La convenzione di moratoria ex art. 62 del Codice della Crisi e dell'Insolvenza

Diego Corrado
25 Giugno 2020

Com'è noto, l'accordo di moratoria di cui all'art. 62 del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza è stato previsto per la prima volta nel nostro ordinamento dal D.L. 83/2015, che con l'art. 9 ha introdotto nella vigente legge fallimentare due nuovi istituti, entrambi disciplinati dall'art. 182-septies: l'accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e la convenzione di moratoria.Come si legge nella relazione al d.l. citato, questi strumenti miravano a “ togliere ai creditori finanziari che vantano un credito di piccola entità la possibilità di dichiararsi contrari ad operazioni di ristrutturazione concordate fra il debitore e la maggioranza dei creditori finanziari, decretando l'insuccesso complessivo dell'operazione e l'apertura di una procedura concorsuale”.
Premessa

Com'è noto, l'accordo di moratoria di cui all'art. 62 del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza è stato previsto per la prima volta nel nostro ordinamento dal d.l. 83/2015, che con l'art. 9 ha introdotto nella vigente legge fallimentare due nuovi istituti, entrambi disciplinati dall'art. 182-septies: l'accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e la convenzione di moratoria.

Come si legge nella relazione al d.l. citato, questi strumenti miravano a “togliere ai creditori finanziari che vantano un credito di piccola entità la possibilità di dichiararsi contrari ad operazioni di ristrutturazione concordate fra il debitore e la maggioranza dei creditori finanziari, decretando l'insuccesso complessivo dell'operazione e l'apertura di una procedura concorsuale”.

L'iniziativa nasceva per contrastare un fenomeno noto a tutti coloro che si relazionano con il tema della gestione negoziale della crisi di impresa. Ciò che accade normalmente al manifestarsi dei primi sintomi del dissesto, e con essi dell'opportunità di addivenire ad un accordo che consenta al debitore di superarli, è che nel ceto creditorio (e nello specifico nei creditori finanziari, se facciamo riferimento alle misure introdotte dal d.l. 83/2015) tendono a manifestarsi due tendenze uguali e contrarie: alla disponibilità delle banche maggiormente esposte e/o meno garantite, che avrebbero tutto da perdere nel caso di irreversibile crisi dell'imprenditore, e che sono dunque in maggior misura propense a concessioni di vario genere, fa da contraltare l'interesse per così dire “parassitario” delle altre, che cercano di far leva sulla “necessitata” disponibilità delle prime per rientrare integralmente della propria esposizione.

Accade così che nei “tavoli” in cui viene discussa la proposta dell'imprenditore, ad ogni successivo round è facile che si verifichi la “defezione” di questo o quel creditore del secondo gruppo, il che accresce il “peso” che quelli del primo dovranno sopportare per assicurare il buon esito della ristrutturazione. Quando questo “peso” supera il limite che essi sono disposti a tollerare, la soluzione negoziale naufraga, e ciò in modo del tutto indipendente dalla bontà del piano predisposto dal debitore. A questo punto ci rimettono non solo l'imprenditore, ma tutti gli interessati.

Il meccanismo previsto dal d.l. 83/2015 mira a prevenire questi esiti socialmente inefficienti, che si risolvono nella distruzione di ricchezza e nella perdita di avviamento relativamente a complessi aziendali ancora potenzialmente produttivi: esso prevede che a determinate condizioni gli accordi di ristrutturazione e le convenzioni di moratoria raggiunti tra una parte dei creditori bancari e il debitore abbiano effetto anche nei confronti dei creditori bancari silenti o dissenzienti, in deroga agli artt. 1372 e 1411 c.c., e a ben vedere è solo sotto questo profilo che la legge disciplina quello che resta – quanto ai contenuti – di un contratto atipico, il pactum de non petendo risalente al diritto romano, o lo standstill del diritto anglosassone.

Diversamente da tutti gli altri istituti previsti dalla legge fallimentare, si tratta di un accordo avente necessariamente effetto transitorio, e dunque – benché non possano ovviamente escludersi casi in cui la sola moratoria sia idonea a consentire al debitore di risollevarsi – destinato nella grande maggioranza dei casi a porsi come mero strumento rispetto all'implementazione di accordi di carattere più propriamente sostanziale ai fini della risoluzione della crisi.

La convenzione di moratoria di cui all'art. 182-septies, commi 5 e 6, L.F.

Poiché la convenzione di moratoria prevista dal Codice della Crisi costituisce – come si è visto – la naturale evoluzione, e se vogliamo la sua estensione alla generalità dei creditori, di quella di cui all'art. 182-septies L.F., relativa ai rapporti con i soli creditori finanziari, è opportuno avviare l'esame della nuova disciplina con una rapida analisi di questa norma.

Essa prende le mosse esplicitando la sua finalità, quella di estendere gli effetti di una convenzione di moratoria in cui “sia raggiunta la maggioranza di cui al secondo comma” (quella cioè prevista nel caso di accordi di ristrutturazione dei debiti con intermediari finanziari, dove se si raggiunge il 75% in ogni categoria l'accordo diventa vincolante per tutti i creditori della categoria stessa) ai creditori non aderenti.

È del resto di comune esperienza che la prima richiesta che l'imprenditore in crisi muove al ceto creditorio, e principalmente al sistema bancario, sia quella della moratoria e del mantenimento dello status quo, al fine di godere di un intervallo di tempo adeguato per una più agevole preparazione del piano e degli strumenti idonei alla definitiva soluzione della crisi.

Per temperare la forte compressione dell'autonomia privata derivante dal consentire “intrusioni” nella sfera patrimoniale di creditori estranei all'accordo, che a ben vedere potrebbe considerarsi sospetta di incostituzionalità per violazione del principio di libertà di impresa e iniziativa economica (che, come è noto, ai sensi dell'art. 41 Cost. è libera, e può essere limitata solo a determinate condizioni che, nel caso di specie, pacificamente non ricorrono), il legislatore del 2015 ha previsto alcuni accorgimenti.

La soluzione scelta infatti è stata quella di mitigare questa compressione attraverso la previsione di:

(1) un meccanismo di informazione e coinvolgimento dei creditori non aderenti nelle trattative in corso con i creditori che poi con la loro adesione determineranno l'estensione degli effetti dell'accordo ai primi,

(2) soglie percentuali di adesione al di sotto delle quali la “estensione” degli effetti dell'accordo non scatta,

(3) la possibilità di dividere i creditori in “categorie” (un termine e un concetto che richiamano quello di classi di cui all'art. 160, co. 1, lett. d, dettato in materia di concordato) caratterizzate, come appunto le “classi” del concordato, da “posizione giuridica e interessi economici omogenei”, e

(4) l'intervento di un professionista terzo che attesti – in merito alla divisione in categorie – “l'omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici tra i creditori interessati dalla moratoria”.

In particolare, la possibilità di estendere l'efficacia dell'accordo di ristrutturazione ai creditori finanziari che non vi hanno aderito espressamente è subordinata alla condizione che essi “siano stati informati dell'avvio delle trattative e siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede”, e che – come chiarisce il rinvio alla “maggioranza di cui al secondo comma”, che troviamo all'art. 182-septies, co. 5 – “i crediti delle banche e degli intermediari finanziari aderenti rappresentino il settantacinque per cento dei crediti della categoria”. Si precisa inoltre che “una banca o un intermediario finanziario può essere titolare di crediti inseriti in più di una categoria”.

L'art. 182-septies è particolarmente laconico quanto ai criteri per la divisione in categorie.

Il rischio, nella formazione delle stesse, è che l'apparente suddivisione per “posizione giuridica e interessi economici omogenei” individui tali parametri non già in base a una loro oggettiva rilevanza, ma in base agli interessi dei creditori “forti”, attraverso uno schema che ben potremmo ricondurre a quello dell'abuso del diritto, frammentando opportunamente i creditori non aderenti affinché risultino in minoranza in ciascuna categoria (si veda in proposito F. Lamanna, “Speciale Decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria”, in www.ilFallimentarista.it, 29 giugno 2015). È per questo motivo che il comma 5 della norma prevede l'intervento di un professionista terzo che attesti – in merito alla divisione in categorie – “l'omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici tra i creditori interessati dalla moratoria”, e il successivo comma 6 prevede la possibilità per i creditori non aderenti di proporre opposizione al tribunale “entro trenta giorni dalla comunicazione della convenzione stipulata, accompagnata dalla relazione del professionista”, chiedendo che la convenzione non produca effetto nei loro confronti.

Il tribunale decide sull'opposizione con decreto motivato, verificando la sussistenza dei requisiti previsti dal precedente comma 4, ovvero che i creditori non aderenti:

a) abbiano posizione giuridica e interessi economici omogenei rispetto a quelli delle banche e degli intermediari finanziari aderenti;

b) abbiano ricevuto complete ed aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore nonché sull'accordo e sui suoi effetti, e siano stati messi in condizione di partecipare alle trattative;

c) possano risultare soddisfatti, in base all'accordo, in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.

Il richiamo a quest'ultimo requisito è peraltro alquanto problematico, giacché la convenzione di moratoria non può contenere – diversamente dagli accordi di ristrutturazione – proposte di soddisfacimento dei creditori, essendo evidentemente meramente strumentale a “guadagnare tempo” per approntare altri e più sostanziali interventi. Le “alternative concretamente praticabili”, dunque, si pongono su un piano diverso dalla convenzione di moratoria, e quindi difficilmente comparabile con essa.

Molto opportunamente, infine, con una disposizione comune alla convenzione di moratoria e agli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari, l'art. 182-septies, co. 7, prevede che “in nessun caso, per effetto degli accordi e convenzioni di cui ai commi precedenti, ai creditori non aderenti possono essere imposti l'esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti o l'erogazione di nuovi finanziamenti”, con la successiva precisazione che “agli effetti del presente articolo non e' considerata nuova prestazione la prosecuzione della concessione del godimento di beni oggetto di contratti di locazione finanziaria già stipulati”.

I principi di delega all'origine dell'art. 62 del Codice della Crisi e dell'Insolvenza e il contenuto della norma

Come già anticipato, l'istituto in esame è stato introdotto in esecuzione della legge delega, n. 155/2017, e precisamente del suo art. 5, co. 1, che ha stabilito che “al fine di incentivare (…) le convenzioni di moratoria (…) nonché i relativi effetti”, il Governo dovesse attenersi al “principio e criterio direttivo” di “estendere la procedura di cui all'art. 182-septies del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, (…) alla convenzione di moratoria conclusa con creditori, anche diversi da banche e intermediari finanziari, rappresentanti almeno il 75 per cento dei crediti di una o più categorie giuridicamente ed economicamente omogenee”.

Viene dunque esplicitato l'obiettivo di incentivare la diffusione delle convenzioni di moratoria, attraverso l'inclusione nel meccanismo di estensione degli effetti anche dei creditori diversi da banche e intermediari finanziari.

In attuazione della norma il legislatore delegato ha redatto l'art. 62, il cui contenuto ricalca abbastanza fedelmente l'art. 182-septies, salvo il fatto che ovviamente viene meno ogni riferimento alla qualifica dei creditori. Rispetto alla corrispondente norma della legge fallimentare, tuttavia, l'art. 62 ha cura di specificare non solo che la convenzione in questione deve essere “diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi”, ma che essa deve ad avere ad oggetto “la dilazione delle scadenze dei crediti, la rinuncia agli atti o la sospensione delle azioni esecutive e conservative e ogni altra misura che non comporti rinuncia al credito”.

Una lacuna che balza immediatamente agli occhi, tuttavia, è che nel fare riferimento alla nozione di categoria, manca una qualsivoglia definizione, come pure un rinvio al precedente art. 61, che disciplina gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa. Rinvio che tuttavia è necessario ritenere implicito, pur nel silenzio della legge, giacché diversamente opinando la “categoria” prevista dalla norma in commento sarebbe un contenitore vuoto.

L'art. 61, co. 1, nell'introdurre la possibilità di estendere l'efficacia degli accordi di cui si discute ai creditori non aderenti, in deroga agli artt. 1372 e 1411 c.c., introduce il tema delle “categorie” di creditori, che andranno individuate “tenuto conto dell'omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici”. Troviamo qui una prima importante deviazione rispetto a quanto previsto dall'art. 182-septies, co. 2, L.F., che – come ricordato – richiede per l'assegnazione dei creditori alla medesima categoria che essi “abbiano tra loro posizione giuridica e interessi economici omogenei”. Il requisito richiesto dal Codice della Crisi appare evidentemente più sfumato, con tutte le criticità che ciò comporta.

Il “cuore” della norma è il secondo comma, che detta le condizioni da rispettare per estendere l'efficacia della convenzione di moratoria ai creditori non aderenti.

La lettera a) richiede, come la legge fallimentare vigente, che “tutti i creditori appartenenti alla categoria siano stati informati dell'avvio delle trattative, siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede e abbiano ricevuto complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore nonché sull'accordo e sui suoi effetti”.

La lettera b) fissa la soglia di adesione da raggiungere perché scatti l'estensione dell'efficacia ai creditori astenuti o dissenzienti, fissandola al settantacinque per cento dei creditori appartenenti alla categoria.

La lettera c) dispone che l'estensione è possibile se “i creditori della medesima categoria non aderenti, cui vengono estesi gli effetti della convenzione, possano risultare soddisfatti all'esito della stessa in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale”.

Infine, la lettera d) fissa le attribuzioni del professionista indipendente chiamato a predisporre l'attestazione, come vedremo estendendole notevolmente rispetto a quanto previsto dalla vigente legge fallimentare.

La novità di maggior rilievo sono quelle poste dalle lettere c) e d), ed entrambe a ben vedere paiono porre rilevanti ostacoli di carattere pratico alla diffusione dello strumento in discussione, che rischiano seriamente di frustrare la volontà del legislatore delegante di ampliarne l'ambito di applicazione.

In primo luogo, la lettera c) inserisce la necessità che vi siano “concrete prospettive” che i creditori cui la convenzione è estesa siano soddisfatti “all'esito della stessa” in misura almeno analoga alla liquidazione giudiziale. Le ragioni di tale confronto sono difficili da comprendere, dal momento che gli esiti di uno strumento transitorio e provvisorio (lo standstill, appunto), mal si prestano ad un confronto con quelli di una liquidazione giudiziale, come pure di qualsiasi altra soluzione negoziale alla crisi, che come tale comporti degli effetti sostanziali sulla situazione debitoria dell'imprenditori, e non si limiti come la convenzione di moratoria a rimodulare in qualche modo le scadenze e a sospendere temporaneamente azioni esecutive e cautelari.

Ulteriori, e ancor più ingiustificati irrigidimenti apporta la lettera d), che – nel delimitare il perimetro delle attribuzioni del professionista indipendente chiamato a rendere l'attestazione – amplia a dismisura i suoi compiti, e in modo peraltro non congruente con le finalità dell'istituto. Se l'art. 182-septies, co. 5, si limitava a demandare all'esperto l'attestazione della sussistenza dei requisiti alla base della divisione dei creditori in categorie, la corrispondente norma del CCI prevede che questo attesti, oltre alla “veridicità dei dati aziendali”, “l'idoneità della convenzione a disciplinare provvisoriamente gli effetti della crisi” e soprattutto “la ricorrenza delle condizioni di cui alla lettera c)”.

Come si è condivisibilmente osservato in dottrina, la norma in esame appare una trasposizione acritica di norme dettate in altri contesti, quelli appunto degli strumenti “definitivi” e, considerando la usuale durata dello standstill, è ben facile prefigurare ipotesi in cui la sola durata delle attività di attestazione finisca con il superare la durata della moratoria richiesta (così F. D'Angelo, “La convenzione di moratoria nel nuovo codice della crisi e dell'insolvenza”, in Banca Borsa e Titoli di Credito, 2019, 833). Ricordando che il Codice della Crisi ha ribadito quanto già previsto dalla legge fallimentare, di assoggettare a responsabilità penale il professionista che attesta la convenzione di moratoria (si veda il disposto dell'art. 342 CCI, che riproduce quanto già previsto dall'art. 236-bis L.F.), è tuttavia evidente che – stante il notevole ampliamento del contenuto della relazione – viene corrispondentemente esteso anche il rischio penale. Paradossalmente, peraltro, viene meno l'obbligo di attestare l'omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici dei creditori di ciascuna categoria, una lacuna che sembra appunto tradire la meccanica trasposizione alla convenzione di moratoria di quanto previsto per altri contesti di cui si diceva poc'anzi.

Il successivo comma 3 – in linea con quanto previsto per gli accordi a efficacia estesa di cui all'art. 61 CCI, che peraltro riproduce quanto già previsto dall'art. 182-septies, co. 7 – stabilisce che “in nessun caso, per effetto della convenzione, ai creditori della medesima categoria non aderenti possono essere imposti l'esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti o l'erogazione di nuovi finanziamenti”, precisando tuttavia che “non è considerata nuova prestazione la prosecuzione della concessione del godimento di beni oggetto di contratti di locazione finanziaria già stipulati”. Il comma in commento chiarisce che gli accordi a efficacia estesa hanno ad oggetto crediti già sorti, non quindi crediti che possano derivare da contratti da stipulare successivamente. Esso, se vogliamo, tradisce l'origine della norma, originariamente applicabile ai soli rapporti con i creditori finanziari (giacché appare difficile ipotizzare una convenzione di moratoria che rischi di imporre “nuove” prestazioni a un creditore ordinario), e in questa ottica sarà chiamata prevalentemente a trovare applicazione. La disposizione infatti sottende con ogni evidenza la tematica ben nota nei casi di ristrutturazione del debito bancario, e relativa ad alcune particolari tipologie di affidamento tra cui, in particolare, le linee di credito commerciale c.d. auto liquidanti, nelle quali si possa distinguere un affidamento “accordato” dalla banca all'impresa, quale limite massimo di utilizzo, dall'affidamento concretamente “utilizzato” nell'ambito dell'accordato (sul punto vedi ancora F. D'Angelo, op. loc. ult. cit.).

L'eventuale opposizione dei creditori

A norma dell'art. 62, co. 4, “la convenzione va comunicata, insieme alla relazione del professionista indicato al comma 2, lettera d), ai creditori non aderenti mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o presso il domicilio digitale”. La disposizione replica acriticamente quanto previsto dall'art. 182-septies, prevedendo la semplice comunicazione, laddove l'accordo ad efficacia estesa (sia nella legge fallimentare sia nel CCI) deve essere notificato: una differenza procedimentale che non pare avere giustificazioni concrete.

Dalla comunicazione decorre il termine di trenta giorni per l'eventuale opposizione. Il meccanismo così configurato pone in rilievo il tema del termine di efficacia della convenzione. Se si dovesse adottare la tesi che essa è soggetta alla condizione sospensiva della mancanza di opposizioni, o addirittura della definizione delle stesse, è evidente che la norma cesserebbe di avere qualunque valenza pratica: tutti i creditori che non hanno aderito espressamente, in questo intervallo di tempo, potrebbero porre in essere le azioni esecutive o conservative che la convenzione vorrebbe invece paralizzare. Logica impone infatti che la convenzione abbia effetto dalla data di stipula, salvo semmai ipotizzare che per i creditori astenuti o dissenzienti, che ne “subiscono” gli effetti in forza del meccanismo di estensione dell'efficacia voluta dalla legge, gli effetti si producano dalla data della comunicazione: sarebbero così salvi eventuali atti esecutivi posti in essere a convenzione già stipulata, ma non ancora portata a conoscenza dei non aderenti, soluzione che pare la più rispettosa degli opposti interessi in gioco.

Non convincono invece le soluzioni, pur in astratto ipotizzabili, relative al rinvio degli effetti allo spirare del termine per le opposizioni. In questo caso infatti l'estensione ai creditori non aderenti potrebbe da questi essere evitata semplicemente proponendo l'opposizione: non solo si finirebbe con il creare una situazione assolutamente incompatibile con le finalità stesse cui la convenzione tende, ma addirittura ci si troverebbe di fronte ad una situazione analoga a quella della condizione meramente potestativa. I creditori non aderenti sarebbero infatti vincolati dalla convenzione solo ove così effettivamente volessero, e la norma in commento sarebbe svuotata di senso. Per le stesse ragioni, non avrebbe senso una clausola che sospenda gli effetti della convenzione in caso di presentazione di un'opposizione, sino alla sua definizione, o che preveda in questo caso la risoluzione della stessa (peraltro, in questa seconda ipotesi, i tempi del giudizio sarebbero nella grande maggioranza dei casi del tutto incompatibili con l'orizzonte temporale di norma “gestito” con il ricorso agli accordi di standstill).

Pare poi pacifico che il contraddittorio debba essere esteso, a cura del creditore opponente, a tutti quelli, aderenti o meno, che siano parte della convenzione. Ma, nel silenzio della legge, sarà inevitabilmente la prassi dei tribunali a chiarire il punto.

Osservazioni conclusive

L'analisi sin qui condotta ha evidenziato come la scelta del legislatore, di estendere alla generalità dei creditori il meccanismo oggi previsto dall'art. 182-septies per le sole banche e intermediari finanziari, risponde a esigenze di efficienza economica, che possono essere riassunte nell'esigenza di evitare che comportamenti opportunistici di creditori titolari di una quota esigua del passivo possano pregiudicare il raggiungimento di soluzioni che consentano la salvaguardia della continuità o dell'avviamento aziendale e sono approvate da una quota ampiamente maggioritaria di creditori.

Questo condivisibile obiettivo, tuttavia, rischia di restare un mero auspicio, per una serie di ragioni.

La prima è che difficilmente l'estensione ai creditori “non finanziari” troverà particolare diffusione, vuoi per la scarsa propensione di questi a farsi coinvolgere nelle crisi che coinvolgono i loro debitori, vuoi per la minore dimestichezza che essi hanno nel “maneggiare” ipotesi di risanamento che richiedono notevoli competenze specialistiche, vuoi infine perché la difficoltà di coordinare “tavoli” di trattativa volti alla soluzione di crisi finanziarie è sempre inversamente proporzionale all'estensione degli stessi.

Se questo primo tipo di ostacolo è di carattere soggettivo, e tuttavia non impedisce che in casi circoscritti il venir meno del requisito soggettivo consenta di stipulare convenzioni di moratoria che nel vigore della legge fallimentare non sarebbero fattibili, sono tuttavia le opzioni scelte dal legislatore a dare adito ai maggiori dubbi, soprattutto quelle fatte con riferimento all'attestazione che deve accompagnare la convenzione.

Se da un lato essa pare necessaria, tanto da essere prevista già nella legge fallimentare, perché consente di demandare a un soggetto terzo la verifica dei requisiti che consentono di “coartare” la volontà dei creditori non esplicitamente aderenti, i suoi contenuti, come previsti dal comma 2, lett. d) appaiono oggettivamente sovradimensionati rispetto agli effetti (necessariamente limitati e temporanei) che la convenzione di moratoria può in astratto proporsi di raggiungere, che come tali avrebbero meritato una disciplina più snella e semplificata.

In generale la nuova disciplina, come dimostra anche la previsione di cui al comma 2, lett. c), appare continuare a soffrire di scarsa autonomia, limitandosi come fa a risultare l'adattamento di previsioni costruite ad altri fini.

Il rischio concreto, alla luce di quanto sin qui osservato, è che la convenzione di moratoria continui a restare “confinata” in quelle situazioni in cui è il ceto bancario a detenere la grande maggioranza dei crediti. Se ciò accadesse, verrebbe frustrata la chiara intenzione del legislatore.

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