Assicurazione privata contro gli infortuni e COVID19

17 Giugno 2020

La problematica relativa alla pertinenza dei “danni da COVID19” all'oggetto dell'assicurazione privata contro gli infortuni dev'essere risolta sulla base dell'interpretazione delle clausole che connotano questa specie di contratto assicurativo “socialmente tipico” e tenendo conto della netta differenziazione formatasi, nel corso del tempo, tra la nozione di “infortunio” che gli è propria e quella di “infortunio sul lavoro” tipica della relativa assicurazione sociale.
Art. 42 del decreto “Cura Italia” e causa “violenta” dell'infortunio

Il secondo comma dell'art. 42 del d.l. n. 18/2020, convertito in l. n. 27/2020, ha prescritto che «nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro» l'INAIL «assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato», così stabilendo l'equiparazione all'infortunio dell'infezione virale da COVID19.

In realtà, questa disposizione ha esplicitato l'equiparazione della “causa virulenta” dell'infortunio sul lavoro alla “causa violenta” di cui all'art. 2 del d.P.R. n. 1124/1965 affermatasi, in un certo momento storico e per ben precise ragioni, nella giurisprudenza lavoristica (Cass. civ. n. 5764/1982) e, poi, nella prassi amministrativa dell'INAIL (circolare n. 74 del 23.11.1995), come l'Istituto stesso ha ricordato nella sua circolare n. 13 del 3.4.2020.

Quindi, nulla di nuovo sotto il sole si potrebbe dire, se non fosse che la nuova norma ha suscitato un dibattito sulla possibilità di applicare il medesimo principio alle assicurazioni private contro gli infortuni.

La tesi, accreditata da alcuni ed avversata da altri, non è stata motivata tanto in relazione al disposto dell'art. 42, bensì sostenendo che pure le infezioni virali rientrino a pieno titolo nella nozione di infortunio contenuta nei contratti di assicurazione privata: «evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che procuri all'assicurato lesioni fisiche obiettivamente constatabili» [IVASS, Allegato al Bollettino statistico L'attività assicurativa nel comparto salute (2013-2018), Anno VII - n. 1, gennaio 2020].

Essa viene fondata sul valore semantico del lemma “violenta che nella suddetta definizione contribuisce a connotare l'infortunio quale “causa” delle lesioni subite dall'assicurato.

Poiché “violento” sarebbe ogni evento contraddistinto dalla “subitaneità” e tale dovrebbe reputarsi pure l'agente infettivo del COVID19, questo dovrebbe essere annoverato fra le cause dell'“infortunio” anche ai fini delle assicurazioni private.

Assicurazione privata contro gli infortuni, nascita e sviluppo dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni del lavoro in Italia

Si è anche sostenuto che, nel nostro Paese, l'assicurazione privata si sarebbe sviluppata successivamente all'affermarsi dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e che la nozione di infortunio sarebbe stata elaborata dalla medicina legale, venendo solo in seguito mutuata dal mercato assicurativo, per dar vita alle polizze private contro gli infortuni.

In realtà, è vero l'esatto contrario.

L'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni degli “operai” venne introdotta dalla legge 17 marzo 1898, n. 80, non già affidandone la gestione ad un ente pubblico, com'è oggi, bensì prescrivendo ad alcune categorie di datori di lavoro di stipulare un contratto di assicurazione privata a favore dei propri dipendenti, «un po' come l'attuale responsabilità civile automobilistica» [DE MATTEIS, Infortuni sul lavoro e malattie professionali (assicurazione contro), D. Comm, Aggiorn. II, 2003, 491].

Quindi, inizialmente non venne creato un sistema pubblico di “assicurazione sociale”, al quale si pervenne solo per effetto di un processo evolutivo avviato con la legge 22 giugno 1933, n. 860 istitutiva dell'INAIL, ma si prescrisse ai datori di lavoro a concludere un contratto assicurativo “presso Società o imprese private d'assicurazione” (art. 16 l. n. 80/1898).

Dunque, le assicurazioni private contro gli infortuni (ovvero “per le disgrazie accidentali”) già esistevano quando nacque questa prima forma di assicurazione obbligatoria.

Fu, quindi, la neonata assicurazione obbligatoria a mutuare lo schema negoziale proprio del modello privatistico, e non il contrario.

E ciò per la ben precisa ragione che, come ha osservato la dottrina, nella prospettiva del legislatore liberale di fine ottocento, «l'assicurazione costitu[ì] il mezzo per ripartire sull'industria – ossia sull'insieme della società che all'industria fa capo – il rischio che non riguarda affatto il singolo, ma la totalità» degli industriali (MORELLO, Alle origini della tutela degli infortuni sul lavoro, Dir. Sicur. Lav., 2016, 30).

La base concettuale del nuovo istituto era, invero, rappresentata dalla necessità di ripartire il “rischio professionale” del datore di lavoro secondo il modello tipico dell'assicurazione privata, e non ponendosi in un'ottica previdenziale, diretta a tutelare i bisogni del lavoratore, che solo molto tempo dopo avrebbe condotto a forgiare il sistema delle “assicurazioni sociali”.

Con l'ovvia conseguenza che l'assicurazione di diritto privato imposta dalla legge n. 80/1898 «continu[ò] a rimanere legata agli inflessibili schemi del diritto commerciale, ad essere cioè un'assicurazione strettamente privatistica, basata sul contratto stipulato tra datore di lavoro ed ente assicuratore» (MORELLO, ivi, 39).

L'assicurazione contro gli infortuni era già ben nota al mercato italiano di fine ottocento, con la denominazione di «assicurazion[e] contro i danni prodotti da disgrazie accidentali» e già allora era a volte offerta assieme a quella, da essa ben distinta, inerente ai danni causati “da malattie (TOJA e altri, Assicurazione, in Enc. It., 1930), come sovente avviene pure ai giorni nostri.

Tanto vere sono queste osservazioni che, nel 1896, Assicurazioni Generali aveva costituito quella che oggi chiameremmo una Compagnia “monoramo”, vale a dire la Società anonima italiana contro gli infortuni (PADOA SCHIOPPA, Le assicurazioni in Milano dal 1815 al 1915, in Storia di Milano, XV, Milano, 1962, 1041), alla quale trasferì l'intero portafoglio del ramo “infortuni” che esercitava già da almeno quindici anni (MARIZZA, Il tempo del leone, Fontane di Villorba, 2015, 52).

E già nel 1881 è documentato un premio assegnato dall'Esposizione nazionale di Milano alla ditta Sutermeister di Intra per aver assicurato, quattro anni prima, i propri operai contro gli infortuni sul lavoro [LUZZATTI, Le rivelazioni della previdenza all'Esposizione nazionale di Milano, in Nuova Antologia(I), XXI, 3].

Va da sé che fu proprio alla nozione di infortunio elaborata dalla prassi mercantile in materia di assicurazione contro gli infortuni che si uniformò il nascente sistema dell'assicurazione «da infortuni che colpiscono gli operai sul lavoro» istituito dalla legge n. 80/1898.

Del resto, l'art. 7 della legge identificava l'oggetto della nuova assicurazione solo con un generico riferimento al rischio riguardante «tutti i casi di morte o lesioni personali provenienti da infortunio, che avvenga per causa violenta in occasione di lavoro», così rinviando alla prassi contrattuale già in essere la specificazione di tale nozione.

E', poi, indiscutibile che, a quell'epoca, la causa “violenta” fosse circoscritta agli eventi di natura traumatica.

Lo testimoniano proprio i giuslavoristi, osservando che «quando fu canonizzata, nell'art. 7 della legge 80/1898, l'espressione causa violenta evocava in modo innocente il carattere traumatico delle cause meccaniche che costituivano la categoria prevalente di fattori infortunistici, secondo lo sviluppo tecnologico del tempo» (DE MATTEIS, opera citata, 502; identiche considerazioni si leggono nella motivazione di Cass. civ. n. 239/2003).

Del resto, il concetto di causa violenta intesa come vis corpore corpori illata, o quanto meno come energia abnorme dotata di abnorme intensità (CARNELUTTI, Infortuni sul lavoro, Roma, 1913, I, 142 e 147), era pienamente coerente con i bisogni della società del tempo, nel pieno della prima rivoluzione industriale, dominata dalla meccanizzazione e dal moltiplicarsi dei rischi traumatici da questa indotti.

Tanto più che la nuova assicurazione obbligatoria riguardava non già tutti i lavoratori, ma esclusivamente gli “operai” ovvero proprio i protagonisti di quella rivoluzione industriale che a quella particolare classe di rischi traumatici era più direttamente esposta a causa dell'«introduzione di nuovi macchinari sempre più perfezionati, ma, il più delle volte sempre più pericolosi» (QUARANTA, Le origini dell'assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro…, in Riv. inf. mal. prof., 2013, I, 299).

Ma se questa identificazione del rischio assicurato in un primo momento era parsa in sintonia con le esigenze del lavoro operaio in quella fase dello sviluppo industriale, essa si mostrò ben presto inadeguata a proteggerlo da tutti i rischi propri di tale attività.

Da questa constatazione iniziò, agli albori del novecento, il lungo cammino che portò l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro ad affrancarsi progressivamente dal cordone ombelicale che la legava alle assicurazioni private, recidendo il legame col concetto di “rischio assicurato”, proprio di queste, per dar vita ad un sistema di assicurazione sociale la cui finalità fosse, invece, costituita dalla «protezione del lavoratore, in particolare dal bisogno derivante dall'infortunio sul lavoro» (DE MATTEIS, opera citata, 495).

Come si vedrà, un passaggio fondamentale di questo processo evolutivo fu proprio la differenziazione della nozione di “infortunio” assunta a base di questo nuovo sistema rispetto a quella caratteristica delle assicurazioni private.

Assicurazione contro gli infortuni come contratto “socialmente tipico” e nozione di infortunio quale frutto di attività interpretativa

Quello di assicurazione contro gli infortuni non è un contratto “tipico”, non trovando la sua disciplina nella legge.

Ciò nondimeno, esso è “socialmente tipico”, e cioè uno di quei contratti che la dottrina (BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1942, 196) descrive come corrispondenti “a schemi già consolidati nella pratica” (CATAUDELLA, I contratti, Torino, 2014, 215) e che vengono tipizzati dalla prassi negoziale per effetto della “costante ripetitività del modello” (ALPA, La causa e il tipo, in Tratt. contratti dir. da Gabrielli, 2006, I, 586).

Quindi l'assicurazione privata si distingue nettamente da quella obbligatoria sia per la propria autonoma “tipizzazione” sociale, sicuramente preesistente alla nascita di quest'ultima, sia per la sua finalità prettamente assicurativa (di ripartizione del rischio) rispetto a quella “sociale” acquisita nel tempo dall'assicurazione obbligatoria (secondo il diverso principio della “solidarietà sociale”), come poi si preciserà.

L'una costituisce un “tipo sociale” di contratto ben individuato, frutto dell'autonomia negoziale consacrata dal secondo comma dell'art. 1322 c.c., mentre l'altra è ora tipizzata dalla legge (art. 2 del d.P.R. n. 1124/1965) in forma di “assicurazione sociale”.

Ne consegue che la definizione del rischio di infortunio propria dell'assicurazione privata non è per nulla influenzata da quella elaborata (in sede medico-legale e giurisprudenziale) per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e, quindi, neppure dall'integrazione di quest'ultima varata dal legislatore col citato art. 42, al riguardo dell'“infezione da coronavirus”.

Essa si ricava esclusivamente dalle dichiarazioni contenute nei contratti che la prevedono o, meglio, dallo schema negoziale “socialmente tipico” nel quale questi si inscrivono.

Ed è quindi frutto dell'interpretazione delle clausole contrattuali che contribuiscono a definire il rischio oggetto dell'assicurazione privata contro gli infortuni.

Ciò che costituisce un'attività interpretativa di natura squisitamente giuridica, poiché «l'interpretazione del contratto è la determinazione del senso giuridicamente rilevante della dichiarazione contrattuale, condotta alla stregua della norma giuridica» (BIANCA, Diritto civile, III, Milano, 1987, 377).

Così come, all'atto pratico, decidere cosa sia “infortunio” e cosa non lo sia, trattandosi dell'interpretazione di un contratto, è un accertamento che compete al Giudice del merito (Cass. civ. n. 30686/2019), e non al suo ausiliario tecnico.

L'interpretazione letterale e logica della definizione di infortunio nei contratti di assicurazione

La tesi di cui sì è detto fonda l'interpretazione della definizione di infortunio sul significato di un aggettivo (“violenta”) riguardante la causa delle lesioni patite dall'assicurato, alla quale attribuisce un valore semantico qualificato dalla “subitaneità” ovvero dalla “concentrazione temporale”.

In realtà, si tratta di un assunto erroneo proprio sotto il profilo linguistico, escogitato in tempi ormai lontani dalla dottrina medico-legale quale espediente dialettico per ampliare la nozione di infortunio sul lavoro e che, per le ragioni che si diranno, venne tralaticiamente riproposto dalla giurisprudenza lavoristica in un certo periodo di tempo.

Infatti, “violento”, nella lingua italiana, è un «fenomeno o evento, atto o comportamento, stato d'animo o sentimento, che si manifesta e si attua con forza, intensità e impeto eccezionali, cui è impossibile o difficile resistere e contrastare» (Istituto Treccani, Vocabolario della lingua italiana, lemma ‘violento').

Ciò che qualifica l'evento o l'atto “violento” è, quindi, la “forza” intrinseca, l'intensità e l'impeto eccezionali con i quali esso si attua, e non la breve durata per la quale si manifesta, e cioè la sua repentinità.

Violento, infatti, può essere anche un evento per nulla subitaneo, ma che si sviluppa per un certo tempo.

Questo vale tanto per gli eventi naturali (come un temporale, una mareggiata, un incendio…), quanto per gli atti umani (come un pestaggio, uno stupro, la partecipazione ad una rissa…) ovvero per i sentimenti (come l'odio, che può essere financo imperituro).

Quindi vi sono eventi o atti “violenti” che si esauriscono istantaneamente ed altri che si protraggono per un certo tempo, ma, per esser tali, tutti devono concretizzarsi nell'uso di una forza o di un'energia abnorme quanto ad intensità o impeto.

Carattere questo che, paradossalmente, le infezioni virali, come quella da COVID19, proprio non possiedono.

Perché non esercitano alcuna “forza”, né costituiscono un'“energia” suscettibile di applicarsi all'organismo umano, ma consistono nell'inavvertibile introduzione in esso di un microorganismo patogeno, per nulla “violenta” (nello stesso senso: ROSSETTI, L'assicurazione e l'emergenza “COVID”, in Assicurazioni, 29.4.2020).

Ed anche se s'intendesse riferire l'attributo della “violenza” non già all'evento infortunistico in sé considerato, ma alla sua “attitudine causale”, come in passato si è fatto in dottrina (FANELLI, Assicurazione privata contro gli infortuni, in Enc. Dir. Milano, III, 1958, 585), si dovrebbe comunque convenire che l'infezione virale non possiede un'attitudine di tal genere.

Pertanto, proprio l'attributo che, secondo i fautori della tesi anzidetta, dovrebbe indurre ad includere le infezioni virali nel novero degli infortuni, sul piano dell'interpretazione letterale, invece, ne determina l'irrimediabile esclusione.

Che trova conferma pure nell'interpretazione letterale e logica dell'intera clausola definitoria, interpretazione questa non può ricavarsi dal significato di una sola delle parole che compongono la clausola stessa, ma dal suo intero enunciato, com'è prescritto dai canoni ermeneutici dettati dagli artt. 1362, comma primo e 1363 c.c.che la giurisprudenza pone ai vertici dei criteri interpretativi dei contratti (Cass. civ. n. 16282/2018).

Secondo i quali è necessario dapprima ricostruire il «tenore complessivo della clausoladesunto da tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, avendo riguardo ad ogni sua parte e ad ogni parola che la compone, e non già ad una parte soltanto» (Cass. civ. n. 23208/2012) e confrontarsi poi con l'interpretazione “complessiva”, condotta «alla luce dell'intero contesto contrattuale, coordinando tra loro le singole clausole» (Cass. civ. n. 14882/2018).

Applicando questi principi, ed esaminando quindi la definizione contrattuale di “infortunio” nel suo complesso, si può cogliere come essa non si limiti a descrivere un certo tipo di causa (“fortuita, violenta ed esterna”), ma rappresenti l'infortunio un “evento”, e come ponga quest'ultimo in diretta ed immediata relazione con l'effetto di quella stessa “causa” ovverosia con le “lesioni fisiche” subite dall'assicurato.

Tra quella causa e quell'effetto, dunque, dev'esserci un rapporto di prossimità, per cui l'evento-infortunio dev'essere la causa “immediata e diretta” delle lesioni.

Ed è proprio questa prossimità causale che caratterizza l'evento infortunistico, distinguendolo dalla malattia.

Questa diretta relazione eziologica risulta vieppiù evidente ove si consideri che per “evento” s'intende un «avvenimento, caso, fatto che è avvenuto o che potrà avvenire» (Istituto Treccani, Vocabolario della lingua italiana, lemma ‘evento'), e che quindi questo si consuma in un preciso momento, ben individuato cronologicamente, e non in un “processo” suscettibile di protrarsi per un periodo più o meno lungo.

Pertanto, sotto il profilo della causalità materiale, l'evento cui allude la clausola non deve costituire un qualsiasi antecedente causale delle “lesioni” subite dall'assicurato, bensì la loro “causa prossima”, immediata e diretta, senza la mediazione di altri fatti pur causalmente rilevanti ai fini delle lesioni patite dall'assicurato.

Ma tale indubbiamente non è l'infezione da COVID19, poiché, di per sé sola, essa non produce alcuna alterazione dell'integrità somatica della persona.

Questa è, invece, prodotta dalla malattia che il contagio può provocare.

Sotto il profilo causale, la netta distinzione tra infezione e malattia, nel caso del COVID19, è ben dimostrata dal fatto che un numero molto rilevante di contagiati non sviluppa la malattia, e quindi non subisce alcuna lesione (ben il 42,3%, secondo il primo studio pubblicato in materia: LAVEZZO, CRISANTI e altri, Suppression of COVID-19 outbreak in the municipality of Vo, Italy (Preprint), MedRxiv, 18.4.2020, 5).

Ciò dimostra che, sotto il profilo giuridico, l'infezione non è mai la causa prossima delle lesioni fisiche obiettivamente constatabili”, bensì quella di un processo che può evolvere in senso morboso, dando luogo ad una malattia e, solo per effetto di questa, alle “lesioni fisiche” che integrano l'avveramento del rischio assicurato.

Sembra chiara, quindi, la ragione per cui l'infezione virale da COVID19 non può rientrare nella definizione di infortunio tipica delle assicurazioni private.

Del resto, come si è giustamente osservato in sede medico-legale, se così non fosse, «si dovrebbe consequenzialmente ritenere tutelata in polizza infortuni qualsiasi malattia causata da una infezione virale, batterica o parassitaria, ad esempio le comuni forme influenzali, il morbillo, le polmoniti batteriche, la malaria» (MASTROROBERTO, Polizza Infortuni e infezione da Covid-19 nel D.L. n. 18/2020 e nella circolare INAIL n. 3675/2020, in Ridare.it, 21.4.20209.

Ciò che nessuno ha mai pensato di ipotizzare, poiché, in ambito privatistico, le infezioni sono sempre state considerate causa di malattia (e, specificamente, di “malattia infettiva”), e non di infortunio.

Si noti, inoltre, come per questo aspetto, l'enunciato della clausola contrattuale in esame si differenzi in modo sostanziale da quello dell'art. 2 del d.P.R. n. 1124/1965, che non qualifica l'infortunio come “evento”, né lo pone in relazione diretta con le lesioni, limitandosi ad affermare che «l'assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un'inabilità permanente al lavoro… ovvero un'inabilità temporanea assoluta», con una formulazione che ammette, quindi, pure una derivazione causale indiretta delle conseguenze dannose dell'infortunio.

Inoltre, sempre sotto il profilo dell'interpretazione letterale, si osservi come la clausola definitoria limiti il suo effetto rilevante ai fini contrattuali alle sole lesioni “fisiche”, escludendo significativamente quelle “psichiche”, che sarebbero invece anch'esse comprese nella più ampia nozione di “lesione” propria della medicina legale.

Tale esclusione per un verso si spiega proprio con l'origine storica delle assicurazioni private contro gli infortuni, che, come s'è visto, limitava il rischio garantito a quelli di matrice traumatica.

Ma per altro verso avvalora l'ipotesi interpretativa testé delineata, secondo la quale per infortunio deve intendersi l'esplicazione di una forza o energia fisica soverchiante che, proprio per questa sua intrinseca natura, genera direttamente una “lesione fisica”, di natura essenzialmente traumatica, nell'organismo umano, senza la “mediazione causale” di un processo morboso.

Del resto proprio in questi termini è sempre stato inteso l'infortunio in ambito privatistico, secondo una prassi che si è tradotta in un vero e proprio uso normativo (art. 1374 c.c.) di natura interpretativa (Cass. Civ. n. 6747/2014), o quanto meno in una pratica interpretativa (art. 1368 c.c.), come la dottrina ha già avuto modo di osservare (ROSSETTI, opera citata).

Di ciò vi è precisa traccia anche nella scarna giurisprudenza in materia di contratti di assicurazione privata, laddove si è precisato che la causa dell'infortunio può essere di diverse specie, dovendo però in ogni caso consistere in «una forza esercitata "ab extrinseco", e proveniente da altra persona, o animale, o cosa, o fenomeno (ivi compresa la forza di gravità)”, pur non essendo necessario che “detta forza sia "corpore corpori illata» (Tribunale Roma, 07/10/1997, in Assicuraz. 1998, II, 183).

Quindi, anche in assenza di un contatto fisico (come nel caso di uno spostamento d'aria dovuto ad un'esplosione che scagli una persona contro una superficie rigida, cagionandole delle lesioni), l'infortunio rilevante ai fini privatistici dev'esser sempre la diretta conseguenza di una forza eccezionale e irresistibile.

Quale, indubbiamente, non è il virus COVID19 quando penetra nell'organismo umano.

Nozione di infortunio ed interpretazione “complessiva” delle clausole contrattuali

Queste conclusioni trovano ulteriore conferma nell'interpretazione “complessiva” (ex art. 1363 c.c.) della suddetta clausola definitoria in relazione alle altre ricorrenti nei contratti di assicurazione privata contro gli infortuni.

Per un primo aspetto occorre tener presente che, nei glossari di quei contratti, alla definizione di infortunio sovente si accompagna quella di “malattia”, per cui questa è costituita da «ogni alterazione dello stato di salute non dipendente da infortunio» (IVASS, Glossario citato).

Tale definizione è, dunque, complementare a quella di infortunio: ciò che non è infortunio è malattia, e viceversa.

Quindi, non solo l'uno esclude l'altra, ma le due nozioni contribuiscono reciprocamente a definirsi.

Con la logica conseguenza per cui quella di infortunio, che è la sola il cui contenuto viene esplicitato nel contratto, deve ritenersi di stretta interpretazione.

Infatti, qualora se ne ammettesse una lettura estensiva, assieme all'effetto espansivo che questa produrrebbe sulla nozione di infortunio, specularmente se ne verificherebbe uno restrittivo sulla complementare nozione di malattia, intesa quale processo morboso a carattere evolutivo, col risultato di eroderne arbitrariamente il perimetro concettuale.

Ma la nozione di infortunio che si ricava dall'interpretazione letterale e logica dell'anzidetta clausola definitoria trova conferma pure nel contenuto di molti altri patti abitualmente riprodotti nei contratti appartenenti al “tipo sociale” dell'assicurazione contro gli infortuni allo scopo di precisarne l'oggetto (ai sensi dell'art. 1905 c.c.).

Si tratta di clausole che includono nella garanzia alcuni eventi che, in realtà, sarebbero estranei al rischio assicurato ovvero escludono da questo altri eventi che, invece, vi rientrerebbero.

Per quanto, ovviamente, il contenuto delle inclusioni ed esclusioni previsto dai singoli contratti sia assai diversificato, vi sono tratti comuni che dimostrano come gli agenti virali o batterici non siano compresi nella “causa” di infortunio propria del modello “socialmente tipico” di questa specie di assicurazione.

Tale estraneità emerge inequivocabilmente, ad esempio, in quelle clausole che “includono” nella garanzia o “parificano” all'infortunio le sole «infezioni dovute ad un infortunio indennizzabile a termini di polizza», così affermando che le infezioni non possono considerarsi infortunio, proprio perché stabiliscono che, ciò nondimeno, esse rientrino nella garanzia solo quando si verifichino in conseguenza di un evento, ontologicamente differente da loro, qualificabile come infortunio.

Molti formulari, poi, “estendono” la garanzia contro gli infortuni all'«avvelenamento del sangue o infezione purché il germe infettivo si sia introdotto nell'organismo al momento del verificarsi di una lesione traumatica esterna», in tal modo producendo il medesimo risultato pratico, ma dimostrando pure di intendere che possano dirsi “infortunio” solo quegli eventi che producono una “lesione traumatica esterna.

Se si esaminano, poi, le cause di esclusione più ricorrenti, si constata che queste, per gran parte, si riferiscono ad attività il cui esercizio presenta una più o meno spiccata probabilità di causare ab externo e per effetto di una forza o di un'energia abnorme delle lesioni di natura traumatica, quali, ad esempio, la guida di veicoli o natanti o aeromobili, la pratica di determinate attività sportive (paracadutismo, pugilato, arti marziali, lotta, alpinismo e molte altre) o quelle delittuose.

Ciò a conferma che il dispiegarsi di una forza o di un'energia di eccezionale intensità sull'organismo umano, quale causa prossima di una lesione fisica e, dunque, di matrice prettamente traumatica, costituisce l'aspetto qualificante della nozione di infortunio, nella quale rientrerebbero anche queste categorie di eventi, se non venisse esplicitamente prevista la loro esclusione.

La diversificazione della nozione di “infortunio sul lavoro” rispetto a quella dell'assicurazione privata

Riprendendo ora dove l'avevamo lasciato il discorso sull'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, occorre ricordare che un grave limite del sistema congegnato dalla legge n. 80/1898 era quello di prescrivere l'assicurazione dei soli eventi infortunistici, ma non delle malattie professionali.

Questa aporia motivò, sin dagli albori del novecento, il tentativo di estendere la nozione di infortunio sul lavoro per farvi rientrare le più diffuse malattie professionali, prime fra tutte quelle di origine infettiva.

Fu la nascente medicina legale italiana ad alimentare questo sforzo, soprattutto ad opera di Lorenzo Borri, uno dei suoi precursori (come ha ricordato ZOJA, SARS-CO-V2 ed infortunio nell'assicurazione privata: annotazioni medico-legali, Ridare.it 19.5.2020), proponendo una nuova classificazione delle “forze lesive” comprensiva non già solo di quelle “d'ordine fisico”, ma pure di quelle d'ordine chimico, biochimico, psichico e “virulento” (BORRI, Lesione personale e morte determinate da infortunio per causa violenta traumatica, in Trattato di infortunistica, II, Milano, 1918).

Questa sistemazione teorica, elaborata per finalità dichiaratamente previdenziali, si contrapponeva a quella di origine assicurativa, secondo la quale anche l'infortunio sul lavoro doveva soddisfare i presupposti di un “trinomio” composto da «causa lesiva esterna e violenta, incontro fortuito della stessa con l'organismo umano, lesione del corpo e della psiche umana» (MORIANI, L' infortunio del lavoro: suo concetto in genere, Pisa, 1917).

Si scrisse allora, come in seguito, di un'assimilazione della “causa virulenta” a quella “violenta”, e non di identificazione della prima nella seconda, ciò che sarebbe stato impossibile sotto il profilo concettuale.

E così si diede vita ad una nuova nozione significativamente definita “malattia-infortunio” (per un'esauriente excursus storico in materia: INNOCENZI, Ricostruzione storica, culturale e dottrinaria del concetto malattia/infortunio, INAIL, Malattia-infortunio, Milano, 2007, 3), tutt'oggi rimasta in uso nel lessico delle assicurazioni sociali: «La malattia infortunio consiste in un processo morboso conseguente alla penetrazione nell'organismo umano di germi patogeni» (Sito istituzionale INAIL, pagina FAQ).

Le esigenze di tutela delle malattie professionali trovarono una iniziale, e molto parziale, risposta nel r.d. 928/1929, che ne prevedeva solo sei (intossicazioni da piombo, mercurio, fosforo, solfuro di carbonio, benzolo e l'anchilostomiasi), e per i soli lavoratori dell'industria, sulla base della distinzione teorica della “causa lenta” propria delle malattie professionali, contrapposta a quella “violenta” (e ritenuta “repentina”) degli infortuni.

La riforma attuata col testo unico di cui al r.d. n. 1765/1935faceva, poi, confluire tanto la tutela per gli infortuni, quanto quella per le malattie nel nuovo sistema di natura pubblicistica che segnava il definitivo distacco dell'assicurazione obbligatoria da quelle private, conferendogli il carattere proprio delle “assicurazioni sociali”.

L'autonomia dell'assicurazione obbligatoria trovava compimento nell'art. 38 della Costituzione repubblicana che, nell'ambito della tutela dei bisogni previdenziali dei lavoratori, al secondo comma, enucleava il loro diritto a «che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia», vieppiù rimarcando in tal modo l'allontanamento dell'assicurazione obbligatoria da quella privata, ispirata invece dalla finalità di protezione dal rischio assicurato.

La norma costituzionale, tuttavia, non determinò un immediato adeguamento della legge ordinaria che, quanto alle malattie professionali, rimase legata al cd. sistema tabellare, recepito anche nel nuovo testo unico di cui al vigente d.P.R. n. 1124/1965, che tutelava le sole malattie comprese nelle tabelle ad esso allegate.

Sotto il profilo giuridico «la presunzione d'origine professionale della malattia — che la legge vuole da sempre contratta “nell'esercizio e a causa” delle lavorazioni specificate — costituiva il “vantaggio” attribuito dal sistema tabellare al lavoratore in cambio di tanto rigore selettivo» (GIUBBONI, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, D. comm., Aggiorn. I, 2000, Torino, I, 1987, 401) e tale vantaggio, per un certo tempo, valse al sistema tabellare un vaglio positivo da parte della Corte costituzionale (per tutte: Corte cost. n. 206/1974).

Questa situazione, che escludeva un gran numero di malattie professionali dalla tutelaprevidenziale, determinò però lo sviluppo di una giurisprudenza di merito che, con quella si è definita una “tecnica dell'aggiramento” (e che oggi diremmo ispirata da un'interpretazione “costituzionalmente orientata” ex art. 38 Cost.), adottò la teoria «secondo cui il contagio sarebbe stato un infortunio sul lavoro» (ROSSETTI, opera citata), concetto questo della cui matrice medico-legale già s'è detto.

Questo orientamento fu recepito pure dalla Cassazione civile con una sentenza (n. 5764/1982) pronunciata prima che la Corte costituzionale (con le sentenze nn. 179/1988 e 206/1988) dichiarasse fondata la q.l.c. degli artt. 3 e 211 del d.P.R. n. 1124/1965 nella parte in cui non prevedevano la tutela assicurativa obbligatoria anche per le malattie professionali “non tabellate” di cui fosse stata “comunque provata la causa di lavoro”.

Queste decisioni sancirono il passaggio al cd. sistema “misto”, fondato sulla presunzione legale dell'origine lavorativa delle malattie tabellate e sulla possibilità di provare (anche) mediante presunzioni semplici che quelle non tabellate fossero state contratte in occasione di lavoro (Cass. civ., n. 1875/1997), sistema poi vieppiù modificato a favore del lavoratore, sul piano della prova del nesso causale, dal d. lgs. n. 38/2000.

Cionondimeno, la massima relativa all'assimilazione della causa virulenta a quella violenta continuò ad essere tralaticiamente riprodotta per altre sentenze della Sezione lavoro della Cassazione (sentenze nn. 6390/1998, 7306/2000, 6899/2004 ed altre) che però avevano tutt'altro contenuto, come ha dimostrato un'attenta ricognizione delle rispettive motivazioni condotta dalla dottrina (ROSSETTI, opera citata).

Tanto che la medesima Sezione, in un'altra decisione (Cass. civ, n. 14119/2006), riconosceva apertis verbis che «l'assicurazione contro gli infortuni è sorta per eventi fisicamente traumatici, ed è stata estesa solo con interpretazione giurisprudenziale, adeguatrice ex art. 38 Cost., ad eventi, quali ad es. l'infarto, solo indirettamente traumatici».

Chiarito ciò, è appena il caso di sottolineare come il precetto costituzionale dettato dall'art. 38 Cost. nell'ambito delle “assicurazioni sociali” riguardi solo la tutela dei bisogni previdenziali del lavoratore, e non invece l'assicurazione privata contro gli infortuni.

Che, peraltro, in quel periodo storico, era già da tempo estranea alle vicende della tutela previdenziale dell'”infortunio sul lavoro” e delle malattie professionali.

Queste influirono semmai indirettamente sulla diversa garanzia della responsabilità civile verso i prestatori di lavoro (cd. RCO), ampliando l'oggetto dell'obbligo risarcitorio dell'assicurato).

Il radicale distacco dell'assicurazione sociale contro gli infortuni sul lavoro, ispirata dalla tutela costituzionale dei bisogni del lavoratore infortunato, dall'assicurazione privata contro gli infortuni, regolata invece dal contratto di diritto comune “socialmente tipico”, è stato così brillantemente enunciato da una recentissima sentenza della Sezione lavoro della Cassazione:

«Il fondamento della tutela assicurativa, il quale ai sensi dell'art.38 Cost., deve essere ricercato, non tanto nella nozione di rischio assicurato o di traslazione del rischio, ma nella protezione del bisogno a favore del lavoratore, considerato in quanto persona; dato che la tutela dell'art. 38 non ha per oggetto l'eventualità che l'infortunio si verifichi, ma l'infortunio in sé; ed è questo e non la prima l'evento generatore del bisogno tutelato, sia in termini individuali che sociali, posto che, come riconosciuto dalla Corte Cost. l'oggetto della tutela dell'art.38 non è il rischio di infortuni o di malattia professionale, bensì questi eventi in quanto incidenti sulla capacità di lavoro e collegati da un nesso causale con attività tipicamente valutata dalla legge come meritevole di tutela" (sentenza n.100 del 2.3.1991). In tale ottica, pertanto, … "il distacco dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro dal concetto statistico-assicurativo di rischio, al quale era originariamente legata (distacco che può considerarsi compiuto con la sentenza di questa Corte numero 179 del 1988) è sollecitata da un'interpretazione dell'articolo 38, secondo comma, coordinata con l'articolo 32 della costituzione allo scopo di garantire con la massima efficacia la tutela fisica e sanitaria dei lavoratori" (ancora Corte Cost. n.100/1991)» (Cass. civ. n. 8948/2020).

Da tutto ciò deriva la radicale differenziazione tra la nozione di “infortunio sul lavoro” propria dell'assicurazione obbligatoria, ispirata dal “bisogno del lavoratore infortunato”, rispetto a quella, di matrice negoziale e prettamente assicurativa, di “infortunio” che l'assicurazione privata ripete dalla sua più che secolare (e preesistente) tradizione quale elemento qualificante del relativo contratto “socialmente tipico” di diritto comune, nonché quale elemento differenziale dall'altro “tipo sociale” di contratto rappresentato dall'assicurazione privata contro le malattie.

In conclusione

L'assicurazione privata contro gli infortuni (ovvero, in origine, “contro le disgrazie accidentali”) è un contratto “socialmente tipico”, il cui oggetto si ricava in via di interpretazione (e, dunque, in virtù di un'attività propria della scienza giuridica) e consiste nella protezione dagli eventi connotati da una forza o da un'energia di intensità o impeto eccezionale che si ponga in relazione di immediata prossimità causale, e cioè senza la mediazione di altri fatti pur causalmente rilevanti (come un processo morboso evolutivo ovvero una malattia), con lesioni di natura esclusivamente fisica subite dall'assicurato.

In virtù di tali caratteri essa si distingue dall'assicurazione contro le malattie, che le è perfettamente complementare ed è preordinata a proteggere l'assicurato dal rischio dei postumi causati dai processi morbosi di qualsiasi tipo, compresi quelli che traggono origine dalle “malattie infettive”, posto che l'agente patogeno di queste non possiede né la “violenza”, né la prossimità causale alle lesioni subite dall'assicurato che, invece, qualificano l'evento-infortunio, ma dà origine, per l'appunto, ad una malattia virale.

In ciò la nozione di infortunio propria delle assicurazioni private si differenzia nettamente da quella maturata nel tempo, per precise ragioni storiche, al riguardo dell'infortunio sul lavoro che, per di più, non afferisce alla materia assicurativa, ma a quella previdenziale,presidiata dei principi solidaristici dettati dall'art. 38 della Costituzione, ed è quindi di per sé insuscettibile di esercitare alcuna influenza, anche solo sul piano interpretativo, sulla prima.

Ne consegue che, ai fini del diritto delle assicurazioni private, i danni causati dal COVID19, essendo causati da una malattia infettiva, e non da un infortunio, ricadono nell'oggetto dell'assicurazione per le malattie, e non nel perimetro concettuale di quella contro gli infortuni.

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