Delitti con violenza alla persona e revoca della misura cautelare: non sempre sussiste l'obbligo di notifica alla P.O.

Laura Bellanova
17 Giugno 2020

L'obbligo di notifica alla persona offesa ex art. 299 c.p.p., opera astrattamente per tutti i delitti commessi con violenza alla persona ovvero solo per quei delitti che sono caratterizzati da una reiterazione della condotta violenta nei confronti della vittima da parte dell'autore dei reati per cui si procede?
Massima

In relazione ai delitti commessi con violenza alla persona, ai fini della verifica della sussistenza dell'obbligo di notifica dell'istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare in atto al difensore della persona offesa o a quest'ultima, il giudice deve attribuire rilevanza alla "relazione" tra autore e vittima, cui consegue la limitazione dell'obbligo di notifica ai casi in cui la persona offesa vanti un rischio "personale", candidandosi ad essere nuovamente vittima dello stesso autore dei reati per cui si procede.

Il caso

Con la sentenza n. 12800 del 2020 la Suprema Corte di Cassazione si esprime sul delicato tema di individuazione della categoria dei delitti commessi con violenza alla persona, rispetto ai quali, nell'ipotesi di richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare, rectius di autorizzazione a svolgere attività lavorativa dal lunedì al venerdì dalle ore 8,00 alle ore 13,00 e dalle ore 15,30 alle ore 19,00, occorre notificare l'istanza alla persona offesa.

Nel caso di specie accade che il Tribunale di Palermo, quale giudice del riesame, dichiarava inammissibile l'appello proposto dall'imputato avverso l'ordinanza, del 22/10/2019, con cui il G.I.P. a sua volta aveva rigettato l'istanza di revoca o modifica della misura cautelare degli arresti domiciliari, o meglio di autorizzazione a svolgere l'attività lavorativa, emessa per i delitti di rapina, sequestro di persona e lesioni personali.

Il Tribunale, preso atto che l'imputato non aveva notificato l'istanza originaria alla persona offesa dal reato, riteneva assorbente il difetto della condizione di ammissibilità prevista dall'art. 299 comma 3, c.p.p., in relazione alla natura di delitti consumati o tentati manifestatisi in concreto con atti di violenza fisica o morale o psicologica, la cui carenza è, a detta dell'autorità, rilevabile d'ufficio e comporta di per sé il rigetto dell'appello.

Per quel che rileva in questa sede, con il ricorso per Cassazione il pervenuto contestava l'assimilazione, da parte del Tribunale, dell'istanza di autorizzazione allo svolgimento dell'attività lavorativa all'istanza di revoca o modifica della misura cautelare; nonché, la sussistenza, a suo carico dell'obbligo di notificare l'istanza alla persona offesa dal reato, muovendo dalla riconducibilità dei delitti ascrittigli a quelli commessi con violenza alla persona, rilevando che detto obbligo, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., Sez. II, n. 17335 del 2019, Rv. 276953), riguarderebbe solo i reati connotati da violenza alla persona, ove sia ravvisabile un pregresso rapporto tra vittima e aggressore ovvero vi siano concrete possibilità di ritorsioni nei confronti della vittima.

La Suprema Corte accoglieva il ricorso e annullava con rinvio l'ordinanza impugnata, attribuendo importanza all'esistenza di una relazione tra autore del reato e vittima, e al rischio di recidiva. In altri termini, per i giudici di legittimità, il Tribunale aveva sbagliato ad estendere in modo generalizzato l'obbligo di notifica a tutti i reati commessi con violenza sulla persona, senza restringere il raggio d'azione della norma nelle sole ipotesi in cui, in virtù dei pregressi rapporti con la persona offesa, vi sia il rischio di ritorsione.

Inoltre, ci si trovava di fronte ad una richiesta di autorizzazione allo svolgimento di attività lavorativa, per cui l'obbligo di notifica alla persona offesa si deve ritenere meno stringente, trattandosi di provvedimento che non decide sulla libertà personale, ma si limita a regolare le modalità di esecuzione della misura cautelare in atto (Cass. pen., Sez. II, n. 27020/2011, Rv. 250885).

La questione

La questione della quale la Corte di Cassazione è stata investita è: se la disposizione di cui all'art. 299 c.p.p., che prevede l'obbligo ex lege - con riferimento ai delitti commessi con violenza alla persona - di informare la persona offesa dal reato, della richiesta di autorizzazione allo svolgimento di attività lavorativa (rientrante nella più ampia categoria di revoca o sostituzione della misura cautelare), operi, astrattamente, per tutti i delitti commessi con violenza alla persona ovvero solo per quei delitti che sono caratterizzati da una reiterazione della condotta violenta nei confronti della vittima da parte dell'autore dei reati per cui si procede.

Le soluzioni giuridiche

Nel caso in esame, la Cassazione, nell'individuare la categoria dei delitti commessi con violenza alla persona, rispetto alla quale, nel caso di richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare deve, ai sensi dell'art. 299 comma 3, c.p.p. notificarsi l'istanza de libertate, a pena di inammissibilità, al difensore della persona offesa, o in mancanza di questo, alla persona offesa (salvo che quest'ultima non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio), si è conformata all'orientamento giurisprudenziale che attribuisce rilevanza alla “relazione” tra autore e vittima. Ne consegue, la limitazione dell'obbligo di notifica esclusivamente nei casi in cui la persona offesa vanti un “rischio personale”, candidandosi ad essere nuovamente vittima dello stesso autore dei reati per cui si procede.

Gli ermellini hanno valorizzato non solo la circostanza che la condotta violenta sia stata generata nell'ambito di relazioni qualificate, ma, soprattutto, la speciale connessione tra recidiva e relazione qualificata.

Osservazioni

La questione sottoposta all'attenzione della Corte, investe l'ambigua formulazione della locuzione delitti commessi con violenza alla persona contenuta nell'art. 299 c.p.p. sulla quale, in ragione del suo significato tutt'altro che univoco, si sono sviluppate diverse interpretazioni.

Prima di soffermarsi sull'iter logico- giuridico con cui la sentenza de qua è giunta alla soluzione prospettata, mette conto osservare, innanzitutto, che la sentenza delle Sezioni Unite del 29 gennaio 2016, n. 10959 ha affermato che l'espressione violenza alla persona deve essere intesa alla luce del concetto di violenza di genere, così come risultante dalle disposizioni di diritto internazionale e comunitario, e che, quindi, è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsti rispettivamente dagli artt. 612-bis e 572 c.p.,

Nel caso di specie, le Sezioni Unite hanno rivolto la loro attenzione all'espressione violenza alla persona, al fine di stabilire l'ambito applicativo dell'art. 408, comma 3-bis c.p.p., il quale prevede l'obbligo di dare avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dai delitti commessi, per l'appunto, con violenza.

A fondamento del principio espresso le Sezioni Unite hanno richiamato, in primis, la Convenzione di Instanbul del Consiglio d'Europa dell'11 maggio 2011, il cui obbiettivo principale è quello di vivere liberi dalla violenza, tutelando le potenziali vittime, garantendo loro una difesa efficace nel processo e dal processo, scongiurando i rischi di vittimizzazione primaria e vittimizzazione secondaria. Tale convenzione, all'art. 3 elabora una compiuta nozione di violenza, individuandone diverse tipologie (violenza nei confronti delle donne, violenza domestica e violenza di genere), tutte accomunate dallo stesso principio: è violenza ogni atto o fatto idoneo a provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, nonché è violenza, anche, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà nella vita sia pubblica, che privata. Ne emerge, che vittima è ogni individuo, persona fisica che subisca tali aggressioni.

In secondo luogo, si sono richiamate alla Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, sostitutiva della decisione quadro 2001/220/GAI, che istituisce norme minime di diritti, assistenza e protezione delle vittime di tutti i reati, recepita dall'Italia con il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212. Definita come Statuto dei diritti delle vittime, la Direttiva, ambisce, infatti, a tutelare la vittima del reato e precisamente ad assicurarle uguali diritti di informazione, assistenza e protezione, indipendentemente dal luogo in cui il processo si svolga. Non solo, la stessa, così come la Convenzione di Instanbul, fornisce la nozione di “violenza di genere e violenza nelle relazioni strette” sancendo che questo tipo di violenza potrebbe includere la violenza fisica, sessuale, psicologica o economica con conseguente danno fisico, mentale, emotivo, ovvero economico.

Infine, le Sezioni Unite si sono richiamate ad altre fonti normative che, confermano come, nel quadro della legislazione europea a tutela della vittima, nel concetto di violenza sia sempre inclusa la violenza morale (art. 11, paragrafo 7 della direttiva 2011/36/UE sulla tratta di persone, recepita dall'art. 1 d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24; nonché dal considerando 9 della direttiva 2011/99/UE, in tema di ordine di protezione europeo, il quale espressamente ricomprende le condotte di stalking nella nozione di violenza).

Atteso, dunque, che la nozione sovranazionale di vittima ha un ambito semantico molto più ampio rispetto alla nozione “locale” di persona offesa-danneggiato, in quanto la nozione di violenza alla persona, adottata in ambito internazionale e comunitario, è più ampia di quella positivamente disciplinata nel nostro codice penale, il Collegio Riunito della Corte di Cassazione ha sostenuto che l'espressione delitti commessi con violenza alla persona fa riferimento a quel concetto di violenza alla persona che annovera non solo le coercizioni fisiche ma anche quelle morali e psicologiche.

Muovendo da tale assunto, alle Sezioni semplici non è rimasto, dunque, che individuare se gli obblighi informativi riguardanti la materia cautelare e previsti ex lege attengano –astrattamente - tutti i delitti commessi con violenza alla persona ovvero solo quelli in cui vi è un pregresso rapporto o relazione tra vittima e autore del reato, vale a dire quelli da cui potrebbe derivare un rischio personale per la vittima ad essere nuovamente vessata, aggredita o intimorita dall'autore del reato per cui si procede.

A tal proposito, la Corte, con la sentenza in commento, ha evidenziato che il giudice, inizialmente, deve tener conto - alla luce dei canoni interpretativi emergenti dalla Direttiva 2012/29/UE recepita ed attuata dal d.lgs. del 15 dicembre 2015, n. 212 - in via gradata della tipologia della persona offesa ( se è persona offesa di delitti di tratta di esseri umani, di terrorismo, di criminalità organizzata, di violenza o sfruttamento sessuale, di crimini di odio) o del movente del reato (se si sia trattato di violenza di genere), ovvero del contesto in cui il reato è stato commesso (se si sia trattato di violenza nelle relazioni strette); al di fuori di questi casi, deve valutare se al delitto connotato da violenza si ricolleghi un pericolo concreto di intimidazione, ritorsioni o vittimizzazione secondaria ripetuta, tali da escludere che si tratti di un reato minore o che vi sia un debole rischio di danno per la vittima (Cass. pen., Sez. II, 03.05.2017, n. 36167; Cass. pen., Sez. II, 08.06.2017, n. 46996; Cass. pen., Sez. II, 28.03.2019, n. 17335).

Ne emerge, un'interpretazione che collega l'obbligo di notifica a quelle previsioni della Direttiva 2012/29/UE (ex artt. 22 e ss) che, da un lato, sono specificamente dirette a individuare misure minime di protezione nei confronti delle vittime con “caratteristiche di vulnerabilità” e, dall'altro lato, a valorizzare il pericolo di recidive nei confronti della stessa vittima.

Segnatamente, la Direttiva orienta verso la predisposizione di forme di tutela “aggravata” nei confronti delle vittime vulnerabili e con rischio di vittimizzazione personale, ma invita, contestualmente, ad una estensione generalizzata dei diritti di partecipazione della persona offesa che, con specifico riguardo al procedimento de libertate, richiedono un bilanciamento con quelli della persona ristretta.

Invero, l'atto Europeo appena menzionato, se, da un lato, indica la necessità di favorire la partecipazione di tutte le vittime, rectius persone offese, al procedimento ed al processo, dall'altro invita a tenere in considerazione, nell'ambito cautelare, la” relazione” tra autore del reato e vittima. L'articolo 1 della Direttiva, individuando gli obbiettivi della stessa, dispone, al paragrafo 1, che scopo della presente direttiva (come già ut supra precisato) è garantire che le vittime di reato ricevano informazione, assistenza e protezione adeguate e possano partecipare ai procedimenti penali.

Tuttavia, il precitato obbiettivo, pur diffuso nel corpo dell'intero atto di indirizzo e, ulteriormente, attuato attraverso la richiesta agli Stati membri di individuare precisi obblighi di informazione in capo all'autorità che procede, anche con riferimento alle scelte di inazione del pubblico ministero (artt. 6 e 11 Direttiva 2012/29/UE) e prevede, con riguardo ai provvedimenti de libertate, la necessità di operare un bilanciamento tra diritti della vittima e quelli della persona ristretta, almeno nei casi in cui emerga il rischio di un possibile danno per l'autore del reato correlato alla comunicazione di provvedimenti di scarcerazione. In tal modo, seppur indirettamente, si valorizza la circostanza che il delitto si insedi nell'ambito di “relazioni qualificate” caratterizzate da un conflitto duraturo e patogeno (art. 6 p.p. 5 e 6 Direttiva 2012/29/UE).

Ed è proprio su questa necessità di bilanciare i diritti della vittima con quelli dell'accusato, id est di contemperare il diritto dell'indagato a una rapida definizione dell'incidente cautelare con quello dell'offeso a fornire il proprio contributo in ordine alle decisioni sulla libertà (mediante il deposito di memorie scritte), che la giurisprudenza condivisa dalla Corte, nella decisione esaminata, ha individuato nel “rischio di recidiva personale” il criterio idoneo per delimitare l'obbligo di notifica previsto dall'art. 299 c.p.p.

È, dunque , il suddetto rischio che genera –secondo la Cassazione. il diritto della vittima a partecipare al procedimento de libertate ed a rappresentare le proprie ragioni attraverso il deposito di memorie ex art. 121 c.p.p., nonché a giustificare l'allungamento dei tempi per la decisione sulla misura cautelare.

Nel caso di specie il Tribunale delle libertà di Palermo non ha tenuto conto dei richiamati canoni, limitandosi a sottolineare che, in concreto, vi era stato esercizio della violenza fisica, senza indicare quale sarebbe l'asserito elevato e specifico rischio di recidiva nei confronti delle vittime, non essendovi un pregresso rapporto tra le persone offese e l'imputato o indici sintomatici del pericolo di ritorsioni.

Pertanto, con specifico riguardo all'obbligo di notifica previsto dall'art. 299, comma 3, c.p.p. si ritiene che la partecipazione all'incidente cautelare e, dunque, il diritto a ricevere la notifica dell'istanza de libertate sia riservata alle vittime di reati violenti che consentono di ritenere esistente un pericolo di recidiva “personale”, ovvero rivolta nei confronti della stessa vittima del reato per cui si procede.

In altri termini, affinché l'obbligo di notifica dell'istanza de libertate vi sia, per la Cassazione, è necessario attribuire rilevanza alla relazione tra autore e vittima dal quale ne scaturisce un rischio personale, candidandosi ad essere nuovamente vittima dello stesso autore dei reati per cui si procede.

L' orientamento abbracciato dai Supremi Giudici supera il contrario indirizzo giurisprudenziale per il quale, la nozione di delitti commessi con violenza alla persona, di cui all'art. 299 comma 2 bis c.p.p., per i quali sussiste l'obbligo di notifica, al difensore della persona offesa o a quest'ultima, dell'istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare in atto, include tutti quei delitti, consumati o tentati, che si sono manifestati in concreto con atti di violenza fisica ovvero morale o psicologica, in danno della vittima del reato (Cass. Pen., Sez. V, 12 giugno 2017, n. 43103; Cass. Pen., Sez. IV, 15 maggio 2017, n. 29770; Cass. Pen. Sez. II, 24 giugno 2016, n. 30302).

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