Concordato preventivo e garanzia patrimoniale generica: applicazioni e deroghe all'art. 2740 c.c.

Martina Elisa Pillon
Edoardo Staunovo Polacco
18 Giugno 2020

È inammissibile la domanda di concordato preventivo proposta dall'imprenditore individuale qualora nel passivo non vengano indicati, oltre ai creditori dell'impresa, anche i creditori personali, dal momento che, ai sensi dell'art. 2740 c.c., l'imprenditore individuale risponde con tutto il suo patrimonio delle obbligazioni assunte...
Massima

È inammissibile la domanda di concordato preventivo proposta dall'imprenditore individuale qualora nel passivo non vengano indicati, oltre ai creditori dell'impresa, anche i creditori personali, dal momento che, ai sensi dell'art. 2740 c.c., l'imprenditore individuale risponde con tutto il suo patrimonio delle obbligazioni assunte, senza che,a tal fine, possa essere operata una distinzione in conseguenza dell'origine dei debiti o della categoria dei creditori.

Il caso

Il titolare di un'impresa individuale depositava, ai sensi dell'art. 161, comma 6, l. fall., domanda di concordato preventivo, unitamente alla situazione patrimoniale aggiornata e all'elenco nominativo dei creditori con l'indicazione dei rispettivi crediti, riservandosi di depositare la proposta e il piano, nonché l'ulteriore documentazione di cui all'art. 161, comma 2 e 3, entro il termine stabilito dal giudice.

Il Tribunale di Novara, esaminata la documentazione depositata dal ricorrente, assegnava un termine di dieci giorni per consentire al debitore, da un lato, di depositare i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, non potendosi ritenere ad essi equivalente la situazione patrimoniale aggiornata, data la mancata produzione di scritture contabili e dichiarazioni fiscali; dall'altro lato, di chiarire le ragioni della mancata inclusione, nell'elenco nominativo dei creditori, di un istituto di credito, il quale,dal ricorso, risultava essere creditore garantito da ipoteca iscritta su un bene immobile di proprietà dell'imprenditore stesso.

Nonostante le integrazioni richieste al debitore, il Tribunale dichiarava inammissibile il ricorso sulla base di una duplice motivazione. Per un verso, infatti, veniva rilevata l'inattendibilitàdei bilanci elaborati e depositati dal ricorrente in seguito al decreto del collegio, stante l'impossibilità di verificarne la coerenza rispetto alle scritture contabili e fiscali obbligatorie, non prodotte neanche in sede di integrazione della documentazione. Per altro verso – ed è questo l'aspetto che più interessa ai fini del presente commento – i giudici novaresi hanno considerato ingiustificata l'esclusione dall'elenco nominativo dei creditori di coloro il cui credito sia sorto in virtù di un rapporto obbligatorio estraneo all'attività d'impresa. Ciò in quanto, in applicazione dell'art. 2740 c.c., l'imprenditore individuale risponde con l'intero suo patrimonio delle obbligazioni assunte, senza che,a tal fine, possa essere operata una distinzione tra debiti personali e debiti relativi all'attività d'impresa.

Le questioni giuridiche

Il decreto del Tribunale di Novara offre l'occasione per svolgere alcune riflessioni sui presupposti di ammissibilità e sulla disciplina applicabile alla procedura di concordato preventivo nell'ipotesi in cui la domanda di cui all'art. 161 l. fall. sia proposta da un imprenditore individuale.

Infatti, lo svolgimento dell'attività imprenditoriale in forma individuale se, da un lato, comporta la confusione di tutti i rapporti giuridici, commerciali e personali, in un unico patrimonio ed impedisce, dunque,di limitare la garanzia patrimoniale generica ai soli debiti contratti nell'esercizio dell'impresa, dall'altro lato,determina l'esposizione della totalità dei beni alle pretese dei creditori, quale che sia l'origine del rapporto obbligatorio.

Dal punto di vista della necessità di ricomprendere, nell'elenco dei creditori depositato dal ricorrente con la domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, non solo i creditori il cui diritto sia sorto nell'ambito dell'attività imprenditoriale, ma anche quelli estranei alla sfera commerciale, non sembra necessario svolgere ulteriori considerazioni rispetto a quelle contenute nella decisione in commento. Come noto, la necessità di indicare, al momento della disclosure, oltre alla relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economico e finanziaria dell'impresa e allo stato analitico ed estimativo delle attività, anche l'elenco dei creditori, risponde alla finalità di rappresentare, sin dall'istanza, il complessivo fabbisogno concordatario (Di Marzio, Sub art. 161, Codice della crisi d'impresa, Milano, 2017, 1061)ed è dunque logico ricomprendervi anche coloro che, vantando diritti di credito in forza di negozi stipulati a titolo personale dall'imprenditore, possono aggredire quel medesimo patrimonio posto genericamente a garanzia di tutte le obbligazioni assunte dal debitore.

Osservazioni

Di maggior interesse pare invece l'indagine concernente alcune conseguenze del principio affermato dal Tribunale di Novara, sul versante delle attività che confluiscono nella proposta e nel piano di concordato.

Premessa, infatti, la garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 c.c., sembra opportuno svolgere una riflessione su quali siano i limiti che il proponente incontra, originariamente, nel plasmare il contenuto dell'offerta ai creditorie, successivamente, nella fase esecutiva del concordato preventivo.

In particolare,ci si chiede, in primo luogo, se sia possibile, per l'imprenditore individuale, escludere i beni estranei all'esercizio dell'impresa dal concordato preventivo nel caso in cui siano contemplate prospettive liquidatorie. In secondo luogo, se sia ammissibile una domanda di concordato in cui si preveda, già nella proposta, l'assegnazione ai creditori privilegiati esclusivamente di una somma pari a quella che potrebbero ottenere in sede di liquidazione fallimentare, limitandone in tal modo il diritto di soddisfarsi in via piena e preferenziale sull'effettivo ricavato della vendita dei beni vincolati in loro favore. Infine, se nell'ipotesi in cui sia stato omologato un concordato contenente un piano liquidatorio attraverso cui è stata assicurata una determinata percentuale di soddisfacimento in favore dei creditori, basata su una stima del valore di mercato dei beni, il debitore abbia il dovere di destinare l'eventuale maggior ricavato dalla vendita ai creditori stessi, secondo l'ordine di graduazione.

Quanto alla prima questione relativa alla facoltà, in capo al debitore che eserciti attività di impresa in forma individuale, di non includere la totalità dei propri beni nel concordato, giova una precisazione.

Il Tribunale, allorché è chiamato a decidere dell'ammissione dell'imprenditore alla procedura in esame, compie un controllo formale sulla legittimità e sulla fattibilità giuridica (Cass. SS.UU. 23 gennaio 2013, n. 1521; Cass., 1° marzo 2018, n. 4790) dell'accordo, attraverso l'analisi del contenuto della domanda, della proposta e del piano.

La composizione attiva del patrimonio dell'istante viene dunque in rilievo in un duplice momento: ai sensi dell'art. 160, comma 1, l. fall., allorché è delineata la possibilità di offrire un soddisfacimento attraverso la liquidazione del patrimonio o la cessione dei beni ai creditori, nonché ai sensi dell'art. 161, comma 2, l. fall., nella parte in cui prevede l'obbligo di presentare, insieme al ricorso, una aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell'impresa e uno stato analitico ed estimativo delle attività (c.d. disclosure).

Quanto a quest'ultima norma, non vi sono ragioni per esonerare il debitore che eserciti attività imprenditoriale in forma individuale dall'obbligo di indicare nella situazione economico-patrimoniale aggiornata anche i beni estranei all'esercizio dell'impresa. Infatti,tale relazione si sostanzia in un documento compilato nel rispetto dei principi civilistici di redazione del bilancio, attraverso il quale sono delineate le attività e le passività dell'impresa, nonché i costi e i ricavi.

Come è noto, per le imprese individuali, il Codice civile non impone regole stringenti per la redazione del bilancio, riconoscendogli una valenza informativa prevalentemente interna. Tuttavia, l'unica disposizione che il legislatore dedica alla tenuta della contabilità, l'art. 2217 c.c., prevede espressamente, al primo comma, che l'inventario redatto dall'impresa individuale, il qualecostituisce la base per la redazione del bilancio, indichi, oltre alle attività e passività relative all'impresa, anche le “attività” e le “passività dell'imprenditore estranee allamedesima”.

Peraltro, la necessaria indicazione dei beni personali da parte dell'imprenditore individuale pare tanto più coerente se si pone attenzione al fatto che l'inclusione tra i documenti che il debitore ha l'onere di depositare, in sede di domanda concordataria, della situazione economico patrimoniale (così come dello stato analitico ed estimativo delle attività) svolge la funzione di “fotografare” la struttura e la solidità patrimoniale dell'impresa, consentendo in tal modo ai creditori di valutare la convenienza del concordato rispetto alle altre soluzioni concretamente percorribili. Non si vedrebbe, altrimenti, come possa essere possibile, per il ceto creditorio, chiamato a valutare il merito dell'offerta, apprezzare l'effettiva maggiore utilità di un accordo con il debitore rispetto a prospettive esecutive individuali o al fallimento, se i creditori non possono avere contezza della composizione della garanzia patrimoniale generica aggredibile in sede esecutiva.

Discorso più articolato merita, invece, l'indagine relativa al contenuto minimo della proposta di concordato preventivo nell'ipotesi in cui siano contemplate prospettive liquidatorie. Più precisamente, occorre chiedersi se, ai fini dell'ammissibilità della domanda (e dunque, all'interno del sopracitato vaglio relativo alla fattibilità giuridica compiuto dal Tribunale), l'imprenditore individuale istante debba necessariamente offrire tutti i beni compresi nel suo patrimonio, ovvero se sia possibile l'esclusione di alcune attività dalla liquidazione.

La soluzione appare agevole per i beni c.d. impignorabili di cui – limitandoci alle ipotesi previste dal Codice di rito – agli artt. 514,515,516 e 545 c.p.c., poiché essi non potrebbero essere validamente sottoposti ad aggressione da parte dei creditori in sede di esecuzione individuale, ovvero in sede fallimentare. Non potrebbe dunque ravvisarsi una violazione dell'art. 2740 c.c., riscontrabile dal giudice in sede di valutazione del rispetto della legalità della domanda, in quanto si tratta di attività in ogni caso non destinate al soddisfacimento dei creditori.

Dovrebbero, al contrario, essere ricompresi nella domanda concordataria quei beni che, pur non rientrando tra quelli impignorabili, sono comunque estranei all'attività d'impresa (quali, ad esempio, l'automobile impiegata privatamente dall'imprenditore per spostamenti propri o della propria famiglia e, dunque, al di fuori della sfera aziendale).

Si può ritenere, infatti, che, in virtù del richiamato principio di confusione in un unico patrimonio dei rapporti giuridici relativi all'imprenditore individuale, non vi possa essere distinzione tra beni afferenti all'attività commerciale e beni “personali”, entrambi confluenti nella garanzia generica posta a tutela della totalità dei creditori.

Il problema si pone, piuttosto, in relazione all'applicabilità alla materia del concordato preventivo della disposizione contenuta nell'art. 46 l. fall., secondo cui i beni indicati in tale norma non sono oggetto, in sede fallimentare, di spossessamento in capo al debitore.

La questione ha, invero, assunto rilevanza solamente a seguito della modifica normativa apportata dal legislatore del 2005, poiché, nel riformare l'art. 160 l. fall., è stata eliminata la previsione dell'obbligo per il creditore di offrire, nella proposta di concordato con cessione dei beni, “tutti i beni esistenti nel suo patrimonio alla data della proposta di concordato, tranne quelli indicati dall'art. 46”.

Si tratta dunque di verificare se le medesime esigenze sottese all'esclusione dal fallimento dei beni di cui all'art. 46 l. fall. possano dirsi ugualmente sussistenti anche in sede concordataria e se, conseguentemente, sia ammissibile e conforme alle disposizioni in tema di responsabilità patrimoniale dell'imprenditore individuale una offerta che escluda tali componenti attive.

Quanto al contenuto dell'art. 46 l. fall., è agevole notare come esso abbia portata più ampia rispetto alle disposizioni previste in materia esecutiva: oltre, infatti, alle cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge di cui già si è detto, esclude dallo spossessamento anche “i beni ed i diritti di natura strettamente personale”, nonché “gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia” e “i frutti derivanti dall'usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dall'articolo 170 del Codice civile, disponendo dunque una disciplina non coincidente né qualitativamente né quantitativamente con quella prevista dal Codice di rito.

La ratio di tale norma è evidente: a fronte dell'universalità dello spossessamento fallimentare, il legislatore ha previsto una deroga all'art. 2740 c.c. diretta, per un verso, ad evitare intollerabili intrusioni da parte del curatore nell'esercizio di diritti e azioni che, pur essendo suscettibili di produrre conseguenze di carattere patrimoniale, presuppongono, tuttavia, valutazioni di natura personale e richiedono, pertanto, che l'interesse della procedura ceda dinanzi all'interesse del debitore a determinarsi liberamente con riferimento a tali posizioni giuridiche soggettive; per altro verso, l'art. 46 l. fall. è diretto a garantire il soddisfacimento delle esigenze essenziali di vita, attraverso la conservazione del potere di amministrare beni e diritti necessari a preservare l'integrità fisica e spirituale, nonché la dignità del fallito e della sua famiglia (sul punto, diffusamente, si veda Guglielmucci, Sub art. 46, in De Ferra – Guglielmucci, Effetti del fallimento per il fallito, in Commentario Scialoja-Branca della legge fallimentare, Bologna-Roma, 1986, 79 ss.).

Si tratta dunque di verificare se l'esclusione, anche in sede di concordato preventivo, dei beni sottratti al fallimento costituisca una violazione dell'art. 2740 c.c., la cui osservanza deve essere sindacata in sede di valutazione della fattibilità giuridica da parte del giudice, ovvero se tale esclusione sia, invece, possibile, poiché l'art. 46 l. fall. costituisce espressione di principi generali sanciti anche a livello costituzionale (in argomento si veda, problematicamente, Censoni, Il concordato preventivo, in Jorio – Sassani, Trattato delle procedure concorsuali, IV, Milano, 2016, 118).

La giurisprudenza di legittimità sembra, da ultimo, aver condiviso la prima soluzione, poiché (seppur non prendendo espressamente posizione sull'estensione dei limiti ex art. 46 l.fall. al concordato preventivo), ha ritenuto inammissibile una domanda di concordato preventivo che preveda una cessione solo parziale dei beni del debitore. Ciò che rileva, in particolare, in questa sede è l'affermazione della Suprema Corte secondo cui, per un verso, l'art. 2740 c.c. rappresenta una norma di ordine pubblico e, per altro verso, l'effetto esdebitatorio che consegue automaticamente alla procedura concordataria presuppone che vengano messe a disposizione dei creditori tutte le attività dell'imprenditore (Cass., 17 ottobre 2018, n. 26005) e quindi, sembrerebbe, anche i beni di cui all'art. 46 l. fall.

Inoltre, anche tra le Corti di merito si registrano posizioni volte ad ammettere la possibilità per l'imprenditore di riservarsi parte del patrimonio senza offrirlo ai creditori solo nel caso di concordato con continuità aziendale ex art. 186-bis l. fall., in quanto, in tale ipotesi, la conservazione dell'azienda risulterebbe giustificata dalla necessità di garantirne la continuità (Trib. Roma, 25 luglio 2012, disponibile su ilcaso.it).

Al contrario, in dottrina sembra prevalere l'opinione contraria, la quale sostiene che la necessità di salvaguardia della vita privata e familiare del debitore rappresenti un'esigenza imprescindibile anche in sede concordataria e che, conseguentemente, l'art. 46 l. fall. debba ritenersi implicitamente richiamato anche con riguardo alla procedura delineata dagli artt. 160 ss. l. fall. (si veda, ad esempio, Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2015, 320 s.).

A parere di chi scrive, l'orientamento espresso dalla dottrina maggioritaria appare condivisibile.

Infatti, sebbene possa dubitarsi della razionalità e convenienza economica di una proposta concordataria che non offra qualcosa di più rispetto a ciò che il creditore potrebbe ottenere in sede fallimentare o esecutiva (ed anzi, renda più appetibile un'aggressione individuale del patrimonio dell'imprenditore, in prospettiva di un pignoramento anche di quei beni sottratti al fallimento), tuttavia, un simile giudizio è certamente rimesso all'apprezzamento dei creditori in sede di votazione e non può essere svolto dal giudice in occasione della verifica della sussistenza dei presupposti di legittimità del concordato.

Tale soluzione, volta ad escludere anche dalla procedura di concordato preventivo i beni di cui all'art. 46 l. fall. sembra in effetti confermata anche dal fatto che l'art. 14-ter, comma 6, della legge n. 3 del 2012, in tema di liquidazione del patrimonio all'interno della procedura di sovraindebitamento, ripropone, quasi letteralmente, la disposizione contenuta nel citato articolo della legge fallimentare: l'unica differenza consiste, infatti, nella previsione dell'art. 14-ter, comma 6, n.1), il quale, anziché disporre l'esclusione, dalla procedura, dei beni e diritti di natura strettamente personale, restringe l'area della non assoggettabilità a liquidazione esclusivamente ai crediti impignorabili ai sensi dell'art. 545 c.p.c.

Risulta, pertanto, ragionevole ritenere che, almeno per quanto riguarda il “nocciolo duro” dei beni non assoggettabili a procedura concorsuale, la medesima norma possa ritenersi applicabile anche al concordato preventivo, poiché la presenza di una identica ratio di salvaguardia dei beni indispensabili alla vita personale e familiare del fallito (o del sovraindebitato) impedisce che un trattamento diverso e deteriore debba essere riservato all'imprenditore che aspira ad una soluzione concordata della crisi.

Venendo, invece, alla seconda questione, concernente l'ammissibilità di una domanda concordataria che, sin dalla proposta, preveda che, una volta assicurato ai creditori privilegiati un soddisfacimento in misura non inferiore a quello realizzabile in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione fallimentare, il surplus ricavato dalla vendita dei beni oggetto di garanzia in sede concordataria venga assegnato ai creditori chirografari, si tratta, anche in questo caso, di indagare i limiti della libertà del debitore nel modulare il contenuto dell'offerta.

Fermo, infatti, il principio secondo cui, in caso di incapienza dei beni sui quali sussiste la causa di prelazione, per la parte non soddisfatta il credito privilegiato viene degradato al rango chirografario (art. 177, comma 3, l. fall.), è necessario verificare se la destinazione dell'eventuale maggior ricavo derivante dalla liquidazione di detti beni ai creditori chirografari non costituisca un'alterazione dell'ordine delle cause legittime di prelazione, espressamente vietato dall'art. 160, comma 2, l. fall.

L'opinione maggioritaria, a tale proposito, ritiene che il divieto in questione non sia violato allorché, in presenza di un'impossibilità di soddisfare interamente i creditori privilegiati, il pagamento del ceto chirografario avvenga con l'utilizzo di nuova finanza: quest'ultima, infatti, non rientrando nel patrimonio del debitore, non risulterebbe neppure vincolata al soddisfacimento dei creditori privilegiati.

Più precisamente, la Suprema Corte ha affermato che non è riscontrabile una violazione dell'art. 160, comma 2, l. fall., nel caso in cui la nuova finanza consista nell'apporto di un terzo e risulti neutrale rispetto al patrimonio del debitore dal momento che non comporta un aumento dell'attivo (il quale dovrebbe comunque essere destinato ai creditori secondo il grado del privilegio), né del passivo, a causa del riconoscimento di ragioni di credito da regresso a favore del terzo (Cass., 8 giugno 2012, n. 9373).

Tale orientamento – a parere di chi scrive, condivisibile – porta dunque a ritenere che nell'ipotesi in cui, al contrario, le maggiori risorse concordatarie derivino dalla liquidazione dei beni del debitore a un valore superiore rispetto a quello preventivato nella stima svolta ex art. 160, comma 2, l. fall. e dal conseguente aumento della massa attiva, inevitabilmente esse debbano essere destinate, con preferenza, al pagamento dei creditori che vantano privilegi sui beni liquidati (ovviamente, nei limiti del credito garantito), dal momento che il ricavato dei beni oggetto di ipoteca è destinato a soddisfare in via preferenziale i creditori privilegiati. In tal caso, infatti, “la controprestazione che il debitore alienante ha diritto di ricevere dall'acquirente trova la sua causa del trasferimento della proprietà dei beni facenti parte dell'attivo concordatario, cosicché la causa della cessione non muta e impone il rispetto dell'ordine dei privilegi” (in tal senso App. Venezia, 12 maggio 2016, disponibile su ilcaso.it e Trib. Milano, 15 dicembre 2016, ivi. In dottrina si veda Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, in Fallimento, 2013, 1240; Bozza, L'utilizzo di nuova finanza nel concordato preventivo e la partecipazione al voto dei creditori preferenziali incapienti, ivi, 2009, 1442). In una simile circostanza, infatti, la maggiore liquidità ottenuta non potrebbe essere validamente distribuita ai chirografari, poiché allo ius distrahendi vantato dal privilegiato sulla cosa gravata dalla prelazione si sostituisce, ai sensi dell'art. 2808 c.c., una volta che sia stata effettuata la liquidazione, lo ius praelationis sul ricavato, con la conseguenza che la distrazione di tali somme dalla loro naturale destinazione non potrebbe che costituire una violazione dell'ordine di graduazione dei privilegi.

Una volta riconosciuta, per le ragioni illustrate, l'inammissibilità di una domanda concordataria che preveda l'assegnazione al chirografo dell'eventuale surplus derivante dalla liquidazione dei beni del debitore, altro problema si presenta allorché, dopo che sia stato ammesso ed omologato un concordato liquidatorio contenente un piano con cui il debitore si è impegnato ad assicurare una determinata percentuale (pari almeno al 20% dei crediti ammessi al chirografo, ex art. 160, ultimo comma, l. fall.) di soddisfacimento ai creditori chirografari, basata sulla stima del valore di mercato di detti beni, attestata da un professionista indipendente, tuttavia, dalla avvenuta liquidazione del beni vincolati si ottenga una somma maggiore rispetto a quella preventivata.

In particolare, occorre domandarsi se l'accettazione mediante votazione a maggioranza della proposta avanzata dal debitore comporti, in sostanza, una rinuncia al maggior credito, ovvero se il sopravvenire di maggiori disponibilità in sede di vendita obblighi il debitore a distribuire il ricavato tra i creditori secondo l'ordine di graduazione.

Anzitutto, non sembra possibile ritenere che l'espressione del consenso del ceto creditorio nei confronti della proposta concordataria con votazione a maggioranza possa essere interpretata come rinuncia al maggior credito.

In tal senso depongono, infatti, due considerazioni.

In primo luogo, è indicativa la disciplina relativa agli effetti del concordato per i creditori. Infatti, l'art. 184, comma 1, l. fall., nel disporre che l'omologazione produce effetti obbligatori per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione del ricorso contenente la domanda nel registro delle imprese, fa salvi i loro diritti nei confronti dei coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso. Di conseguenza, dal momento che, ai sensi dell'art. 1301 c.c., la remissione del debito nei confronti di un condebitore preclude al creditore la possibilità di agire, per la medesima quota, nei confronti degli altri coobbligati, ne consegue che – stante la previsione dell'art. 184 l. fall. – l'approvazione del concordato con votazione non può assimilarsi ad una rinuncia in senso proprio: diversamente opinando, infatti, si introdurrebbe una deroga alla disciplina civilistica in difetto di una norma ad hoc.

In secondo luogo, a sostegno della conclusione sopra riportata, si può osservare come nel caso di risoluzione del concordato ai sensi dell'art. 186 l. fall. il credito possa essere azionato, in sede ordinaria o fallimentare, nella misura originaria, dedotto quanto eventualmente ricevuto nell'ambito concordatario. La falcidia del credito e la sua estinzione conseguenti all'esdebitazione non rappresentano, pertanto, una rinuncia al maggior credito vantato, ma una soluzione imposta dalla funzione della procedura concorsuale in esame, finalizzata a liberare l'impresa, in caso di puntuale adempimento degli obblighi concordatari, da ogni maggior onere, al fine di consentire al debitore il fresh start e, cioè, il reinserimento sul mercato dell'impresa oramai libera da debiti.

Conclusioni

Esclusa, dunque, la possibilità di configurare l'approvazione del concordato in sede di votazione come rinuncia alla parte di credito non soddisfatta in sede concordataria, non sembra – a parere di chi scrive – che residuino valide ragioni per ritenere che il maggior ricavato ottenuto dalla liquidazione dell'attivo concordatario possa avere destinazione diversa dal pagamento dei creditori.

Neppure convince la tesi secondo cui in capo al debitore vi sia sempre la possibilità di trattenere il surplus della liquidazione, salvo che non sia stato diversamente previsto con apposita clausola nella proposta (così Trib. Treviso, 25 marzo 2015, disponibile su DeJure.it; secondo Lamanna, "Definitività” della degradazione al chirografo dei crediti privilegiati incapienti, in questo portale, 2014, è definitiva la degradazione al chirografo, a prescindere dall'esito della liquidazione, ma resta la destinazione dell'eventuale surplus ai creditori): a prescindere dal fatto che, in mancanza di un'espressa disposizione legislativa, non si vede come si possa derogare anche in tale ambito al principio sancito dall'art. 2740 c.c., è vero che la disciplina del concordato nulla prevede,in una simile circostanza, in favore dei creditori, ma ugualmente nulla prevede a vantaggio del debitore, sicché la scelta tra le due soluzioni comporta anche una presa di posizione in merito al soggetto (debitore o creditore) che più merita tutela in sede concorsuale.

A parere di chi scrive, tale preferenza non può che essere accordata al creditore, già pregiudicato dalla crisi del debitore, nonché dalla falcidia concordataria: del resto, l'equo contemperamento tra gli interessi contrapposti delle parti è criterio ermeneutico, in mancanza di diversa ed espressa indicazione contraria, anche in materia contrattuale (art. 1371 c.c.).

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