Lo Stato risponde dei danni per mancata inclusione dei dirigenti nella disciplina legale dei licenziamenti collettivi

Stefano Costantini
26 Giugno 2020

Lo Stato deve ritenersi responsabile dei danni derivanti dalla tardiva attuazione della direttiva europea sui licenziamenti collettivi, nei confronti dei lavoratori appartenenti alla categoria dei dirigenti, originariamente esclusi dall'ambito di applicazione della legge nazionale (l. n. 223 del 1991).
Massima
Lo Stato deve ritenersi responsabile dei danni derivanti dalla tardiva attuazione della direttiva europea sui licenziamenti collettivi, nei confronti dei lavoratori appartenenti alla categoria dei dirigenti, originariamente esclusi dall'ambito di applicazione della legge nazionale (l. n. 223 del 1991). Ai fini del risarcimento dei danni derivanti dalla mancata attuazione della direttiva, è necessaria la prova del danno-evento, del nesso di causalità, tra il danno-evento i la violazione dell'obbligo da parte dello Stato e del danno-conseguenza, consistente nelle perdite, patrimoniali e non, eventualmente subite.
Il caso
Un gruppo di dirigenti di banca citava in giudizio la Repubblica italiana per la mancata attuazione delle direttive europee sui licenziamenti collettivi, non avendo la legge italiana in materia – l'arcinota l. n. 223 del 1991 – incluso tra i lavoratori destinatari anche la categoria dei dirigenti. Nel 2010 i ricorrenti non avevano così avuto possibilità di partecipare alla procedura di licenziamento collettivo che, all'epoca, l'istituto di credito aveva aperto per il personale non dirigenziale, pur essendo stati licenziati (individualmente) nel medesimo contesto causale e temporale. A seguito dell'accertata violazione delle direttive europee da parte dello Stato italiano, ad opera della sentenza della Corte di giustizia UE n. 596 del 13 febbraio 2014 (causa C-596/2012), era sopravvenuta una situazione di illegittimità dei licenziamenti dei predetti dirigenti, adottati al di fuori della procedura collettiva che aveva interessato tutto il restante personale della banca.Dal che la pretesa risarcitoria nei confronti dello Stato, quantificata – con valutazione equitativa “agganciata” all'attualmente vigente meccanismo sanzionatorio – in 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita. Il Tribunale di Roma, dopo aver ricostruito il quadro normativo di riferimento, riconosce la lesione del diritto dei ricorrenti a far parte del novero dei lavoratori licenziati collettivamente, ma non ne condivide il metodo di determinazione del danno subito, optando per una soluzione – peraltro sostenuta dalla difesa erariale – più vicina ai principi nazionali in tema di effettività e prova del danno civilistico.
Le questioni giuridiche
La disciplina del licenziamento collettivo è stata introdotta ed è tutt'ora regolata, dalla l. 23 luglio 1991 n. 223, in attuazione della normativa europea concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (dir. 75/129/CEE). Le disposizioni comunitarie, successivamente “aggiornate” con la direttiva n. 98/59/CE, prevedevano la necessaria consultazione preventiva con i rappresentanti dei lavoratori al fine di giungere ad un accordo. In detta fase dovevano essere esaminate le possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti collettivi, nonché di attenuarne le conseguenze ricorrendo a misure sociali di accompagnamento, intese in particolare a facilitare la riqualificazione o la riconversione dei lavoratori licenziati. Il Legislatore italiano, in estrema sintesi, dopo aver fornito una definizione legale di licenziamento collettivo – ossia quello riguardante almeno cinque lavoratori in un arco temporale definito e riconducibile alle medesime ragioni oggettive, di carattere economico o organizzativo (riduzione o trasformazione di attività o di lavoro) – stabiliva una rigida procedimentalizzazione, passante attraverso una preventiva consultazione sindacale, anche con l'eventuale mediazione istituzionale dei competenti organi regionali, finalizzata al raggiungimento di un accordo che evitasse o limitasse il numero dei licenziamenti programmati o, comunque, che riducesse il più possibile l'impatto economico sul singolo e, nei casi più rilevanti, sullo stesso tessuto socio-economico del territorio di riferimento. Come si ricorderà poi, nella normativa italiana, per i lavoratori licenziati all'esito della descritta procedura, veniva attivato, attraverso le cosiddette liste di mobilità, un percorso agevolato di sostegno economico e ricollocazione, anche attraverso incentivi (sotto forma di sgravi contributivi) concessi ai datori di lavoro che procedessero alla loro riassunzione.Solo per inciso vale la pena ricordare che il descritto sistema di protezione è stato in parte superato con il primo intervento di razionalizzazione degli ammortizzatori sociali ad opera della Legge n. 92/12 (c.d. Legge Fornero), poi confermato dalla successiva legislazione adottata nell'attuazione del progetto Jobs Act. Per quanto attiene al campo di applicazione, l'attivazione della procedura di licenziamento collettivo era ed è richiesta a tutte le imprese che occupino più di quindici dipendenti le quali, appunto, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, nell'arco di 120 giorni. Originariamente – ed è appunto il casus belli – i licenziamenti dovevano riguardare le categorie degli operai, impiegati e quadri, con esclusione quindi dei dirigenti.Tale limitazione soggettiva poteva ricavarsi dal testo del comma 9 dell'art. 4, l. n. 223 del 1991, ove si legge: “Raggiunto l'accordo sindacale (...), l'impresa ha facoltà di licenziare gli impiegati, gli operai e i quadri eccedenti, comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso, nel rispetto dei termini di preavviso. (...)”Per quanto il citato comma fosse riferito specificamente all'atto di recesso, mentre un'analoga restrizione soggettiva non veniva operata né nell'art. 4, né nell'art. 24 (con riguardo all'avvio, alle forme ed ai contenuti della procedura e dei relativi atti), ove si menzionava più genericamente il “personale” (più specificamente, all'art. 4, comma 3, si fa riferimento al “personale eccedente” ed a quello “normalmente impiegato”, mentre la rubrica dell'art. 24, recita “Norme in materia di riduzione del personale”), l'esclusione della categoria dei dirigenti dall'intera procedura per i licenziamenti collettivi veniva considerata jus receptum, in ragione della specialità del rapporto di lavoro dirigenziale, caratterizzato da uno stretto rapporto fiduciario (che poco si adatterebbe ai criteri di scelta oggettivi, propri dei licenziamenti collettivi) e da una speciale e rafforzata tutela contrattuale collettiva per il recesso datoriale. Tale pacifica posizione interpretativa nazionale non veniva però condivisa a livello eurounitario, tanto da sollecitare un ricorso della Commissione UE alla Corte di Giustizia per violazione delle direttive europee le quali, nel perseguire l'avvicinamento delle legislazioni nazionali sul piano della gestione collettiva delle situazioni di eccedenza di personale al fine di ridurne l'impatto sociale, imponevano agli Stati membri di adottare una nozione comunitaria di lavoratore, secondo la quale è tale colui che fornisce “per un certo periodo di tempo, a favore di un altro soggetto e sotto la direzione di quest'ultimo, prestazioni in contropartita delle quali percepisce una retribuzione”. Una nozione, come si vede, che viene in qualche modo a corrispondere a quella di lavoratore subordinato contenuta nel “nostro” art. 2094 c.c. e che indubbiamente deve riferirsi anche alla categoria dei dirigenti.La condanna subita dallo Stato italiano obbligava il legislatore nazionale ad intervenire per estendere anche ai dirigenti le norme sui licenziamenti collettivi.L'estensione viene operata con l'art. 116, Legge n. 161/2014, il quale aggiunge il comma 1-quinquies all'art. 24 della Legge n. 223/1991, stabilendo che il datore di lavoro nel caso in cui, nel contesto definitorio di un licenziamento collettivo, intenda coinvolgere uno o più dirigenti, deve avviare una procedura di consultazione con le relative rappresentanze sindacali ed adottare gli atti connessi alla menzionata procedura nelle medesime forme e modalità previste per il personale non dirigenziale. In caso di violazione delle procedure o dei criteri di scelta il datore di lavoro sarà tenuto al pagamento in favore del dirigente di un'indennità in misura compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, fatte salve le diverse previsioni sulla misura dell'indennità contenute nei contratti e negli accordi collettivi applicati al rapporto di lavoro.
Le soluzioni giuridiche
Il descritto quadro normativo fa da sfondo alla vicenda che ci occupa, laddove si decide una controversia generata proprio dall'esclusione di alcuni dirigenti del settore del credito da una risalente procedura di licenziamento collettivo, esclusione rivelatasi – a posteriori – illegittima e, come tale, fonte di un diritto risarcitorio in capo ai richiedenti. Diritto ovviamente non invocabile nei confronti dell'ex datore di lavoro, ma nei confronti dello Stato, inadempiente ad un'obbligazione ex lege, assimilata, sotto il profilo della responsabilità civile, alla violazione contrattuale (cfr. Cass. n. 23577 del 2011; Cass. n. 5781 del 2017). Se dunque, per quanto sopra riferito, non sorgono dubbi sulla sussistenza delle condizioni per l'ammissibilità dell'azione risarcitoria per inadempimento delle direttive europee (violazione grave e manifesta di un norma giuridica finalizzata ed idonea ad attribuire diritti a favore dei singoli), vale la pena focalizzare l'attenzione – così come appunto fa il Tribunale di Roma – sul nesso causale tra violazione dell'obbligo imposto sullo Stato e pregiudizio lamentato ovvero sulla valutazione dell'esistenza e consistenza del danno. Secondo i principi, ai fini del risarcimento è necessaria la prova della sussistenza dei seguenti elementi: a) il cosiddetto “danno evento”, derivante dalla condotta antigiuridica, ovvero dalla violazione contrattuale o di legge (nel nostro caso, la mancata puntuale attuazione della direttiva);b) il nesso di causalità, tra il pregiudizio e la condotta inadempiente (nel nostro caso, dello Stato);c) il “danno conseguenza”, consistente nelle perdite patrimoniali e non patrimoniali eventualmente subite. Ebbene, al fine di verificare la sussistenza di tali elementi occorre innanzitutto individuare l'interesse protetto dalla norma violata. Nella fattispecie in esame, lo stesso viene identificato non soltanto nella partecipazione formale alla procedura di licenziamento collettivo, attraverso le rappresentanze sindacali, ma piuttosto nella perdita delle tutele sottese alla procedura stessa, così come prefigurate dalla direttiva comunitaria e sintetizzabili nei seguenti tre obbiettivi finali dell'intero apparato normativo: evitare il licenziamento; posticipare il licenziamento; attenuare gli effetti economici derivanti dalla perdita del lavoro. Deve pertanto verificarsi in concreto l'avvenuta lesione dei predetti diritti, al fine di accertare la sussistenza di un danno, non potendo esso consistere, in re ipsa, nella mancata partecipazione alla procedura e, a risalire, nella (indubbiamente) incorretta trasposizione della direttiva europea da parte del legislatore nazionale. In altre parole, il danno non può ritenersi presunto, richiamando il concetto di “danno comunitario”, a scopo cioè meramente sanzionatorio di un'accertata violazione (i c.d. punitive damages di tradizione anglosassone, estranei però al nostro ordinamento nazionale), ma va provato da chi lo allega, nell'an e nel quantum, con ricorso solo eventuale alla determinazione in via equitativa.Ed ecco perciò che la verifica giudiziale si concentra, innanzitutto, sulla dimostrazione, da parte degli attori, dell'effettività della lesione, ovvero se la loro inclusione nella procedura di riduzione del personale avrebbe potuto evitarne o ritardarne i licenziamenti o, comunque, consentire loro di accedere a strumenti di sostegno al reddito destinati al personale in esubero. A tale proposito il materiale istruttorio offre al giudice la possibilità di verificare come la procedura scrutinata avesse riguardato tutto il personale dell'Istituto di credito (derivandone la inevitabilità dei licenziamenti) e si fosse esaurita, con la comunicazione dei recessi, in un brevissimo arco di tempo (inferendone la sostanziale indifferibilità dei licenziamenti). Restava quindi il pregiudizio derivante dal mancato accesso agli strumenti di sostegno che, nella specie, erano costituiti dalle prestazioni a carico del Fondo di solidarietà di cui al D.M. n. 158/2000 (Regolamento relativo all'istituzione del Fondo di solidarietà per il sostegno del reddito, dell'occupazione e della riconversione e riqualificazione professionale del personale dipendente dalle imprese di credito), subordinate appunto alla sottoscrizione dell'accordo sindacale conclusivo della procedura di consultazione. Al risarcimento del suddetto danno, corrispondente cioè alle provvidenze economiche perse, è stato così condannato lo Stato italiano. La decisione in commento, per il percorso argomentativo che sviluppa, apre tuttavia, senza alcun dubbio, ad esiti potenzialmente diversi in tutti quei casi in cui le procedure consultive sindacali abbiano condotto ad una riduzione dei licenziamenti programmati o ad un loro differimento, ipotesi nelle quali il coinvolgimento dei dirigenti eventualmente licenziati individualmente nel medesimo contesto, avrebbe potuto evitare o rinviare lo scioglimento del loro rapporto. Viene così da chiedersi, in tali ipotesi, quali possano essere i parametri risarcitori cui agganciare la quantificazione della perdita delle chance di conservazione del posto di lavoro e se quello indennitario, attualmente previsto dall'art. 24, comma 1-quiquies l. n. 223 del 1991 ed invocato nel procedimento giudiziario in esame, non possa venire in soccorso ad un onere probatorio e ad una valutazione giudiziale non agevoli.E' noto come, in tema di prova del danno-conseguenza, ogni mezzo sia consentito, comprese le presunzioni semplici, con residuale ricorso alla valutazione equitativa solo in caso di estrema difficoltà della quantificazione.Certo è che in tutti i casi simili a quello scrutinato dal Tribunale di Roma, solo l'intervento della prescrizione potrebbe mettere al sicuro lo Stato italiano dalle rivendicazioni, più o meno onerose, di ex dirigenti pretermessi dalle procedure di licenziamento collettivo.

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