere all'obbligazione di consentire al lavoratore di fruirne. L'esclusione del diritto all'indennità sostitutiva si ha solo quando il datore fornisca prova di aver offerto un adeguato periodo di tempo per il godimento delle ferie, di cui il lavoratore non abbia usufruito, incorrendo nella mora credendi.

Tale orientamento confligge, però, col principio di diritto affermato dalla sentenza richiamata nel corso della trattazione (Cass., sez. lav., n. 23967 del 2017) secondo cui il divieto di monetizzazione delle ferie di cui alla direttiva 2003/88/CE (cosi come ripreso dall'art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2003) è finalizzato a garantire il godimento effettivo delle stesse, che sarebbe vanificato qualora se ne consentisse la sostituzione con un'indennità, la cui erogazione non può essere ritenuta equivalente alla necessaria tutela della sicurezza e della salute che spetta a ciascun lavoratore. L'eccezione al principio opera per le ferie non godute relative al periodo pendente al momento della risoluzione del rapporto e non consente la monetizzazione di quelle riferibili agli anni antecedenti.

In tale situazione di incertezza giurisprudenziale, che i giudici di legittimità sono chiamati a superare, ciò su cui pare doveroso incentrare la propria riflessione, al fine di impegnarsi ad osservare in modo corretto la legge, è la natura inderogabile del diritto (irrinunciabile) alle ferie, consacrata tanto nelle norme del diritto interno, quanto in quelle del diritto europeo ed internazionale. Dal combinato disposto delle disposizioni in materia richiamate, pare che l'intentio legis debba rinvenirsi della volontà di garantire, ad ogni modo, adeguato ristoro al prestatore di lavoro a fronte degli sforzi psicofisici condotti dallo stesso nell'esercizio della prestazione, anche laddove ciò implichi la monetizzazione del diritto in questione.

Invero, anche da una rapida analisi della giurisprudenza della Corte di giustizia UE sul tema, pare desumersi la regola per cui, al termine del rapporto di lavoro, le ferie non godute devono essere monetizzate, pena l'illegittimità delle disposizioni o delle prassi nazionali che limitino tale diritto disponendo condizioni non previste dalla Direttiva.

In senso conforme alla natura irrinunciabile del diritto alle ferie ed alla correlata monetizzazione del diritto alle stesse, allorquando sia divenuto impossibile goderne, è parsa nel tempo orientarsi anche la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 95 del 2016, ha posto in evidenza come il legislatore correli il divieto di corrispondere trattamenti economici sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto sia riconducibile ad un comportamento imputabile al lavoratore o a circostanze che comunque consentano di calcolare in tempo la possibilità di fruire delle ferie e di contemperare le scelte organizzative del datore con le preferenze del lavoratore in merito al periodo in cui godere delle ferie.

Pertanto, anche sulla base di quanto osservato dal Giudice delle leggi, può ragionevolmente desumersi che la disciplina attualmente vigente in materia di monetizzazione delle ferie non godute sia nel senso di escludere dall'ambito applicativo del divieto tutte quelle vicende estintive del rapporto di lavoro che non coinvolgono la volontà del prestatore e le scelte organizzative del datore di lavoro.

In conclusione, tale interpretazione appare l'unica in grado di non pregiudicare il diritto alle ferie, così come garantito dalla Carta costituzionale (art. 36, comma 3) dalle fonti del Diritto internazionale (Convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro n. 132/1970) e da quelle del Diritto europeo (art. 31 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea; direttiva 2003/88/CE).

Diversamente opinando, tale diritto inderogabile sarebbe violato se la cessazione dal servizio vanificasse, senza alcuna compensazione economica, il godimento delle ferie ingiustamente compromesso da cause non imputabili al lavoratore.

Guida all'approfondimento

- Lai M., Nuova disciplina del tempo di lavoro e tutela della salute e della sicurezza: riflessioni sul d.lgs. n. 66/2003, in Riv.it. dir. lav., 2004, 1, 63.

- Persiani M., Fondamenti di diritto del lavoro, Padova, 2015.

- Pessi R., Lezioni di diritto del lavoro, Torino, 2018.

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