La clausola simul stabunt simul cadent nella giurisprudenza del Tribunale di Milano
18 Giugno 2020
Premessa
Il legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica e la certezza del diritto rientrano nel novero dei principi generali del diritto comunitario, di preminente interesse costituzionale, garantiti direttamente dall'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (che, come noto, ora fa a pieno titolo parte del diritto comunitario). In questo senso, non può che essere salutata con favore la prassi del Tribunale di Milano, soprattutto della sezione specializzata in materia di impresa, di delineare nettamente il proprio orientamento, di darvi seguito in modo costante e di affinarlo ogni volta di più, sì da rendere la decisione prevedibile, ciò che, in definitiva, si risolve in un beneficio per la comunità. La decisione ora in commento (Tribunale di Milano, 14 gennaio 2020) risponde a tale principio. Essa si pone nell'ampio solco della giurisprudenza del Tribunale di Milano in tema di uso distorto (rectius: abuso) della clausola simul stabunt simul cadent. Essa, tuttavia, per la chiarezza espositiva e per i riferimenti in essa contenuti, merita di essere segnalata, offrendo anche l'occasione per ripercorrere l'orientamento del Tribunale di Milano in argomento. I principi espressi nella sentenza
Deve considerarsi abusiva la condotta degli amministratori, i quali, al solo fine di eliminare amministratori sgraditi pur in assenza di giusta causa, attivano la clausola simul stabunt simul cadent. In tal modo, infatti, gli amministratori ‘revocati' vengono illegittimamente privati del loro diritto agli emolumenti residui e, in generale, al risarcimento del danno. Nel caso in cui voglia dimostrare l'utilizzo abusivo della clausola simul stabunt simul cadent, l'amministratore revocato dovrà fornire la prova tanto del collegamento oggettivo e soggettivo tra le dimissioni dei consiglieri decaduti dimissionari e la successiva immediata nomina di un nuovo consiglio composto dai precedenti componenti meno l'attore, quanto della finalità delle dimissioni finalizzate unicamente alla estromissione dal consiglio di amministrazione dell'attore stesso e, quindi, all'ottenimento in via indiretta del risultato di revocarlo senza corrispondergli alcunché. La natura della clausola e la sua funzione
La sentenza annotata, prendendo le mosse dall'errore che l'attore ha commesso nel sussumere la fattispecie concreta in quella astratta della revoca senza giusta causa piuttosto che in quella dell'abuso della clausola simul stabunt simul cadent, chiarisce la ratio e la finalità della predetta clausola. Così, il Tribunale di Milano afferma che “la clausola in parola è finalizzata a mantenere costanti, a livello di organo gestorio, gli equilibri interni originariamente voluti e cristallizzati secondo una determinata configurazione nella delibera assembleare di nomina” (nello stesso senso, Trib. Milano, 28 luglio 2010, in Soc. 2011, 151; Trib. Milano, sent. 18 aprile 2016). Tale assunto meglio si comprende se, facendo un passo indietro, ci si sofferma sul fondamento normativo della clausola in esame che trova le sue origini nella disposizione di cui all'art. 2386, comma 4, c.c., nella formulazione successiva alla riforma del diritto societario che, sulla scia dell'orientamento già affermatosi in dottrina e in giurisprudenza, ha previsto la possibilità di introdurre nello statuto delle società disposizioni che prevedano la cessazione contestuale dell'intero consiglio di amministrazione a seguito della cessazione di uno o più dei componenti (Trib. Milano, 13 marzo 2015, n. 3388/2015 in giurisprudenzadelleimprese.it). Nonostante già prima della riforma del 2003 la giurisprudenza maggioritaria – tra cui quella del Tribunale di Milano (Trib. Milano, 5 ottobre 1987, in Giur. di Merito, 1990, pag. 811; Trib. Milano, 22 dicembre 1989, in Giur. It., 1990, I, 2, 225; Trib. Milano, 5 ottobre 2000, in Giur. It., 2001, 327 secondo cui «la clausola secondo cui “se per dimissioni o per altre cause viene a mancare la maggioranza degli amministratori si intende cessato l'intero consiglio e deve convocarsi d'urgenza l'assemblea per le nuove nomine” è valida e determina, verificandosi le situazioni ivi previste, la decadenza immediata dell'intero consiglio. L'assemblea per la nomina del nuovo consiglio deve essere pertanto convocata dal collegio sindacale ai sensi dell'art. 2386, comma ultimo c.c.») - si fosse già quasi del tutto allineata alla dottrina (F. Bonelli, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1985, 58 e ss.; G. Minervini, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, 479 e ss.; D. Corapi, Gli statuti delle società per azioni, Milano, 1971, 176 e ss.; A. Dalmartello, Validità o invalidità della clausola “simul stabunt simul cadent”, in Dir. fall., 1956, II, 153 e ss.; L. Ghia, Validità della clausola simul stabunt simul cadent, in Soc.,1995, 83 e ss.; L. De Angelis, Amministrazione e controllo nelle società a responsabilità limitata, in Riv. soc., 2003, 473 e ss.), riconoscendo la legittimità della clausola in esame, permaneva ancora un dubbio in merito al momento temporale in cui la cessazione degli amministratori avrebbe prodotto i propri effetti: immediatamente, non appena si fossero verificate le condizioni per l'applicazione della clausola, oppure solo una volta nominato un nuovo consiglio di amministrazione? (Nel primo senso, Trib. Milano, 5 ottobre 2000, cit.; nel secondo senso, Trib. Milano, 23 marzo 2002, in Giur.it., 2002, 1660, ammissione della prorogatio solo in relazione alla legittimazione di convocare l'assemblea finalizzata alla nomina del nuovo consiglio di amministrazione). Ebbene, l'art. 2486 c.c., alla luce della riforma, ha recepito l'impostazione secondo la quale, al verificarsi dei presupposti attuativi della clausola simul stabunt simul cadent fa seguito la prorogatio dei poteri di tutti gli amministratori decaduti sino alla convocazione dell'assemblea che nominerà il nuovo consiglio; regime, quello della prorogatio che, invece, non trova applicazione nel differente caso previsto dall'art. 2386, comma 5, c.c., ovverosia nel caso in cui gli amministratori decadano tutti quanti simultaneamente (cessazione dell'efficacia del mandato; morte di tutti): in questo caso, infatti, la gestione della società è affidata al collegio sindacale, laddove presente. La clausola simul stabunt simul cadent, se applicata in modo corretto, è dunque lecita e meritevole di tutela. Ciò significa che un uso corretto dello strumento oggetto di analisi non fa sorgere alcun diritto a favore dell'amministratore decaduto non dimissionario, il quale, dal momento in cui ha accettato di ricoprire il ruolo di amministratore, ha aderito implicitamente anche alle clausole statutarie che disciplinano le condizioni di nomina e di permanenza degli organi sociali, fra cui anche tale clausola (in questo senso, oltre alla sentenza annotata, Trib. Milano, 13 marzo 2015, n. 3388, cit.; Trib. Milano, 18 giugno 2014). L'aspetto sicuramente più rilevante della clausola simul stabunt simul cadent– come correttamente evidenziato nella decisione in commento – è ravvisabile nel fatto che essa permette di preservare gli originari equilibri di potere dell'organo amministrativo e, di conseguenza, di tutelare le minoranze e i loro rappresentanti nel consiglio di amministrazione stesso (in dottrina cfr. P. Pautriè, In tema di clausola simul stabunt simul cadent, in Soc., 1999, 1055; N. Michieli, La buona fede come limite “insuperabile” all'applicazione della clausola statutaria simul stabunt simul cadent, in Giur. it., 2011, 2092 e ss.). Infatti, nella sentenza annotata, il Tribunale di Milano, osserva che “la clausola ha l'effetto di caratterizzare intrinsecamente il rapporto amministratore-società, funzionando da stimolo alla coesione dell'organo gestorio, poiché ciascun amministratore è consapevole che le dimissioni di uno/alcuni degli altri determinano la decadenza dell'intero consiglio e, nel contempo, può contribuire a quella decadenza, quando in disaccordo con gli altri”. D'altra parte, la presenza della clausola di cui si discute permette alle minoranze che compongono la compagine sociale anche di continuare ad essere adeguatamente rappresentate, evitando che l'equilibrio iniziale venga compromesso per effetto della “cooptazione” sancita dall'art. 2386, comma 1, c.c., ovverosia dalla nomina, da parte degli amministratori rimasti in carica, di nuovi componenti da loro individuati, che subentrino sino alla successiva assemblea, con il rischio che non rappresentino adeguatamente gli interessi di tutta la compagine sociale (Trib. Milano, 13 marzo 2015, n. 3388, cit.). La clausola in esame, inoltre, non rappresenta nemmeno un limite al potere di revoca per giusta causa attribuito inderogabilmente all'assemblea che, laddove esercitato, porterebbe con sé la gravosa conseguenza consistente nella cessazione di tutto il consiglio di amministrazione. Anche se ciò si verificasse, infatti, l'assemblea rimarrebbe libera di nominare di nuovo tutti gli amministratori precedenti, eccezion fatta per quello che avrebbe voluto revocare (Cass. civ. 16 marzo 1990, n. 2197). Chiaramente, in questo caso, per agire correttamente l'assemblea dovrebbe corrispondere all'amministratore revocato gli emolumenti residui (e, in generale, il risarcimento del danno). Riconosciuta quindi la liceità della clausola simul stabunt simul cadent, il dibattito giurisprudenziale si è concentrato piuttosto sull'individuazione dei limiti applicativi di tale strumento, tenuto conto, in particolare, del suo possibile uso strumentale. Non è infrequente, infatti, il caso in cui la presentazione delle dimissioni da parte di uno o più amministratori abbia la precipua – se non esclusiva – finalità di ‘eliminare' i consiglieri sgraditi, pur in assenza di giusta causa e, quindi, eludendo l'obbligo di corresponsione degli emolumenti residui (ed in generale, del risarcimento del danno). Si rammenta, infatti, che il singolo amministratore non gode di una tutela reale al mantenimento della propria carica, ma – in caso di revoca senza giusta causa – ha solamente diritto al risarcimento del danno ai sensi e per gli effetti dell'art. 2383, comma 3, c.c. per le s.p.a. e degli artt. 1723, comma 2, e 1725 c.c. per le s.r.l. In tale contesto, si inserisce l'orientamento del Tribunale di Milano che, sin dalle prime battute, ha consentito di individuare le problematiche legate ad un'arbitraria applicazione della clausola statutaria e di tracciare i confini tra uso lecito della clausola ed abuso della stessa, pur nell'ambito di una evoluzione del percorso e delle argomentazioni giuridiche. Inizialmente, infatti, i Giudici del foro meneghino qualificavano l'uso strumentale della clausola simul stabunt simul cadent come un negozio indiretto. Si riteneva così che l'abuso della clausola si configurasse nell'utilizzo di un determinato modello negoziale per realizzare uno scopo corrispondente non già alla causa tipica dello stesso, bensì a quella data dall'insieme degli altri atti negoziali tra loro connessi: il tutto con la finalità di aggirare gli obblighi di motivazione e risarcitori di cui il soggetto revocante si sarebbe dovuto far carico al fine del buon governo societario. La figura del negozio indiretto di distingue dalla simulazione relativa perché, mentre attraverso la seconda le parti vogliono portare a compimento un atto reale, nascondendolo sotto le fittizie apparenze di un atto diverso, con il negozio indiretto le parti, proponendosi di realizzare una particolare finalità, combinano più atti tra loro, tutti reali, collegandoli insieme, così da giungere alla realizzazione del fine ultimo per via indiretta, attraverso il concorso delle varie forme giuridiche collegate, tutte corrispondenti al vero e tutte conformi alla dichiarata volontà dei contraenti (cfr. Cass. civ. 6 aprile 2006, n. 8098, in Giust. civ., 2006, I, 1438 e ss.). L'abuso della clausola veniva così individuato tutte le volte in cui gli amministratori, allineati ai poteri "forti" della compagine sociale - non necessariamente espressione della maggioranza dei soci -, con le proprie dimissioni, miravano ad ottenere un effetto diverso e, in special modo, quello dell'immediata revoca di uno o alcuni degli amministratori, aggirando l'obbligo di motivare e giustificare la revoca delle deleghe internamente distribuite; oppure quello di passare dall'assemblea per conseguire la revoca anticipata; oppure, ancora,quello di non dover corrispondere all'amministratore (indirettamente revocato) il risarcimento del danno, così come previsto nell'art. 2383 c. c., in caso di mancanza di giusta causa (App. Milano, 6 aprile 2001; Trib. Milano, 10 maggio 2001, in Giur. it., 2002, 2329; Trib. Milano; Trib. Milano 24 maggio 2010 in www.dejure.it; Trib. Milano, 28 luglio 2010, in Soc., 2011, 149 e ss.). A mero titolo esemplificativo si riporta di seguito la decisione dalla Corte di Appello di Milano che, con sentenza del 6 aprile 2001, ha affermato che “quando la clausola [viene]applicata sulla base di presupposti messi in atto quale mero pretesto per procurare un effetto estraneo alla finalità tipica del sistema statutario previsto, si qualifica come negozio indiretto, con la conseguenza che sorge un diritto risarcitorio in capo all'amministratore revocato senza giusta causa”.La Corte, in particolare, ha ravvisato nella fattispecie posta in essere un cosiddetto «negozio indiretto», in quanto dal perfezionamento del meccanismo di decadenza automatica del consiglio di amministrazione “è conseguito un effetto proprio di un altro negozio [la revoca anticipata unilaterale di un dato amministratore - N.d.A.], senza le naturali conseguenze onerose che la legge gli avrebbe connesso”, cioè aggirando quegli obblighi risarcitori di cui, invece, il revocante si sarebbe dovuto far carico, ex art. 2383 c.c., nei confronti dell'amministratore revocato ingiustamente. Più recentemente, il Tribunale di Milano ha preferito considerare l'utilizzo abusivo della clausola simul stabunt simul cadent, applicata con il solo fine di eliminare un componente sgradito del consiglio di amministrazione, come una condotta abusiva o, comunque, contraria ai principi di correttezza e buona fede (Trib. Milano, 24 maggio 2011, in www.dejure.it; Trib. Milano 7 novembre 2012, n. 12216; Trib. Milano, 23 aprile 2018). L'abuso della clausola in commento è dunque qualificato come una violazione del principio di buona fede, la cui applicazione in ambito societario è foriera di numerose e significative ricadute. In particolare, però, merita una particolare riflessione l'analisi svolta dalla Corte di Cassazione in merito ad un'eventuale connessione tra violazione della clausola generale della buona fede e abuso del diritto. In dottrina vi sono diverse opinioni in merito al rapporto che intercorre tra il principio generale della buona fede e la fattispecie dell'abuso del diritto. Alcuni, quindi, ritengono che le ipotesi che potrebbero rientrare nell'ambito dell'abuso del diritto, in realtà sarebbero già comprese tra le fattispecie tali da ledere la clausola generale della buona fede (R. Sacco, il diritto soggettivo. L'esercizio e l'abuso del diritto, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 2001, 373). Vi sono poi altri autori che, invece, ritengono vi sia una reciproca influenza tra i due concetti (in questo senso F. Galgano, Trattato di diritto civile, II, Padova, 2009, 556 e ss.). Infine, altre tesi dottrinali si soffermano sui pericoli derivanti da una eventuale sovrapposizione dei due concetti e ne evidenziano le differenze. In particolare, si rimarca il fatto che il controllo degli atti di esercizio attraverso la lente di ingrandimento dell'abuso sarebbe di tipo causale, mirando a verificare che il titolare del diritto non si appropri di utilità diverse ed ulteriori rispetto a quelle che l'ordinamento tenderebbe ad assicurargli. Diversamente, invece, il controllo effettuato avendo come punto di riferimento la clausola generale della buona fede riguarderebbe il sindacato delle sole modalità tramite le quali si intende esercitare il diritto (in questo senso, G. D'Amico, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, in Giur. comm., 2010, II, 828).
La Suprema Corte ha infatti affermato che: “il principio di buona fede debba essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall'art. 2 della Cost., e la sua rilevanza si esplicita nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o singole norme di legge. Criterio rilevatore dell'obbligo di buona fede […] è ravvisabile nell'abuso del diritto, il quale sussiste quando nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede» (Cass. civ., 18 settembre 2009, n. 20106, in Contratti, 2009, 1009 e in Riv. soc., 2011, 843). È del resto evidente che la maggior parte dei casi di utilizzo abusivo della clausola simul stabunt simul cadent risponda ad un disegno del socio (o dei soci) di controllo di concerto con gli attuali amministratori, che del gruppo di comando sono espressione, o degli amministratori che sono essi stessi soci di maggioranza della società, i quali, travisando il potere di autonomia loro conferito, pongono in essere un atto (i.e. rendere le dimissioni), la cui funzione obiettiva (i.e. cessare dall'incarico) è del tutto alterata (i.e. si vuole estromettere l'amministratore “scomodo”). E anche laddove l'intento degli amministratori sia solamente quello di estromettere il consigliere sgradito senza dovergli corrispondere alcunché, va da sé che riflessi negativi si avranno anche sul fronte dei soci di minoranza. Essi, infatti, si vedranno privati del proprio rappresentante che, certamente, non verrà successivamente rieletto. Ma non solo, nel caso in cui l'amministratore decaduto non dimissionario dovesse ottenere il risarcimento dei danni,risulterebbero doppiamente danneggiati anche gli stessi soci di minoranza, che perderebbero il proprio rappresentante e, in più, si troverebbero – proporzionalmente – a subire gli effetti del risarcimento del danno. Ed allora, dal momento che, quando gli amministratori decidono – su impulso del socio di maggioranza o, comunque, a beneficio di quest'ultimo – di attivare in modo strumentale la clausola simul stabunt simul cadent,provocano una lesione non solo dei diritti del consigliere decaduto non dimissionario, ma anche dei soci di minoranza, con ciò dando origine ad una forma di abuso della maggioranza, a danno della minoranza. In questo senso si è espressa anche la dottrina (Garilli, in Le Società 7/2013, 800 ss.), che, guardando agli atti compiuti successivamente all'abusiva rassegnazione delle dimissioni, ha sostenuto che la delibera assembleare di nomina del nuovo consiglio, con estromissione di uno o più amministratori ‘‘scomodi'' e conferma di quelli dimissionari, può senz'altro configurare un caso di abuso della maggioranza, con conseguente annullabilità della relativa delibera ai sensi dell'art. 2377 c.c. ed imposizione a carico dei soci di maggioranza di un obbligo risarcitorio in favore della minoranza (sulla possibilità di ottenere un risarcimento di danno in conseguenza di un abuso da parte della maggioranza: cfr. Guerrera, La responsabilità ‘‘deliberativa'' nelle società di capitali, Torino, 2004, 292 ss.; Stabilini, L'abuso della regola di maggioranza, cit., 845). In giurisprudenza le ricadute più significative dell'applicazione della clausola generale di buona fede sono quelle relative all'annullabilità delle delibere assembleari per c.d. abuso di maggioranza: Cass. 29 gennaio 2008, n. 2020; Cass. n. 27387/2005, cit.; Cass. 17 luglio 2007, n. 15942; Cass. 11 giugno 2003, n. 9353; Cass. 11 giugno, 2003, n. 27387. Per una rassegna ragionata della giurisprudenza di legittimità e di merito: Stabilini, L'abuso della regola di maggioranza nelle società di capitali, in Le Società, 2011, 841 ss. La sentenza annotata è interessante anche sotto il profilo dell'onere probatorio in quanto, soffermandosi sull'errore compiuto dall'attore nella scelta delle prove da allegare, rimarca le evidenti differenze che intercorrono tra l'ipotesi in esame e la contestazione da parte dell'amministratore della giusta causa di revoca disposta dall'Assemblea. Il Tribunale, in particolare, chiarisce che, nel caso di utilizzo abusivo della clausola, l'amministratore che ritenga illegittima la propria decadenza, causata dalle dimissioni degli altri consiglieri, ha l'onere di dimostrare che quelle dimissioni erano appunto abusive in quanto unicamente finalizzate alla sua estromissione. Nel diverso caso in cui, invece, l'amministratore ritenga insussistente la giusta causa di revoca deliberata dall'Assemblea, egli avrà invece l'onere di provare che non sussistevano quei profili di illegittimità del suo operato, che la società ha indicato, nella relativa delibera assembleare, come giusta causa di revoca. Ed allora, per quanto uso abusivo della clausola e assenza di giusta causa spesso appaiano tra loro collegati, vi sono molti casi in cui, in modo del tutto legittimo, un amministratore rinuncia alla carica senza che in capo agli altri amministratori decaduti ma non dimissionari sussista una giusta causa di revoca. In questo caso, gli amministratori decaduti non potrebbero valutare alcun diritto, atteso che l'assunzione della carica di amministratore comporta l'implicita accettazione degli strumenti statutariamente previsti (Trib. Milano, 18 giugno 2014, cit.; in dottrina G. Opromolla, Clausola simul stabunt simul cadent e giusta causa di revoca dell'amministratore, in diritto24.ilsole24ore.com). Così, come chiarito dalla Corte di Appello di Milano, l'utilizzo abusivo della clausola statutaria produce un “effetto equivalente” alla revoca senza giusta causa dell'amministratore non dimissionario, “qualora dal complesso degli atti conseguenti, consistiti nella convocazione dell'assemblea per la nomina del nuovo consiglio, nelle dichiarazioni dei dimissionari nella riunione e nella costituzione del nuovo consiglio mediante elezione degli stessi componenti dimissionari del precedente ed esclusione del componente decaduto a causa delle loro dimissioni, possa trarsi la dimostrazione che l'intero procedimento abbia costituito lo strumento per estromettere dall'organo amministrativo il componente non dimissionario” (App. Milano, 6 marzo 2017, cit.; Cass. civ., 7 luglio 2008, n. 18597). Alla luce delle considerazioni appena svolte, ne deriva che la prova che l'amministratore decaduto non dimissionario dovrà fornire si articola su più piani (Trib. Milano, 5 febbraio 2019, n. 1124). Egli, infatti, dovrà: (i) provare il collegamento oggettivo e soggettivo tra le dimissioni dei consiglieri che hanno determinato lo scioglimento dell'intero consiglio e la successiva nomina di un nuovo organo amministrativo composto da tutti i precedenti componenti, eccetto lui stesso (è opportuno precisare che, come osservato dalla sentenza annotata, la mancata rielezione dell'amministratore decaduto non dimissionario non connota l'abuso della clausola in quanto tale, dal momento che la mancata rielezione di costui può seguire anche ad un utilizzo fisiologico e legittimo dell'istituto. Tale circostanza, piuttosto, assume rilievo sul diverso piano della “prova dell'abuso, per contrapposto alla rielezione degli amministratori dimissionari”); (ii) provare che la scelta degli altri amministratori aveva quale unico scopo quello di estrometterlo dal Consiglio di Amministrazione. Il danno risarcibile
Un altro problema sul quale interrogarsi quando si affronta il tema dell'abuso della clausola simul stabunt simul cadent è rappresentato dal diritto al risarcimento dei danni dell'amministratore decaduto non dimissionario. Infatti, nei casi in cui la clausola sia azionata al solo fine di estromettere un amministratore considerato “sgradito”, così da eludere l'obbligo di risarcire il danno ex art. 2383, comma 3, cod. civ., inevitabilmente, la conseguenza sarà proprio quella risarcitoria. Per meglio comprendere la portata della questione, si riporta di seguito un caso concreto, deciso dal Tribunale di Milano con sentenza 7 novembre 2012, n. 12216 (nello stesso senso, App. Milano, 6 marzo 2017, cit.; Trib. Milano, 28 luglio 2010, cit., Trib. Milano, 24 maggio, 2010, cit.). Un consigliere di amministrazione di una società per azioni riteneva di essere stato ingiustamente revocato dalla carica per mezzo di un uso abusivo della clausola simul stabunt simul cadent. In particolare, l'attore ha evidenziato di aver ricoperto la carica di consigliere di amministrazione di società per azioni con il padre, la madre ed il fratello, sin dal settembre dell'anno 2000; che, nell'aprile del 2004 gli altri membri del Consiglio di amministrazione avevano rassegnato le proprie dimissioni; che, in seguito a tale decisione, era diventata operativa la clausola statutaria simul stabunt simul cadent; che, in seguito alla cessazione del C.d.A., l'assemblea nominava un amministratore unico il quale, tuttavia, dopo pochi mesi, veniva sostituito con un nuovo organo del quale facevano parte solamente il padre ed il fratello. La società convenuta si costituiva sostenendo l'assenza di abusività nell'attivazione della clausola predetta, dal momento che alla rassegnazione delle dimissioni e alle successive delibere si era pervenuti a causa di gravi problemi gestionali e della crisi economica. Il Tribunale di Milano, riconosciuta la strumentalità della clausola in commento, ha accolto la domanda attorea e ha determinato il risarcimento del danno ancorandolo al compenso che l'amministratore avrebbe percepito sino alla naturale scadenza dell'incarico, incluso il TFM (trattamento di fine mandato). Ne deriva che la quantificazione del risarcimento dovrà necessariamente confrontarsi con il compenso riconosciuto e stabilito al momento della nomina o in altra delibera e sarà generalmente pari agli emolumenti che l'amministratore avrebbe percepito sino alla naturale scadenza del mandato (Trib. Milano, 24 maggio 2010, cit.; App. Milano, 6 marzo 2007, cit.).
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