Questioni di risk management: la responsabilità datoriale nell'era del Coronavirus

24 Giugno 2020

In questo periodo è assai animato il dibattito sull'imputabilità delle imprese, qualora i loro dipendenti contraggano il Covid-19 in occasione di servizio. In quali termini una corretta compliance del datore di lavoro nei confronti dell'ampia e articolata regolamentazione di riferimento, può aiutarlo ad escludere il rischio di condanna? Qual è l'esatto funzionamento dei cosiddetti ammortizzatori sociali e delle coperture prestate dall'assicurazione privata, a partire dal provvedimento dell'Inail che considera questa infezione come un infortunio sul lavoro?
L'infezione da Coronavirus come infortunio sul lavoro

Dal momento in cui sono state definite le condizioni del lockdown, è apparso chiaro che le questioni inerenti salute e sicurezza dei dipendenti negli ambienti di lavoro sarebbero tornate rapidamente al centro dell'attenzione, nell'ambito della gestione dei rischi di responsabilità delle aziende pubbliche e private.

Il Coronavirus veniva considerato all'inizio un rischio avulso dal tipo di attività svolta ovvero, se si escludeva il settore sanitario, non legato ad essa. Tuttavia, con la riapertura graduale delle attività, la questione è letteralmente esplosa intorno al disposto dell'art. 42 del Decreto 17 marzo 2020 n. 18, che ha posto a carico dell'Inail la tutela dei lavoratori colpiti dall'infezione da Covid-19, o SARS-CoV-2, in occasione di lavoro.

La norma, chiarita in un primo momento dalla circolare Inail n. 13/2020, ha causato grande allarme nelle imprese e negli assicuratori privati, che temevano di doversi assumere oneri troppo elevati, in un momento estremamente delicato per l'economia mondiale.

In realtà, una volta verificata l'origine lavorativa dell'infezione da Coronavirus, considerare l'evento come infortunio, anziché malattia, non costituisce una grande novità all'interno dell'impostazione assicurativa tradizionale.

Con la circolare n. 22 del 20 maggio scorso, l'Inail stessa ha fatto ordine sul quadro normativo di riferimento, collocando il provvedimento in un continuum logico e temporale ben definito e chiarendo che questa infezione, “come accade per tutte le infezioni da agenti biologici se contratte in occasione di lavoro è tutelata dall'Inail quale infortunio sul lavoro”.

La nota prosegue indicando che il provvedimento non fa che riaffermare “principi vigenti da decenni nell'ambito della disciplina speciale infortunistica, confermati dalla scienza medico-legale e dalla giurisprudenza di legittimità in materia di patologie causate da agenti biologici”.

Infatti, le patologie infettive come l'epatite, la brucellosi, l'AIDS, il tetano etc., se contratte in occasione di servizio, sono sempre state inquadrate come infortunio sul lavoro, in quanto la loro causa virulenta viene equiparata alla causa violenta propria dell'infortunio, nonostante i suoi effetti possano non manifestarsi immediatamente.

Per quanto dettata in uno stato di emergenza, dunque, la disposizione non fa che dare seguito a principi già affermati, secondo cui, sempre che il contagio sia riconducibile all'attività lavorativa, le conseguenze della contrazione del Coronavirus rientrano appieno nell'operatività della legge n. 1124 del 30 giugno 1965.

L'Inail ha inoltre chiarito che gli oneri ad essa derivanti non incideranno sul tasso medio per l'andamento della copertura prestata, ma verranno posti a carico della gestione assicurativa nel suo complesso, a tariffa immutata, e quindi non comporteranno maggiori oneri per le imprese.

Il punto è quanto mai importante sul piano assicurativo, perché l'infezione potrebbe dar corso ad una esplosione di richieste di attivazione di coperture RCO, tale da mettere in crisi l'andamento tecnico di un ramo già non sempre profittevole.

In poche parole l'Inail ha voluto chiarire come la mancata incidenza degli infortuni da Covid-19 sulla misura del premio pagato dal singolo datore sia marcata dal fatto che questi eventi non sono ritenuti aprioristicamente come direttamente controllabili dalle aziende, un po' come avviene per gli infortuni in itinere, quando l'Istituto riconosce la relativa tutela assicurativa al lavoratore infortunato, ma al datore di lavoro non viene imputata alcuna conseguenza per l'evento infortunistico stesso.

Il criterio della presunzione semplice, che può applicarsi alle attività sanitarie od a quelle che prevedano un contatto costante col pubblico e che accollerebbe al datore di lavoro l'onere di provare che il contagio non abbia avuto origine all'interno dell'azienda, non può valere per tutti gli altri lavoratori. Questi ultimi dovranno quindi fornire la prova che lo stesso sia avvenuto in occasione di servizio, il che può riuscire alquanto difficile, sia per le caratteristiche dell'infezione, che per l'ampiezza delle misure precauzionali divenute obbligatorie.

La stessa comunità scientifica non sembra essere ancora in grado di comprendere appieno le proprietà di questa infezione e forti sono i dubbi circa le modalità di contagio e le linee di diffusione del virus. Il periodo di incubazione è stimato da 2 a ben 14 giorni e sono stati registrati periodi anche più lunghi, perché si sviluppassero i sintomi clinici. Tutto questo rende praticamente impossibile fornire la prova che il Coronavirus sia stato contratto proprio in occasione di lavoro, o non piuttosto in altri contesti di aggregazione, come durante una cerimonia, in viaggio o durante lo shopping.

La funzione dei protocolli sotto il profilo della gestione del rischio

A partire dal Decreto 17 marzo 2020 n. 18 il datore di lavoro ha avuto a disposizione una serie di informazioni, protocolli, linee guida ed istruzioni, che gli consentono di organizzarsi in sicurezza e di gestire il rischio biologico da Coronavirus non molto diversamente da quanto avviene per gli altri rischi previsti dall'attività svolta.

In questo modo l'azienda non deve preoccuparsi di dimostrare dove il lavoratore abbia contratto il virus, ma potrà concentrarsi su quali misure di prevenzione e sicurezza abbia impiegato, per provare di avere rispettato la normativa che risale al D. lg. n. 81/2008 e più in generale all'art. 2087 c.c.

Il complesso delle norme di prevenzione vigenti, infatti, non è stato certo stravolto dall'emergenza: i protocolli previsti dai decreti emanati hanno piuttosto offerto ai datori di lavoro nuovi strumenti da contestualizzare all'emergenza stessa.

I soggetti che assumono ruoli di garanzia in azienda possono essere chiamati a rispondere dei reati di lesione ed omicidio colposo, ai sensi degli artt. 589 e 590 del Codice penale, qualora si fosse verificato un evento dannoso, nonostante l'obbligo giuridico di impedirlo con l'informazione dei lavoratori e la dotazione di strumenti utili a poter svolgere le loro mansioni, tutelando la salute propria e quella di terzi.

Uno di questi casi, ad esempio, potrebbe consistere nel mancato uso, o nell'uso non corretto, dei dispositivi di protezione individuale e su tale materia segnaliamo due recenti sentenze delle sezioni lavoro del Tribunale di Firenze del 1° aprile 2020 e del Tribunale di Bologna del 14 aprile 2020.

Si è trattato di ricorsi promossi da dipendenti operanti nel settore dei cosiddetti riders, cioè del recapito a domicilio di alimenti e cibi da asporto. Per essi, indipendentemente dal tipo di contratto che li lega al loro datore, a partire dal 1° gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, come disposto dal D. lgs. n. 81/2015.

Lo stesso prevede che tali lavoratori siano soggetti alla copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, prevista dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124 e che nei loro confronti il datore è tenuto, a proprie spese, al rispetto del disposto del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81.

Nelle circostanze che analizziamo, è come dire che l'azienda è obbligata a fornire al lavoratore gli strumenti di protezione individuale per fronteggiare il rischio di contagio da Covid-19.

Pur essendo il datore chiamato ad impiegare ogni misura di sicurezza idonea ad evitare occasioni di danno prevedibili, come stigmatizzato già in epoca non sospetta dalla Suprema Corte (Cass. civ., n. 8911/2019), viene oggi riconosciuto all'azienda d'essere organizzata secondo principi di economicità, diversamente da quanto avveniva in passato, quando si pensava che la sicurezza del lavoratore dovesse essere garantita prescindendo sempre e comunque dai costi.

Insomma, nonostante i dubbi sorti subito dopo la sua promulgazione, l'intenzione che muove il disposto dell'articolo 42 del Decreto 17 marzo 2020 n. 18 e dei provvedimenti seguenti, non pare volere rinforzare il concetto di responsabilità datoriale oggettiva, quanto invece fornire condizioni precise che, se applicate, non determinino danni cospicui per le aziende ed i loro assicuratori.

Tutto questo è certamente volto a rassicurare le imprese circa i rischi che potrebbero correre se si dovessero verificare contagi ai loro lavoratori od a terzi, purché lo svolgimento della loro attività (come pure della ripresa in fase 2), venga effettuato seguendo le precise condizioni predisposte dal legislatore.

Riassumendo, bisogna ritenere che le misure contenute nei protocolli allegati al Decreto n. 18/2020 ed al successivo DPCM del 26 aprile 2020 rappresentino per il datore di lavoro un'opportunità di salvaguardare dipendenti e terzi, aiutandolo a tutelarsi dalla possibilità di incorrere in ipotesi delittuose, sia ai sensi del D.lgs. n. 81/2008, che in termini di responsabilità amministrativa ex art. 231/2008. Una corretta compliance, quindi, non risulterebbe semplicemente opportuna, ma utile ed economicamente vantaggiosa per tutte le imprese.

L'infortunio da contagio da SARS-Cov-2

Con la circolare Inail 3 aprile 2020, n. 13 è stato chiarito che la tutela Inail riguarda tutti i lavoratori assicurati con l'Istituto, che abbiano contratto il contagio in occasione di lavoro.

L'Istituto ha inoltre stigmatizzato i principi che presiedono all'accertamento dell'infortunio, quando lo stesso derivi da una malattia infettiva, che come si è detto presenta una certa difficoltà a stabilire momento, cause e modi del contagio. In questo caso il riferimento consiste nelle linee guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, di cui alla circolare Inail 23 novembre 1995, n.74. Queste si basano su due principi fondamentali:

a) «deve essere considerata causa violenta di infortunio sul lavoro anche l'azione di fattori microbici e virali che penetrando nell'organismo umano ne determinano l'alterazione dell'equilibrio anatomico-fisiologico, sempre che tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell'attività lavorativa;

b) la mancata dimostrazione dell'episodio specifico di penetrazione nell'organismo del fattore patogeno non può ritenersi preclusiva della ammissione alla tutela, essendo giustificato ritenere raggiunta la prova dell'avvenuto contagio per motivi professionali quando, anche attraverso presunzioni, si giunga a stabilire che l'evento infettante si è verificato in relazione con l'attività lavorativa. E perché si abbia una presunzione correttamente applicabile non occorre che i fatti su cui essa si fonda siano tali da far apparire l'esistenza del fatto ignoto come l'unica conseguenza possibile del fatto noto, bastando che il primo possa essere desunto dal secondo come conseguenza ragionevole, probabile e verosimile secondo un criterio di normalità (cosiddetta “presunzione semplice”)».

Insomma, è necessario accertare la sussistenza di indizi “gravi, precisi e concordanti” sui quali fondare l'origine professionale del contagio e di conseguenza, afferma l'Inail, non è possibile desumere alcun automatismo ai fini dell'ammissione a tutela dei casi denunciati.

L'Istituto valuterà quindi gli elementi utili relativi all'evento denunciato, forniti dal lavoratore e dal datore, poiché il riconoscimento dell'origine professionale del contagio dovrà fondarsi «su un giudizio di ragionevole probabilità, totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio».

Il fatto che Inail accolga la richiesta, dunque, prescinde dal fatto che il datore sia effettivamente colpevole del contagio, perché essa stessa riconosce come scarsissime le opportunità di difesa dell'azienda, proprio per le caratteristiche tipiche dell'infezione, tra cui la particolare aggressività e la rapidissima capacità di diffusione.

Questa linea interpretativa è stata confermata anche in sede parlamentare. Sul tema della responsabilità dell'imprenditore in caso di contagio da Covid-19, in un'interrogazione posta al sottosegretario della commissione Lavoro della Camera, Stanislao Di Piazza, il parlamentare ha infatti dichiarato che «particolarmente problematica è la configurabilità di una responsabilità civile o penale del datore di lavoro che operi nel rispetto delle regole. Una responsabilità sarebbe, infatti, ipotizzabile solo in via residuale, nei casi di inosservanza delle disposizioni a tutela della salute dei lavoratori e, in particolare, di quelle emanate dalle autorità governative per contrastare la predetta emergenza epidemiologica».

Ciò in ragione di una serie di elementi, quali «la diffusione ubiquitaria del virus Sars-CoV-2, la molteplicità delle modalità e delle occasioni di contagio e la circostanza che la normativa di sicurezza per contrastare la diffusione del contagio è oggetto di continuo aggiornamento da parte degli organismi tecnico-scientifici che supportano il Governo».

Ancora una volta, quindi, l'attribuzione della responsabilità datoriale si enuclea sull'adesione al complesso sistema di regole che si è stratificato nei dispositivi emanati allo scopo di garantire la salute dei lavoratori nei mesi scorsi. Tra essi è opportuno ricordare, oltre ai «protocolli o linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi, adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali», anche il protocollo siglato tra sindacati e imprese il 14 marzo (e successivamente aggiornato il 24 aprile), nel quale è prevista la sospensione dell'attività, qualora fosse impossibile assicurare adeguati livelli di protezione per i lavoratori stessi.

Criteri di imputabilità e rivalsa dell'assicuratore sociale

Una volta esclusa l'equazione tra il riconoscimento della tutela prestata dall'Inail e la responsabilità che grava sul datore di lavoro, invocando l'autonomia della tutela prestata dall'assicuratore sociale, quest'ultimo si rifà alla più recente giurisprudenza della Suprema Corte, per determinare i criteri di imputabilità dell'azienda.

La Corte di Cassazione ha infatti ribadito che l'articolo 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, poiché il suo elemento costitutivo è «la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore».

Per il datore non può sussistere un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile per evitare qualsiasi danno e garantire un ambiente di lavoro a rischio zero, soprattutto se il pericolo non risulta di per sé eliminabile, e non si può ragionevolmente pretendere che l'azienda debba adottare tutti i mezzi atti a fronteggiare «qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo per l'integrità psico-fisica del lavoratore», perché ciò determinerebbe l'imputabilità del datore di lavoro per «qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile».

«Non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto» (Cass. civ., n. 3282/2020).

La responsabilità del datore di lavoro è dunque ipotizzabile solo in caso di accertata violazione della legge o degli obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche che riguardo all'infezione da Covid-19, come abbiamo a più riprese sottolineato, sono enucleati nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali, di cui ai (numerosi) decreti e provvedimenti emanati, ed in particolare dall'art. 1, comma 14, d.l. 16 maggio 2020, n. 33.

Tutto quanto precede ha evidentemente lo scopo di ribadire «l'indipendenza logico-giuridica del piano assicurativo da quello giudiziario», evocata dall'Inail. Ma come funzionerebbe a questo punto l'eventuale azione di regresso da parte di quest'ultima?

La stessa non sarebbe più subordinata alla sentenza penale di condanna, come definito già a partire dall'intervento della Corte Costituzionale (Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale n. 23/2015), ma presuppone la configurabilità di un reato perseguibile d'ufficio, a carico del datore di lavoro o delle persone del cui operato egli sia tenuto a rispondere a norma del codice civile.

E poiché il giudizio di ragionevole probabilità del nesso causale che determina il riconoscimento delle prestazioni dell'assicuratore sociale in caso di contagio da malattie infettive non è, come abbiamo visto, utilizzabile sul piano civile o penale, «l'attivazione dell'azione di regresso da parte dell'Istituto non può basarsi sul semplice riconoscimento dell'infezione da SarsCov-2».

La Corte di Cassazione ha affermato che, nel reato colposo omissivo improprio ipotizzabile in questa fattispecie, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può sussistere esclusivamente sulla base di una semplice probabilità statistica, ma deve essere verificato in base ad un'alta probabilità logica: «l'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell'omissione dell'agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo comportano l'esito assolutorio del giudizio» (Cass. civ., Sez. Un.,11 settembre 2002 n.30328).

L'azione di regresso presuppone l'imputabilità per colpa della condotta causativa del danno e quindi, secondo l'Inail, senza una comprovata violazione delle misure di contenimento del rischio di contagio di cui ai protocolli o alle linee guida di cui all'art. 1, comma 14, d.l. 16 maggio 2020, n. 33, «sarebbe molto arduo ipotizzare e dimostrare la colpa del datore di lavoro».

Conseguenze sull'assicurazione RCO (e D&O)

Per quanto l'Inail ed il governo abbiano cercato di rasserenare le aziende circa l'impatto della pandemia sulla responsabilità datoriale, sottolineando come i provvedimenti emanati, pur se dettati dallo stato di emergenza, si inquadrino pienamente nell'alveo dell'impostazione tradizionale sottesa all'azione dell'assicuratore sociale, non si può certo negare che l'infezione da Covid-19 si sia abbattuta sull'economia e sul mondo produttivo in genere, come un maglio demolitore.

Si è trattato e si tratta comunque dell'emersione di una nuova tipologia di rischio da affrontare e gestire, le cui ricadute sul versante delle coperture RCO non possono non risultare apprezzabili.

Ad oggi sono quasi 43.500 i contagi da Coronavirus di origine professionale denunciati all'Inail dalla fine di febbraio. 171 di essi, appartenenti per la maggior parte al personale sanitario e socioassistenziale, hanno avuto esito mortale. Queste cifre impongono evidentemente una riflessione, perché negare che l'epidemia non stia comportando un aumento esponenziale dei sinistri relativi a questo ramo, sarebbe come nascondere la testa sotto la sabbia.

Che si tratti di danno differenziale o complementare o di casi di rivalsa, qualora l'Istituto si determinasse a intraprenderla, l'allarme destato nelle aziende e nel mondo assicurativo non è certamente privo di fondamento.

La disciplina prevista dall'art. 2087 c.c., dal d.lgs. n. 81/2008 e dalla l. 231/2008 (il che implica un certo impatto anche sul ramo delle D&O), non si è alleggerita o spostata, anzi permane granitica, permeando quelle argomentazioni da parte dell'assicuratore sociale e del governo stesso di cui si è parlato finora.

Anche l'emendamento al Decreto legge Liquidità” (8 aprile 2020, n. 23), proposto in questi giorni dal ministero del Lavoro, serve a chiarire e rimodulare la responsabilità datoriale alla luce delle conseguenze provocate dall'epidemia stessa, non certo a renderla meno gravosa: «Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da SARS-CoV-2, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del Codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».

Si ribadisce ancora una volta che la responsabilità che gravava sull'imprenditore permane, ma quest'ultimo, oltre a seguire le usuali prescrizioni volte alla salvaguardia della salute dei dipendenti (e di terzi), deve anche adempiere agli obblighi previsti dall'ampia mole di provvedimenti emessi, sia a livello centrale che locale, per combattere la pandemia.

Torniamo quindi a ricordare come, per contrastare il diritto di rivalsa dell'Inail e sgravarsi dalle responsabilità verso terzi che pesano sull'azienda in conseguenza dell'attività svolta, ed ancor più in occasione della riapertura al pubblico nella cosiddetta fase 2, verranno considerate le misure di sicurezza adottate dall'impresa.

A tale riguardo, rammentiamo che la Commissione per gli interpelli (istituita nel 2011 per rispondere a quesiti di ordine generale sull'applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro), ha già precisato che «il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi, compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i cosiddetti rischi generici aggravati, legati alla situazione geopolitica del Paese (es. guerre civili, attentati, ecc.) e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento; non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all'attività lavorativa svolta».

Niente di nuovo sotto il sole, potremmo dire: il datore di lavoro è comunque obbligato a valutare il rischio da coronavirus, aggiornando il suo approccio alla valutazione e gestione dei rischi con le (molte) misure di prevenzione e protezione indicate dalle autorità per combattere l'infezione.

Oggi, più che mai, è una questione di risk management.

Per orientarsi nel vero e proprio dedalo regolamentare che per certi tipi di attività sembra scompaginare ogni regola organizzativa, come acutamente osservato dall'avv. Maurizio Hazan, una buona idea sarebbe affidarsi alle società specializzate che in questo momento stanno offrendo programmi di supporto per implementare le misure di contenimento e diffusione del virus. Queste ultime hanno tenuto sotto controllo tutta la normativa pubblicata da gennaio ad oggi e sono in grado di fornire un servizio che può risultare fondamentale, soprattutto per le imprese medio-piccole che non dispongono di una struttura dedicata e potrebbero rimanere confuse nel seguire l'evoluzione normativa e la declinazione della stessa nella propria organizzazione.

Guida all'approfondimento

INAIL: Circolare n.22 del 20 maggio 2020;

Alberto Polotti di Zumaglia, Le infezioni da coronavirus e le assicurazioni contro i danni alla persona, in Ridare.it (Focus del 25 maggio 2020);

Pasquale Mautone, Nicolaos Papadopoulos, Dispositivi di protezione individuali, sicurezza sui luoghi di lavoro e lavoro in remoto ai tempi del Covid – 19, in Ridare.it (Focus del 18 maggio 2020);

Maurizio Hazan, Infortunio Covid-19: Infortunio Covid-19: quali riflessi sulle responsabilità?, in Insurance Daily, martedì 19 maggio 2020.

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