Delinquente abituale: i criteri per il calcolo del superamento del limite massimo di durata della misura di sicurezza detentiva
25 Giugno 2020
Massima
Nel caso di soggetto dichiarato delinquente abituale (art. 102, 103 c.p.), ai fini del calcolo del termine di durata massima della misura di sicurezza detentiva ai sensi dell'art. 1-quater del d.l. 52/2014 conv. dalla legge 81/2014, a cui mente “le misure detentive non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima”, occorre fare riferimento al massimo edittale previsto per il solo reato più grave tra quelli astrattamente considerabili. Il caso
Il caso delibato nella decisione in commento riguarda un soggetto dichiarato delinquente abituale, sottoposto alla misura di sicurezza dell'assegnazione ad una misura di sicurezza detentiva con decorrenza 18.10.2006 e con prosecuzione – per effetto di successive proroghe intervenute nel corso del tempo - fino a giungere al riesame della posizione giuridica dell'interessato. Il punto centrale dell'accertamento svolto dal Magistrato di sorveglianza di Modena ha riguardato la questione, rilevata di ufficio ai sensi dell'art. 69 ord. penit. (che attribuisce al giudice di sorveglianza una competenza generale in materia di esecuzione delle misure di sicurezza), relativa ai criteri per la determinazione - alla luce del principio enunciato dall'art. 1, comma 1-quater del d.l.52/2014 conv. dalla legge 81/2014 – del limite di durata massima della misura di sicurezza detentiva applicata all'internato. La questione
L'art. 1, comma 1-quater del decretolegge 31 marzo 2014, n. 52, conv. con modif. dall'art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81, recante “disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”, ha introdotto un fondamentale principio di civiltà giuridica con l'introduzione di un termine di durata massima delle misure di sicurezza detentive – applicate sia a titolo provvisorio che definitivo – stabilendo che esse non possano durare oltre il tempo corrispondente alla pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima. Si tratta della novità forse più rilevante dal punto di vista sistematico introdotta dalla riforma che ha visto il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari quali luogo di internamento dei “folli rei”, ponendo condizioni precise per l'internamento in O.P.G. e in casa di cura e custodia e un tetto massimo di durata delle medesime (e delle altre tipologie di misura di sicurezza detentiva). Come è noto, l'obiettivo della riforma era soprattutto quello di scongiurare il fenomeno dei c.d. “ergastoli bianchi”, cioè la prosecuzione sine die della permanenza nelle strutture psichiatriche o negli istituti penitenziari di soggetti per i quali – anteriormente alla riforma - la misura di sicurezza detentiva era prorogata di volta in volta alla scadenza (non era, infatti, stabilito un termine massimo di esecuzione della misura, la cui durata era collegata alla persistenza in capo all'internato della pericolosità sociale della persona, desumibile anche dall'assenza di adeguati supporti esterni di tipo socio-familiare e sanitario). La disposizione dell'art. 1. comma 1-quater, inserita in sede di conversione del d.l.52/2014 per effetto di un emendamento presentato al Senato, introduce - relativamente a tutte le misure di sicurezza detentive, comprese le case di lavoro, le colonie agricole e il ricovero nelleREMS - il principio secondo cui la durata delle misure di sicurezza non può superare la durata massima della pena detentiva stabilita per il reato commesso, nei termini seguenti: "Le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima. Per la determinazione della pena a tali effetti si applica l'articolo 278 del codice di procedura penale. Per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo non si applica la disposizione di cui al primo periodo". (art. 1, comma 1-quater d.l.52/2014). Pur animata dai più nobili intenti (quasi tutte le legislazioni europee prevedono, invero, dei “tetti” di durata massima delle misure di sicurezza detentive) la riforma ha determinato l'insorgere di molteplici criticità dal punto di vista applicativo. In particolare, venendo all'oggetto della presente disamina, l'introduzione di una sorta di relazione di proporzione tra la pena prevista per il reato commesso e la durata massima della misura di sicurezza detentiva (ispirata al sistema spagnolo e, in particolare, alla disposizione dell'art. 104 del codigo penal iberico) è apparsa subito poco coerente con il sistema italiano, che collega la durata della misura di sicurezza all'attualità della pericolosità sociale dell'interessato, vale a dire a un elemento soggettivo la cui sussistenza e sviluppo nel tempo poco ha a che vedere con la gravità del reato ed ancor meno con la pena edittale ad esso correlata. Questa evidente aporia del nostro sistema ha condotto a gravissimi problemi sul versante applicativo, dovuti alla situazione che si verifica nel momento in cui l'internato – che sia tuttora pericoloso per la collettività – deve essere dimesso dal luogo di internamento per lo spirare del termine massimo di durata della misura di sicurezza, con grave pregiudizio delle istanze di difesa sociale in ragione dell'evidente pericolo che grava sui consociati per effetto della liberazione di persone che – a causa di gravi e irreversibili patologie psichiatriche – costituiscono un pericolo per sé e per gli altri. A tale problematica è connesso il profilo, affrontato dall'ordinanza in commento, che riguarda la determinazione del termine massimo di durata della misura di sicurezza qualora l'internato abbia commesso più reati. Ai fini della concreta individuazione della pena da assumere quale parametro di riferimento per stabilire la durata massima della misura di sicurezza – come si è visto – occorre fare riferimento alla disciplina dettata dall'art. 278 c.p.p. Quest'ultima norma, che – come è noto - disciplina il computo della pena ai fini dell'applicazione delle misure cautelari personali, prevede che: "Agli effetti dell'applicazione delle misure, si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione della circostanza aggravante prevista al numero 5) dell'articolo 61 del codice penale e della circostanza attenuante prevista dall'articolo 62 n. 4 del codice penale nonché delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale". Il problema si è posto, nel caso di specie – con riguardo alla posizione di un soggetto dichiarato delinquente abituale ai sensi degli artt.102 e 103 c.p., in cui necessariamente il giudice ha tenuto conto di una pluralità di condanne subite dall'interessato (condizione, quest'ultima, necessaria per addivenire alla declaratoria di delinquenza qualificata di “abitualità nel reato”). Le soluzioni giuridiche
La decisione in commento sgombera preliminarmente il campo da ogni dubbio circa l'applicabilità della regola che impone un termine massimo di durata anche alle misure di sicurezza diverse da quelle “psichiatriche”, dunque alle misure della colonia agricola o della casa di lavoro (art. 216 c.p.). Il Magistrato di sorveglianza di Modena ricorda, infatti che la riforma del 2014 era intervenuta principalmente con l'obiettivo di superare il fenomeno degli “ergastoli bianchi” subìti dai soggetti affetti da patologie psichiatriche (persone che il giudice abbia ritenuto affette da vizio totale o parziale di mente, con applicazione delle misure di sicurezza detentive, rispettivamente, del ricovero in O.P.G. (art. 222 c.p.) o in casa di cura e custodia (art. 219 c.p.). Pur tuttavia, il principio del “tetto” massimo di durata della misura di sicurezza era stato previsto dal legislatore con riguardo a tutte le misure di sicurezza, anche diverse da quelle c.d. ”psichiatriche”, come si desume dall'espresso tenore letterale della già ricordata disposizione dell'art. 1, comma 1-quater,d.l. 52/2014 e tale fondamentale dato sistematico è stato confermato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 83 del 2017, che - delibando la questione di costituzionalità relativa al rimedio risarcitorio introdotto dall'art. 35-ter, ord.penit. – ne ha affermato l'applicabilità all'internato in una casa di lavoro anche sulla scorta della natura della detta misura, soggetta ad un termine massimo di durata. Il giudice passa quindi ad esaminare il secondo profilo, che attiene al cuore della decisione da assumere, resa critica dalla presa d'atto che il richiamo operato dall'art. 1, comma 1-quater, d.l.52/2014 alla disciplina dell'art. 278 c.p.p. impone che non si possa considerare l'istituto della continuazione. Si pone, quindi, il problema di quale criterio seguire per il calcolo del termine massimo di durata della misura di sicurezza nei confronti dell'autore di più reati, come nel caso del soggetto dichiarato delinquente abituale. Come rileva il magistrato modenese, la formulazione della richiamata disposizione sembra, infatti, riguardare il solo caso della persona nei cui confronti si sia proceduto per una singola ipotesi di reato (la cui pena assurge a parametro di calcolo del “tetto” massimo di durata della misura di sicurezza), mentre la norma nulla prevede per il caso – tutt'altro che infrequente nella pratica – del soggetto dichiarato delinquente “qualificato” (nella fattispecie: delinquente abituale) all'esito di una valutazione operata dal giudice necessariamente su una pluralità di condanne e, dunque, di reati (artt.102 e 103 c.p.). Una prima soluzione è stata indicata dalla dottrina (GATTA), che ha suggerito di applicare la disciplina del cumulo materiale o giuridico, anche per quanto riguarda i limiti massimi all'aumento delle pene. Una seconda ipotesi interpretativa – che tuttavia si scontra con l'inequivocabile dato letterale, che si riferisce alla sola determinazione della durata minima della misura di sicurezza de qua - ha proposto una lettura “costituzionalmente orientata” dell'art. 217 c.p. (la disposizione, rubricata Durata minima, prevede che: “l'assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro ha la durata minima di un anno. Per i delinquenti abituali, la durata minima è di due anni (…)”, nel senso che, laddove non sia possibile adottare un criterio di parametrazione certo in ordine al termine di durata massima della misura, occorra interpretare la detta disposizione assumendo che il termine minimo di durata della casa di lavoro (anche) coincida con il termine massimo di durata della stessa. La giurisprudenza ha, tuttavia, seguito una terza soluzione. Vi sono, infatti, due precedenti giurisprudenziali - entrambi richiamati dalla decisione in rassegna - uno di merito e l'altro di legittimità, concordemente fondate sul principio che, nel caso di persona dichiarata delinquente abituale, occorre applicare la regola del c.d. “assorbimento”, quale principio di carattere generale nella materia delle misure di sicurezza ai sensi dell'art. 209 c.p. In forza di tale principio, il limite massimo di durata di una misura di sicurezza detentiva deve essere individuato, pertanto, nel massimo edittale previsto per il solo reato più grave tra quelli astrattamente considerabili. La decisione di merito richiamata nell'ordinanza in analisi (ord. Mag. Sorv. Udine dd. 22/03/2018) ha preso le mosse proprio dall'esclusione che l'art. 278 c.p.p. pone alla possibilità di tenere conto della continuazione tra i reati. Tale esclusione, letta in bonam partem, porterebbe a identificare il limite per l'applicazione della misura di sicurezza nel massimo edittale previsto per il delitto più grave senza procedere, quindi, ad alcun ulteriore aumento, secondo il principio di assorbimento che appartiene alla complessiva disciplina delle misure di sicurezza (art. 209 c.p., in tema di persona giudicata per più fatti). L'ordinanza udinese si poneva l'ulteriore problema dato dal fatto che il concorso di reati non è richiamato (ma neppure escluso) dall'art. 278 c.p.p., valutando - in prima battuta - la possibilità di fare applicazione la disciplina ordinaria di cui agli artt. 80 e 81, comma 1, c.p., con conseguente individuazione del limite massimo di applicazione della misura di sicurezza detentiva mediante il ricorso ai criteri di calcolo del cumulo materiale (per il concorso materiale) e del cumulo giuridico (per il concorso formale); e abbandonando tuttavia tale ipotesi interpretativa alla luce della sua irrazionalità intrinseca, atteso che si prevedrebbe, per il caso di concorso formale, un regime molto più rigoroso di quello stabilito per il reato continuato, con conseguenti profili di illegittimità costituzionale sotto il profilo della violazione dell'art. 3, Cost. Unica soluzione ermeneutica plausibile e costituzionalmente percorribile, pertanto, si palesa quella dell'applicazione analogica del principio dell'assorbimento previsto dal già evocato art. 209 c.p. (“Quando una persona ha commesso (…) più fatti per i quali siano applicabili più misure di sicurezza della medesima specie, è ordinata una sola misura di sicurezza”) – anche con riferimento alla durata massima della misura. Tale approdo non appare precluso – secondo tale richiamato precedente di merito - trattandosi di analogia in favor rei e sussistendo identità di ratio. Ciò comporta che, con riferimento al caso della misura di sicurezza detentiva conseguente alla declaratoria di abitualità non opererà il cumulo di pene, bensì il limite massimo di applicazione sarà individuato facendo riferimento al massimo edittale predisposto per il (solo) reato più grave. La giurisprudenza di legittimità – con l'unico precedente, a quanto consta, edito – si è pronunciata con la sentenza n. 41230 del 2019, che ha confermato la soluzione già abbracciata dal Magistrato di sorveglianza di Udine in quanto maggiormente coerente a livello sistematico, trattandosi dell'applicazione analogica di un principio (quello cioè dell'assorbimento) già presente nel sotto-sistema delle misure di sicurezza. La decisione modenese conferma tale orientamento giurisprudenziale, corroborandone la solidità quale espressione del diritto vivente in via di consolidamento sulla delicata questione scrutinata. Alla luce della elaborazione e della prassi giurisprudenziale sviluppatasi a partire dal 2014, invero, deve ritenersi che la disposizione di cui all'art. 1, comma 1-quater, d.l.52/2014 in esame si riferisca al tempo complessivo massimo che un soggetto può legittimamente trascorrere sottoposto ad una misura di sicurezza detentiva, talché il “tetto” di durata massima de quo ricomprende tutti i periodi trascorsi dall'interessato in misura detentiva di qualsivoglia specie, e riguarda tanto l'applicazione provvisoria quanto quella in via definitiva di dette misure. La regola di cui all'evocata disposizione sembra, inoltre, trovare applicazione con riferimento alla singola vicenda esecutiva, e non dovrebbe riferirsi, quindi, all'intera “carriera penitenziaria” dell'interessato (che in passato può quindi essere stato sottoposto a periodi di misura detentiva senza che questi debbano essere conteggiati ai fini del termine massimo di durata della misura attualmente in corso). L'efficacia temporale della previsione in esame è dibattuta: per una tesi, seguita da un indirizzo della Cassazione, il dies a quo della decorrenza massima decorre dalla entrata in vigore della riforma – 31 marzo 2015 – che coincide con la vigenza della l. 81/2014 (Cass.9 gennaio 2015, n. 23392, ric. Bijanzadeh); per altra opinione, non essendo stata dettata alcuna disposizione transitoria, secondo quanto previsto dall'art. 200, comma 2, c.p., il nuovo termine massimo di durata dovrà trovare immediata applicazione per tutte le misure di sicurezza detentive in corso (tempus regit actum). Competente ai fini del relativo accertamento – che configura una nuova causa di estinzione della misura di sicurezza cui si applica è l'autorità giudiziaria, da individuarsi - per la fase esecutiva - secondo una interpretazione maggioritaria, nel magistrato di sorveglianza territorialmente competente in relazione al luogo di esecuzione della misura, sulla base del disposto dell'art. 679, comma 1, c.p.p. Al fine del computo della durata massima si dovrà computare tutti i periodi di internamento, anche se trascorsi con soluzioni di continuità, relativi alla misura di sicurezza, ivi compresi i periodi di licenza (anche quella finale di esperimento), trattandosi di tempo di esecuzione della misura. Nel dichiarare la cessazione della misura detentiva, il giudice, se ravvisa sussistente una residua pericolosità sociale, può applicare la misura di sicurezza non detentiva della libertà vigilata. A. CABIALE, sub artt. 216 e 222 c.p., in F. FIORENTIN- F. SIRACUSANO (a cura di), L'esecuzione penale. Ordinamento penitenziario e leggi complementari, Coll. “Le Fonti del Diritto”, Giuffré-Lefebvre, Roma 2019 F. FIORENTIN – C. FIORIO, Manuale di Diritto penitenziario, Giuffré-Lefebvre, Milano 2020 (in corso di pubblicazione) F. FIORENTIN, Ordinamento penitenziario. La riforma incompiuta, in Il Penalista 1.10.2018 G. GATTA, Aprite le porte agli internati! Un ulteriore passo verso il superamento degli OPG e una svolta epocale nella disciplina delle misure di sicurezza detentive: stabilito un termine di durata massima (applicabile anche alle misure in corso, a noi pare), in Dir. Pen. Cont., Rivista web, 6 giugno 2014. E. MARIUCCI, Soggetti sottoposti a misura di sicurezza detentiva dopo gli ospedali psichiatrici giudiziari: quale status?, in Proc. Pen. Giust., 2017, 2, 336. F. VIGANÒ, La neutralizzazione del dilenquente pericoloso nell'ordinamento italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 1334. |