Il concordato liquidatorio nel CCII. Dubbi interpretativi e limiti di utilizzo

Carlo Pagliughi
19 Giugno 2020

Il Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza dedica nell'art. 84, 4° co., pochi cenni al concordato con liquidazione del patrimonio. L'intento del legislatore è quello di consentire la sopravvivenza del concordato liquidatorio soltanto a condizione che si renda competitivo rispetto alla liquidazione giudiziale. L'attuale formulazione della norma suscita alcuni dubbi interpretativi sulle potenzialità e sui limiti di utilizzo dello strumento.
Il concordato liquidatorio nel CCII: inquadramento generale

Nell'ambito degli strumenti di regolazione della crisi di impresa (titolo IV CCII), la scelta compiuta dal D.Lgs n. 14/2019 è stata quella di continuare a prevedere il concordato liquidatorio, ma fissando limiti estremamente stringenti al fine di individuare uno strumento alternativo alla liquidazione giudiziale che possa offrire risultati migliorativi per i creditori.

In questa prospettiva, l'articolo 84 CCII specifica che, con il concordato preventivo, il debitore realizza il soddisfacimento dei creditori mediante la continuità aziendale o la liquidazione del patrimonio. Come si vedrà più avanti, le due modalità di soddisfacimento potrebbero essere poste in via alternativa oppure congiunta (in tal caso il concordato assume natura “mista”).

Sul piano definitorio, la natura liquidatoria del concordato preventivo è individuata in negativo: è liquidatorio un concordato preventivo che non presenta le condizioni stabilite per il concordato in continuità.

La continuità può essere diretta o indiretta.

Come specifica la norma, la continuità diretta avviene in capo al soggetto economico che ha presentato la domanda di concordato.

La continuità indiretta, invece, si realizza allorché (art. 84, comma 2, D.Lgs. n. 14/2019, nel testo rivisto dallo schema di decreto correttivo e integrativo approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 febbraio 2020) sia prevista dal piano la gestione dell'azienda in esercizio o la ripresa dell'attività da parte di soggetto diverso dal debitore in forza di cessione, usufrutto, conferimento dell'azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, o a qualunque altro titolo, ovvero in forza di affitto, anche stipulato anteriormente, purché in funzione della presentazione del ricorso, ed è previsto dal contratto o dal titolo il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall'omologazione.

Quindi, nel caso di concordato alimentato da realizzi derivanti dalla prosecuzione dell'attività in capo a soggetto diverso dal debitore nelle diverse forme tecniche menzionate, la condizione richiesta per attribuire la qualifica di concordato in continuità (indiretta) è costituita dal mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno alla metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall'omologazione.

In assenza di tale condizione, il piano che prevede una continuità di tipo indiretto deve essere qualificato come atto a sorreggere una proposta che intende realizzare il soddisfacimento dei creditori mediante liquidazione del patrimonio.

L'ultimo periodo dell'art. 84, 2° co., CCII dispone che nel concordato in continuità (diretta o indiretta) la prosecuzione dell'attività di impresa debba anche essere funzionale ad assicurare il ripristino dell'equilibrio economico finanziario nell'interesse prioritario dei creditori, oltre che dell'imprenditore e dei soci (disposizione applicabile in quanto compatibile anche alla attività aziendale proseguita da soggetto diverso dal debitore).

L'articolo 84, 3° co., CCII introduce il criterio volto a discernere le situazioni in cui i realizzi provengano da liquidazione di asset, a fianco della prosecuzione dell'attività (in forma diretta o indiretta), i cosiddetti concordati misti.

Viene quindi introdotto il principio generale che qualifica “in continuità” tali concordati, a patto che i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta.

In ogni caso, la prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso.

Al riguardo, è stato coniato recentemente il termine di “prevalenza quantitativa attenuata” (Tribunale di Milano, decreto 28 novembre 2019) per segnalare le situazioni in cui, a fronte della apparente prevalenza di entrate derivanti dalla attività liquidatoria, appaia opportuno qualificare il concordato in continuità, al fine di valorizzare la salvaguardia dei posti di lavori ed evitare la disgregazione del complesso aziendale.

In sintesi, il concordato preventivo sarà sempre “in continuità” quando i ricavi attesi dalla continuità nei primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso.

L'alternativa alla continuità aziendale (diretta/indiretta o in forma mista) è rappresentata dalla liquidazione del patrimonio, veicolata dallo strumento concordatario alla condizione dettata dall'articolo 84, comma 4, CCII: l'apporto di risorse esterne deve incrementare di almeno il 10%, rispetto all'alternativa della liquidazione giudiziale, il soddisfacimento dei creditori chirografari; tale soddisfacimento non può essere inferiore al 20% dell'ammontare complessivo del credito chirografario.

La norma pone una nuova condizione di ammissibilità per qualunque domanda di concordato che abbia natura e contenuto esclusivamente liquidatorio: nel nuovo Codice, tale istituto risulta ammissibile solamente nel caso in cui vengano messe a disposizione dei creditori risorse ulteriori rispetto a quelle rappresentate dal patrimonio del debitore.

Su questo aspetto, le principali questioni che si pongono riguardano la base di calcolo cui riferire l'incremento percentuale richiesto dalla norma, e che saranno oggetto di approfondimento più avanti.

Va considerato che la norma non contiene esplicitamente il requisito previsto nell'attuale art. 160, 4° co., l. fall., che impone alla proposta di concordato di “assicurare” la soglia minima di soddisfazione del 20%.

Tuttavia il rispetto della percentuale minima sarà oggetto di controlli più penetranti sin dalla fase di ammissione (art. 47, 1° co., CCII), con attribuzione al Tribunale della prerogativa di verificare la fattibilità economica del piano sottostante alla proposta (giudizio rinnovato in sede di omologa ex art. 48, 3° co., CCII).

A completamento del quadro introduttivo, si segnala che l'accesso al concordato preventivo (anche di natura liquidatoria) è disciplinato dall'art. 44 CCII.

La norma in esame disciplina sia l'ipotesi di domanda di concordato cosiddetto con riserva in cui il ricorso sia diretto ad ottenere unicamente l'assegnazione dei termini per il deposito del piano, della proposta e dei documenti elencati dall'art. 39 CCII, sia l'ipotesi in cui il debitore depositi una domanda “completa”.

L'articolo 39 CCII delinea la documentazione che deve essere depositata a corredo sia della domanda c.d. prenotativa sia di quella da depositarsi all'esito della scadenza del termine.

Il corredo documentale appare corposo e complesso, comprendendo ora le scritture contabili e fiscali obbligatorie, le dichiarazioni dei redditi, i bilanci e, soprattutto, una idonea certificazione sui debiti fiscali, contributivi e per premi assicurativi, nonché una relazione riepilogativa degli atti di straordinaria amministrazione di cui all'articolo 94, comma 2, compiuti nel quinquennio anteriore, anche in formato digitale.

Tali prescrizioni appaiono espressione del dovere del debitore, sancito dall'art. 4, comma 2 del CCII, di illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente, fornendo ai creditori tutte le informazioni necessarie ed appropriate allo strumento di regolazione della crisi o dell'insolvenza prescelto.

L'esigenza risulta rafforzata anche dalla previsione contenuta nell'art. 87 CCII dedicato al contenuto del piano, che dovrà tra l'altro indicare le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili, con indicazione di quelle eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale e delle prospettive di recupero.

Nella predisposizione dei piani secondo le nuove previsioni del CCII (e nella loro attestazione o controllo da parte dei CC.GG.) andrà prestata attenzione a questi aspetti che si collegano direttamente alla possibilità di operare il confronto richiesto dall'art. 84, 4° co., CCII, rispetto al quale assume carattere propedeutico la stima del soddisfacimento dei creditori chirografari nella liquidazione giudiziale.

Il concordato liquidatorio presenta ulteriori caratteristiche tipiche come la nomina del liquidatore giudiziale e del comitato dei creditori (art. 114 CCII), l'applicabilità delle disposizioni relative alle vendite, cessioni e trasferimenti (di cui al quarto comma del medesimo articolo), nonché le azioni del liquidatore giudiziale (art. 115 CCII).

Natura del concordato (casistiche)

La corretta individuazione delle caratteristiche ascrivibili al piano concordatario rappresenta il presupposto per poter stabilire se il concordato sia del tipo in continuità aziendale, oppure liquidatorio.

Solo dopo avere effettuato questa distinzione ci si può interrogare se il concordato liquidatorio sia in grado di soddisfare i requisiti legali prescritti dall'art. 84, 4° co., CCII.

La distinzione tra i due concordati comporta ricadute anche sul piano degli adempimenti e del corredo documentale che supporta la domanda di concordato (piano, attestazione, ecc.).

I tratti tipici del concordato in continuità vengono scanditi dalla formulazione dell'art. 84, 2° e 3° co., CCII, nei termini seguenti:

  1. previsione nel piano della gestione dell'azienda in esercizio da parte del proponente debitore;
  2. oppure gestione dell'azienda in esercizio o la ripresa dell'attività da parte di soggetto diverso dal debitore, in forza di cessione, usufrutto, affitto, conferimento dell'azienda (continuità Indiretta);
  3. nel caso sub 2 (con dubbi se sia previsto anche nel caso sub 1) è necessario il mantenimento o riassunzione della forza lavoro, in misura pari almeno alla metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall'omologazione;
  4. in entrambi i casi sub 1) e sub 2) è necessaria la funzionalità dell'attività d'impresa ad assicurare il ripristino dell'equilibrio economico finanziario nell'interesse prioritario dei creditori, oltre che dell'imprenditore e dei soci.

Nel caso di piano “misto” (quando vi siano entrate connesse alla componente liquidatoria del piano), si è in presenza di concordato in continuità se:

  • vi è prevalenza delle entrate derivanti dalla continuità aziendale;
  • presunzione iuris et de iure di prevalenza quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso;
  • sussiste una utilità specificamente individuata per ciascun creditore anche rappresentata dalla prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa.

In questo quadro, possiamo ora cercare di schematizzare la seguente casistica ricorrente:

Caso 1: è in continuità il concordato che preveda la continuità aziendale diretta o indiretta, nessuna componente liquidatoria e il mantenimento della forza lavoro nella misura minima di legge, per un anno dall'omologazione;

Caso 2: è in continuità il concordato che preveda la continuità aziendale diretta o indiretta, una componente liquidatoria, il mantenimento della forza lavoro nella misura minima di legge per un anno dall'omologazione, e la prevalenza del ricavato prodotta dalla continuità aziendale diretta o indiretta;

Caso 3: è in continuità il concordato che preveda la continuità aziendale diretta o indiretta, una componente liquidatoria e il mantenimento della forza lavoro nella misura minima di legge per i primi due anni di attuazione del piano. Si applicherebbe, infatti, la presunzione assoluta di cui all'art. 84, 3° co., CCII, anche se, per esempio, i flussi monetari della continuità fossero inferiori rispetto alle entrate attese dalla componente liquidatoria del piano.

Ma cosa accadrebbe se il piano concordatario si fondasse sulla continuazione dell'attività di impresa, senza alcuna componente liquidatoria, e non prevedesse la cessione a terzi dopo l'omologa?

Si tratterebbe di un tipico caso di continuità diretta (pura) e tuttavia non sarebbe previsto il mantenimento della forza lavoro nella misura di legge (ossia il piano contempla la prosecuzione del rapporto di lavoro per un numero di dipendenti inferiore alla metà della media dei due esercizi precedenti e/o per un periodo inferiore all'anno dall'omologazione).

Al riguardo, va osservato che la formulazione letterale dell'art. 84, 2° co., CCII fa sorgere il dubbio se l'obbligo di mantenimento della forza Lavoro nella misura minima per un anno dall'omologazione debba essere riferito anche alla continuità diretta, oppure soltanto ai casi di cessione, affitto, usufrutto, conferimento dell'azienda, o a “qualunque altro titolo”.

Posto che la continuità diretta non risulta fondata su alcun contratto o titolo, pare di poter concludere che il piano che preveda la continuità diretta, senza alcuna componente liquidatoria

e con il mantenimento di forza lavoro in misura inferiore alla metà della media degli ultimi esercizi, possa essere considerato concordato con continuità, a patto che sia comunque possibile l'attestazione sul ripristino dell'equilibrio economico finanziario prescritta dall'ultimo periodo dell'art. 84, 2° co., CCII.

Questa interpretazione trae fondamento dalla analisi della Relazione illustrativa nella quale è spiegato che l'obbligo di mantenimento della forza lavoro nella misura minima per un anno dall'omologazione è stato introdotto “nei casi in cui la gestione sia operata da un soggetto diverso” dell'impresa debitrice, mediante cessione, conferimento, affitto o altra formula impiegata nella prosecuzione dell'attività imprenditoriale.

Le soglie stabilite dall'art. 84, 4° co., CCII

La figura del concordato liquidatorio non prevede una sua configurazione tipica, essendo variamente strutturabile nelle diverse forme previste dall'art. 85, 3° co., CCII. Tuttavia è prevedibile che la configurazione largamente utilizzata sarà ancora quella tipica della cessio bonorum.

L'ammissibilità di tale procedura presuppone il rispetto del doppio requisito quantitativo sancito dall'art. 84, 4° co., CCII. Secondo il legislatore, la presenza nel sistema concorsuale di un concordato esclusivamente liquidatorio a fronte della liquidazione giudiziale, risulta giustificata solo nel caso in cui vengano messe a disposizione dei creditori risorse aggiuntive rispetto a quelle rappresentate dal solo patrimonio del debitore. La ratio di tale disposizione viene chiarita nella relazione ministeriale laddove si precisa che, essendo più costoso della liquidazione giudiziale, il concordato preventivo liquidatorio può sopravvivere nel sistema solo nel caso in cui vengano messe a disposizione dei creditori risorse ulteriori rispetto a quelle rappresentate dal patrimonio del debitore.

Quindi, l'art. 84, 4° co., CCII prevede che – contemporaneamente – il soddisfacimento dei creditori chirografari non possa essere inferiore al venti per cento dell'ammontare complessivo del credito chirografario (limite, questo, presente anche nell'art. 160, ultimo comma, l.fall.), e che vi sia sempre un apporto di risorse esterne.

In particolare, tale apporto deve incrementare di almeno il dieci per cento, rispetto all'alternativa della liquidazione giudiziale, il soddisfacimento dei creditori chirografari. Ciò vuol dire che, nella logica del legislatore, il quid pluris che il concordato liquidatorio deve essere in grado di assicurare, viene calcolato in misura pari all'incremento del dieci per cento della soddisfazione ritraibile dai creditori nel caso di liquidazione giudiziale.

Entrambi i requisiti dovranno dunque essere presenti nel piano e nella proposta, debitamente documentati nell'attestazione e costituiranno oggetto di specifica verifica ai fini della ammissibilità da parte del Tribunale.

Le due soglie stabilite dall'art. 84, 4° co., CCI sono concettualmente distinte e vanno applicate a parametri distinti.

La percentuale del 20% costituisce una soglia minimale e va applicata all'ammontare complessivo delle passività chirografarie (intese come coacervo complessivo delle passività in esame, senza distinzione tra le eventuali classi che potranno prevedere percentuali differenziate).

La soglia del 10% va applicata al livello di soddisfacimento ottenibile dai creditori chirografari nel caso di liquidazione giudiziale.

La questione che si pone riguarda il termine di confronto rispetto al quale applicare la percentuale incrementale di “almeno” il 10%.

Alla luce della formulazione letterale della norma, non pare che la soluzione sia quella di incrementare direttamente la percentuale spettante ai creditori (in tal caso se, ad esempio, la liquidazione giudiziale consentisse il soddisfacimento in misura pari al 20%, vuol dire che il concordato liquidatorio dovrebbe assicurare il soddisfacimento in misura pari al 30%).

Pare invece plausibile che la percentuale del 10% debba essere applicata ad incremento della entità dei realizzi conseguibili con la liquidazione giudiziale. Se ad esempio, a fronte di passività chirografarie di 50, la liquidazione giudiziale comportasse realizzi complessivi pari a 25 con pagamento dei creditori chirografari in misura pari al 50%, allora l'incremento del 10% andrebbe applicato a 25 (con il risultato di poter distribuire ai creditori altri 2,5 di attivo e così in totale assicurare ai creditori un soddisfacimento del 55%). Il che equivale a dire che la percentuale di soddisfacimento dei creditori chirografari nel caso di liquidazione giudiziale debba essere incrementata nel 10% (e quindi da 50% al 55%).

La conseguenza di tali calcoli comporta alcuni effetti sul piano pratico. Qualora l'attivo nel caso della liquidazione giudiziale offrisse ai creditori chirografari un soddisfacimento pari a zero, o compreso tra zero ed il 18,18 %, la differenza rispetto al 20% di minimo soddisfacimento nel concordato liquidatorio andrebbe “coperta” con la finanza esterna. Il medesimo incremento percentuale deve essere assicurato anche nel caso di percentuali di poco inferiori al 20% (quando cioè sarebbe sufficiente un minore apporto di finanza esterna al fine di raggiungere la soglia minima del 20%).

Per quanto riguarda la tipologia delle risorse oggetto del possibile apporto, la norma non contiene ulteriori specificazioni. Si deve ritenere che possano essere costituite da apporti di vario tipo (in denaro o mediante conferimenti che andranno opportunamente stimati) purché abbiano i caratteri della certezza, in funzione della possibilità di consentire il pagamento dei creditori chirografari in misura pari ad almeno il 20%.

In ordine alla provenienza dell'apporto, è necessario che abbia il requisito della terzietà e derivi dall'apporto di nuove risorse estranee al patrimonio del debitore. Normalmente tali risorse saranno messe a disposizione dai soci purché non illimitatamente responsabili assoggettabili a liquidazione giudiziale in estensione.

Si deve ritenere che non siano ammissibili concordati liquidatori nei quali l'incremento percentuale del soddisfacimento dei creditori chirografari venga prospettato in termini di maggiore efficienza nella liquidazione (nel caso di concordato) o collaborazione del management del debitore nella fase di realizzo degli asset. Si tratterebbe pur sempre di condizioni gestionali riferibili al patrimonio del debitore od alla sfera di intervento di soggetti che non sono estranei al debitore.

Appare dubbio se si possa interpretare come finanza esterna l'apporto derivante dalla continuità indiretta (nei casi in cui il concordato misto abbia natura prevalentemente liquidatoria e raggiunga la soglia minima del 20% soltanto grazie alla componente minoritaria in continuità). Si pensi al seguente caso:

  • i realizzi nel concordato consentono il soddisfacimento dei creditori chirografari in misura pari al 20%, di cui 15% in relazione alla componente liquidatoria e 5% in forza di continuità indiretta (cessione di ramo d'azienda previo affitto ante domanda);
  • i realizzi fallimentari (azioni comprese) consentono il soddisfacimento dei creditori in misura pari al 16%. Nel caso di fallimento non sarebbe possibile cedere il ramo d'azienda;
  • in tale situazione, mancando un vero e proprio apporto di risorse esterne (e non potendo il proponente aggiungere “nuova finanza”), il concordato potrebbe essere non ammissibile ed i creditori si dovrebbero accontentare del risultato atteso dalla liquidazione giudiziale (inferiore di 4 punti percentuali rispetto al concordato liquidatorio).

Va peraltro detto che in altri passi del codice il legislatore sembra riconoscere un quid pluris alla procedura concordataria rispetto alla liquidazione fallimentare, ad esempio estendendo il divieto di risoluzione dei contratti con pubbliche amministrazioni al caso previsto dall'art. 95, 1° co., CCII, e cioè “nell'ipotesi in cui l'impresa sia stata ammessa al concordato liquidatorio quando il professionista indipendente attesta che la continuazione è necessaria per la migliore liquidazione dell'azienda in esercizio”.

In questo caso, il legislatore sembra valorizzare, nell'ambito della soluzione concordataria, il rischio di perdita dell'avviamento (anche se, in senso stretto, l'avviamento non costituisce risorsa esterna al patrimonio del debitore).

Temi specifici

Un primo tema di interesse riguarda l'approccio che guiderà l'esame della fattibilità economica del concordato liquidatorio.

Come si è detto, l'intento del legislatore è quello di evitare che il concordato liquidatorio non offra realmente un soddisfacimento dei creditori chirografari migliore rispetto alla liquidazione giudiziale, anche in forza dei maggiori costi che sovente il concordato comporta.

La richiesta di una percentuale minima del venti per cento discende da questa impostazione. Il concordato preventivo liquidatorio deve quindi soddisfare i creditori chirografari in misura almeno pari alla soglia prescritta, con apporto di “risorse esterne”.

Al fine di non introdurre fenomeni elusivi del vincolo in esame, si deve ritenere che la prospettiva di analisi della fattibilità economica del concordato debba essere condotta in una logica di particolare prudenza, al fine di evitare che la liquidazione concordataria sia sorretta da valutazioni ottimistiche che non trovino poi effettivo riscontro nella fase esecutiva del piano.

In definitiva, pur non essendo richiamata la necessità che venga “assicurato” il pagamento di almeno il 20% dei creditori chirografari (come previsto dal vigente art. 160, 4° co., l.f.), si deve ritenere che la fattibilità economica del piano vada intesa in termini stringenti di elevata probabilità di realizzazione del piano stesso.

Altro aspetto di interesse attiene alla possibilità di contrarre finanziamenti prededucibili nell'ambito del concordato liquidatorio.

L'art. 99, 1° co., CCII prevede che, nella fase intercorrente fra la domanda di accesso alla procedura di concordato (o degli accordi di ristrutturazione) e l'omologa, il debitore può chiedere di essere autorizzato a contrarre finanziamenti - assistiti dal requisito della prededucibilità - a condizione che siano funzionali all'esercizio dell'attività aziendale sino all'omologa e in ogni caso funzionali alla miglior soddisfazione dei creditori. Per espressa previsione normativa, tale facoltà è concessa anche “quando è prevista la continuazione della attività, anche unicamente in funzione della liquidazione”.

L'articolo 99, 5° co., CCII nel testo rivisto dallo schema di decreto correttivo e integrativo approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 febbraio 2020 dispone ora che tale disposizione si applichi anche “ai finanziamenti erogati in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo o della domanda di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti, quando i finanziamenti sono previsti dal relativo piano e purché la prededuzione sia espressamente disposta nel provvedimento con cui il tribunale accoglie la domanda di ammissione al concordato preventivo …”.

Il debitore, nel ricorso al Tribunale, deve:

  • specificare la destinazione dei finanziamenti;
  • chiarire che egli non è in grado di reperirli altrimenti,
  • esporre le ragioni per cui l'assenza di tali finanziamenti determinerebbe grave pregiudizio per l'attività aziendale o per il prosieguo della procedura.

Nel caso di “insuccesso” del concordato, con la conseguente apertura della procedura di liquidazione giudiziale, l'art. 99, 6° co., CCII conferma la prededucibilità dei finanziamenti erogati, a meno che si verifichino entrambe le seguenti circostanze:

  • il piano di concordato preventivo (o dell'accordo di ristrutturazione dei debiti) risulti, sulla base di una valutazione dal riferirsi al momento del deposito, basato su dati falsi o sull'omissione di informazioni rilevanti o se, comunque, il debitore abbia compiuto altri atti in frode ai creditori per ottenere l'autorizzazione;
  • il curatore dimostra che i soggetti che hanno erogato i finanziamenti, alla data dell'erogazione, conoscevano tali circostanze.

Va inoltre annotato che anche il concordato liquidatorio soggiace al regime delle proposte concorrenti previste dall'art. 90 CCII. In tal caso il “concorrente” dovrà prevedere un apporto di risorse esterne pari o superiore rispetto a quello prospettato dalla domanda originaria, e in ogni caso saranno operative le soglie di “sbarramento” previste dalla norma (pagamento di almeno il 30% dei creditori chirografari o 20% nel caso in cui il debitore abbia richiesto l'apertura del procedimento di allerta o utilmente avviato la composizione assistita della crisi ex art. 24 CCII).

In via conclusiva, si possono formulare alcune sintetiche considerazioni su quali possano essere i soggetti motivati ad iniettare risorse interne nella procedura di concordato a carattere liquidatorio.

Normalmente tali risorse saranno messe a disposizione dai soci purché non illimitatamente responsabili assoggettabili a liquidazione giudiziale in estensione.

Appare difficile che i terzi (non soci) possano avere un interesse a che la regolazione della crisi venga attuata mediante il concordato liquidatorio piuttosto che attraverso la liquidazione giudiziale.

Trattandosi, infatti, di liquidazione, il terzo che immette risorse proprie non avrebbe alcuna garanzia di essere l'unico aggiudicatario degli asset aziendali che verrebbero alienati tramite procedura competitiva (difficile quindi che assumano il rischio di finanziare l'accesso alla procedura concordataria senza avere l'aspettativa di alcun corrispettivo). Oltretutto, se da un lato la mancata ammissione dovrebbe comportare la restituzione dell'apporto a titolo di “risorse esterne”, dall'altro lato pare dubbio che ciò possa avvenire nel caso di arresto della procedura in una fase successiva (per mancata approvazione, revoca, o mancata omologa).

Più probabilmente (e la prassi già lo conferma) la finanza esterna da parte del terzo potrebbe essere immessa a titolo di aumento di capitale sociale o di versamento in conto aumento di capitale, nel contesto della continuità aziendale (diretta o indiretta). In tal caso, il terzo spera di monetizzare il proprio apporto mediante i flussi liberi (e cioè al netto delle uscite relative al fabbisogno concordatario) generati dalla continuazione dell'attività.

Normalmente quindi le risorse esterne saranno messe a disposizione dai soci purché non illimitatamente responsabili ed assoggettabili a liquidazione giudiziale in estensione.

In ordine alla motivazione di tale contributo va ricordato che, nella prassi, l'apporto di denaro (condizionato all'omologa) ha assunto sovente un contenuto incentivante per i creditori, finalizzato ad evitare l'esercizio della azione di responsabilità nel caso di fallimento. Questa soluzione rende appetibile la soluzione concordataria in quanto apporta ai creditori il beneficio di una somma aggiuntiva e certa (parametrata ad una ragionevole prognosi sull'esito del contenzioso e sulle prospettive di recupero) a fronte della incerta legittimazione del liquidatore giudiziale all'esercizio della azione in assenza di delibera da parte dell'assemblea ed inclusione della azione nell'ambito dell'attivo concordatario.

Su questo aspetto è però destinata ad incidere un'altra norma introdotta dal CCII, e segnatamente l'art. 115 che recita, nel 2° comma, quanto segue: “il liquidatore esercita oppure, se pendente, prosegue l'azione sociale di responsabilità. Ogni patto contrario o ogni diversa previsione contenuti nella proposta o nel piano sono inopponibili al liquidatore e ai creditori sociali”.

Ed ancora, l'art. 115, 3° co., CCII specifica che “resta ferma, in ogni caso, anche in pendenza dellaprocedura e nel corso della sua esecuzione, lalegittimazione di ciascun creditore sociale a esercitareo proseguire l'azione di responsabilità previstadall'art. 2394 del codice civile”.

Quindi, l'apporto “incondizionato” delle risorse esterne al fine di ottenere l'ammissione alla procedura non pone il contributore al riparo dalle azioni di responsabilità (forse al limite solo da quella dei creditori sociali se si cercasse di “etichettare” l'apporto anche in termini di offerta rivolta ai creditori in prevenzione della azione ex art. 2394 cod. civ.). Per il resto, le nuove prerogative del liquidatore giudiziale (che, secondo il disposto dell'art. 114 CCII, potrà essere nominato solamente dal tribunale e al quale spetterà anche la costituzione di parte civile nell'eventuale procedimento penale scaturente dal concordato) nel poter esercitare l'azione sociale di responsabilità, non incontreranno alcun limite in pregresse iniziative volte a neutralizzare l'avvio della azione.

D'altro canto, anche sotto il profilo penalistico, è noto che la procedura concordataria non presenta alcun vantaggio competitivo rispetto alla liquidazione giudiziale, come risulta dalla formulazione dell'art. 341 CCII.

Riferimenti dottrinali e giurisprudenziali

Per la dottrina: cfr. F. Lamanna, Il nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, Il civilista, Milano, 2019; ZORZI, “Il concordato “atipico” nel codice della crisi, tra concordato con continuità aziendale e concordato liquidatorio, Milano, 2019; Petriello, “Il concordato liquidatorio: le novità introdotte dal nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza”, in www.ilfallimentarista.it, 2019; Rinaldi, “La finanza esterna nel concordato liquidatorio: incentivi e istruzioni per l'uso”, in www.ilfallimentarista.it, 2019; Petrosillo, “Il concordato “misto” e il criterio della “prevalenza quantitativa attenuata, in www.ilfallimentarista.it, 2020.

Per la giurisprudenza: Trib. Milano28 novembre 2019; Cass. Civ., 15 gennaio 2020, n. 734.

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