Bancarotta fraudolenta documentale solo in caso di diminuzione del patrimonio sociale

01 Luglio 2020

Artifici contabili posti in essere dagli amministratori della società fallita intesi a stornare crediti vantati dalla medesima per iscriverli quali sopravvenienze passive non possono mai integrare il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale...
Massima

Artifici contabili posti in essere dagli amministratori della società fallita intesi a stornare crediti vantati dalla medesima per iscriverli quali sopravvenienze passive non possono mai integrare il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non venendo in alcun modo in essere in tale ipotesi una diminuzione, effettiva o fittizia, del patrimonio sociale.

Il caso

In sede di appello, l'amministratore di una società fallita era condannato per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale. La contestazione riguardava lo storno dall'attivo di poste contabili relative a crediti vantati dalla fallita nei confronti di altre società del gruppo - amministrate dallo stesso imputato - ed il loro trasferimento nel conto sopravvenienze passive, operazione cui conseguiva la sostanziale ed ingiustificata omessa riscossione dei crediti.

Impugnando la decisione, la difesa lamentava, per quanto di interesse in questa sede, come l'artificio contabile contestato non integrasse gli estremi della distrazione, non essendo di per sé idoneo ad estinguere il credito o ad integrare un atto di rinunzia alla sua riscossione e dunque a costituire un atto dispositivo del patrimonio della fallita.

La questione

La condotta che può integrare il reato di bancarotta propria patrimoniale è indicata dall'art. 216, comma 1, n. 1, L.F. – richiamato dal successivo art. 223 - mediante il riferimento ad una serie di comportamenti, il cui disvalore è assolutamente analogo e la cui descrizione in imputazione è ritenuta dalla giurisprudenza sostanzialmente equivalente (Cass.pen., sez. V, 5 luglio 2010, n. 37920).

Quanto alle condotte materiali che integrano il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale secondo la prima parte dell'art. 216, comma 1, n. 1, L.F., esse richiamano comportamenti – denominati in vario modo dal legislatore - che, sotto il profilo della loro materialità, non presentano alcun profilo di illiceità, concretandosi nel godimento di un diritto ed in particolare nell'esercizio del diritto da parte dell'imprenditore di decidere della destinazione dei propri beni (in caso di fallimento individuale) o del patrimonio aziendale (in caso di fallimento di una società).

Come detto, le condotte penalmente rilevanti sono denominate in vario modo dalla norma incriminatrice ed in questa sede è opportuno soffermarsi brevemente sul significato delle diverse espressioni utilizzate dal legislatore.

a) quanto alla distruzione, con tale ipotesi ci si riferisce all'annullamento fisico del bene (totale o parziale) o del suo valore economico, frutto di un comportamento commissivo (es. appiccamento di fuoco alla cosa) o di una condotta omissiva, quando scaturisca dalla mancata (doverosa) conservazione del cespite, se vi sia obbligo giuridicamente apprezzabile alla conservazione. Sicuramente non rientra nell'ipotesi in parola - mancando un effettivo pregiudizio per i creditori, perché non vi è un abbattimento del patrimonio del creditore - la conversione di un bene nel suo controvalore in denaro (es. vendita), purché il prezzo richiesto sia congruo; parimenti certamente esterne alla definizione di “distruzione” sono le scelte che conducono l'imprenditore ad un mancato incremento del proprio patrimonio, per cui la rinuncia a beni o posizioni giuridiche non ancora effettivamente entrate nel patrimonio dell'imprenditore - si pensi alla rinuncia all'eredità - non ha rilevanza penale;

b) l'occultamento è il nascondimento materiale del bene al fine di impedire (o rendere assai difficoltosa) l'apprensione dello stesso da parte degli organi della procedura concorsuale;

c) la dissimulazione è il nascondimento giuridico, effettuato mediante atti simulati, diretti a creare un'apparenza di trasferimento (o di proprietà) a terzi di beni che in realtà sono o debbono ritenersi appartenenti al patrimonio del debitore;

d) la condotta di dissipazione, invece, indica la scelta dell'imprenditore di sperperare le proprie risorse patrimoniali senza che l'impresa ne tragga alcuna utilità. Secondo la giurisprudenza i requisiti di tale condotta sono, sotto il profilo oggettivo, un'incoerenza assoluta fra le operazioni poste in essere e le esigenze imprenditoriali, nonché, sotto il profilo soggettivo, la consapevolezza del soggetto agente di diminuire il patrimonio della società per scopi del tutto estranei alla medesima. Si ricorda che la legge fallimentare prevede un ulteriore illecito avente ad oggetto un incongruo utilizzo dell'attività del patrimonio aziendale e cioè l'ipotesi di effettuazione di operazioni manifestamente imprudenti da cui derivi la perdita di una parte significativa del patrimonio di cui all'art. 217, comma 1, n. 3 L.F.: in proposito si sostiene che in tale ultima circostanza il comportamento dell'imprenditore, per quanto anti economico e produttivo di un dissesto aziendale, deve comunque risultare coerente con l'attività svolta dall'azienda (Cass.pen., sez. V, 17 settembre 2014, n. 5317), per cui la perdita di ricchezza per operazioni manifestamente imprudenti deve discendere da un errore di valutazione, non da un ineliminabile profilo pregiudizievole per le sorti dell'impresa;

e) l'elenco delle condotte considerate dall'art. 216 L.F. termina con un riferimento al comportamento di distrazione, nozione indistinta ed indeterminata nel cui ambito va fatta rientrare ogni ulteriore ipotesi di deleteria disposizione dei beni dell'impresa - ovvero ogni forma di fuoriuscita di valore dal patrimonio dell'imprenditore non giustificabile in termini di logica di impresa e che ne determina di conseguenza un impoverimento - che non risulti definibile quale distrazione, dissimulazione, ecc. (PEDRAZZI, Reati commessi dal fallito, in Commentario Scialoja – Branca. Legge fallimentare, a cura di GALGANO, Bologna – Roma 1995, 55). Stante tale nozione ampia della condotta di distrazione, in tale categoria la giurisprudenza fa rientrare una molteplicità di comportamenti, sia di carattere prettamente materiale e la cui qualificazione in termini di illiceità (o quanto meno come evento pregiudizievole per le disponibilità economiche dell'impresa) è di immediata evidenza – come ad esempio in caso d'impossessamento di un assegno postdatato o di accordo con ditte fornitrici per il pagamento di beni in maniera superiore al prezzo effettivo con retrocessione di parte del prezzo all'amministratore -, che maggiormente articolati e la cui connotazione delittuosa presuppone una maggiore attenzione nella lettura della vicenda – come la prestazione di garanzie cambiarie a favore di terzi da parte della società fallita (Cass.pen., sez. V, 5 giugno 2003, n. 36629), la creazione di obbligazioni a carico dell'impresa sine titulo, lo svolgimento di operazioni di scissione societaria in cui l'attivo venga conferito esclusivamente ed integralmente alla nuova società ed in capo alla società scissa rimangano solo le perdite (Cass.pen., sez. V, 13 giugno 2014, n. 42272), la cessione di un ramo di azienda, ecc..

Assolutamente diversa dalle ipotesi di bancarotta sopra indicate è la condotta che l'art. 216, comma 1, L.F. descrive quale esposizione o riconoscimento di passività inesistenti. Le due ipotesi in esame consistono in un'attività volta a ledere la garanzia dei creditori simulando la presenza di creditori inesistenti: ciò può avvenire sia con “esposizione” di passività insussistenti, sia con l'indicazione dei propri debiti che il fallito fa, per iscritto o anche semplicemente oralmente, a favore degli organi fallimentari, oppure con la falsificazione o l'alterazione delle scritture contabili; in questo secondo caso, si ritiene sussistere il concorso formale con il reato di bancarotta fraudolenta documentale previsto dall'art. 216, comma 2, L.F..

Il “riconoscimento” può essere realizzato con qualsiasi mezzo, anche implicito; deve, quindi, ritenersi che il reato sussista anche nel caso di acquiescenza di fronte alla rivendicazione del creditore fittizio; per la sussistenza del reato dovrà trattarsi di debiti inesistenti, poiché nell'ipotesi di simulazione di titoli di prelazione ricorrerà la fattispecie di bancarotta preferenziale prevista dal terzo comma dell'art. 216.

Osservazioni

La Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso, in quanto la condotta contestata all'imputato non integrerebbe, secondo il giudice di legittimità, la fattispecie di bancarotta patrimoniale.

Nella decisione compare in primo luogo una ricostruzione dei confini del reato suddetto, le cui diverse ipotesi sono accomunate dal connotato della diminuzione, fittizia od effettiva, del patrimonio del debitore, ma che si differenziano per le modalità con cui a tale risultato si addiviene.

In particolare, i fatti di distrazione e di dissipazione costituiscono ipotesi di effettiva diminuzione patrimoniale, atteso che a seguito di tali condotte i beni escono definitivamente dal patrimonio del fallito; quelli di occultamento, di dissimulazione, di riconoscimento o esposizione di passività inesistenti configurano, invece, ipotesi di diminuzione patrimoniale fittizia, in quanto, malgrado l'apparenza dai medesimi creata, i beni continuano a far parte del patrimonio del debitore, con conseguente possibilità, mediante l'esercizio delle opportune iniziative, di recuperarli alla massa attiva. In posizione in qualche modo intermedia si pone invece la condotta di distrazione, che pure determina un effettivo distacco del bene dal patrimonio, ma non necessariamente impedisce agli organi fallimentari di recuperarlo.

Nel caso di specie, all'imputato era contestato di aver distratto o comunque occultato crediti vantati dalla fallita nei confronti di altre società sempre riconducibili all'imputato mediante un artifizio contabile, consistito nello stornare i medesimi a sopravvenienze passive, operazione che, secondo la Corte territoriale, si sarebbe tradotta nel loro sostanziale azzeramento e di fatto nella rinunzia ai relativi diritti. Tale affermazione non è condivisa dalla Cassazione, secondo cui, in assenza di un formale atto di remissione del debito o di rinunzia ad esercitare i diritti sottostanti, i crediti in questione possono ritenersi venuti meno, rimanendo parte integrante del patrimonio della fallita e non impedendo l'impropria operazione contabile contestata alla curatela di agire per riscuoterli. In sostanza, secondo la sentenza in commento,attraverso l'artifizio contabile di cui si è detto non si è determinato alcun distacco dei beni menzionati dal patrimonio in grado di integrare la ipotizzata distrazione, né lo stesso ha di per sé cagionato un reale "azzeramento" del loro valore, eventualmente qualificabile come distruzione o dissipazione (venendo in proposito semmai in conto l'eventuale lesione della garanzia patrimoniale causata dalla mancata riscossione dei crediti divenuti eventualmente irrecuperabili al momento del fallimento, previa dimostrazione che, qualora si fosse proceduto tempestivamente in tal senso ovvero attraverso idonei strumenti conservativi, il valore dei crediti sarebbe stato preservato).

Quanto alla possibilità di ricondurre il fatto descritto, l'artificio contabile, nella condotta di occultamento, tale opzione è esclusa, in quanto il verbo occultare, nel senso evocato dall'art. 216 L.F., definisce sia il comportamento del fallito che nasconde materialmente i suoi beni in modo che il curatore non possa apprenderli, sia il comportamento del fallito che, mediante atti o contratti simulati, faccia apparire come non più suoi beni che continuano ad appartenergli, in modo da celare una situazione giuridica che consentirebbe di assoggettare detti beni all'azione esecutiva concorsuale (Cass.pen., sez. V, 3 ottobre 2016, n. 46692; Cass.pen., sez. V, 15 novembre 2007, n. 46921): nessuna di queste due ipotesi ricorre nel caso di specie, posto che la condotta dell'imputato non si è tradotta in alcun atto di disposizione patrimoniale, reale o simulato, o comportamento materiale cui sia conseguita l'effettiva od apparente diminuzione della garanzia patrimoniale della fallita.

Ferma dunque la non sussumibilità dei comportamenti descritti nel reato di bancarotta patrimoniale, nulla però impedisce, e la decisione lo evidenzia chiaramente, di qualificare il fatto stesso come bancarotta fraudolenta documentale, cioè quale fraudolento intervento sulle scritture contabili o sul bilancio.

Conclusioni

La decisione della Cassazione può essere difficilmente contestata, posto che non pare possibile estendere nei termini fatti propri dai giudici di merito il concetto di “distrazione” richiamato dall'art. 216, comma 1, n. 1, L.F..

Anzi, è da ritenere che proprio la circostanza che la nozione di distrazione non indichi con precisione alcuna condotta tipica da parte del soggetto agente, né ha un referente semantico ben determinato - a differenza, ad esempio, di quanto può sostenersi con riferimento alle ipotesi di distrazione o di occultamento –, rende necessario porre in via interpretativa un argine al possibile utilizzo della nozione di distrazione quale modalità per sanzionare il singolo per ogni atto di disposizione dei propri beni che risulti anomalo e censurabile in un'ottica imprenditoriale. In particolare, alla luce di questa esigenza, va ritenuto che la ricostruzione del significato del termine in parola vada operata considerando che l'espressione “distrazione” si affianca ad altre - quali quelle di dissipazione, distruzione, occultamento, ecc. - che richiamano in maniera indiscussa una diminuzione della consistenza del patrimonio dell'imprenditore in assenza di qualsiasi vantaggio ed in mancanza di qualsiasi argomentazione economica; perciò artifici contabili cui non segua in alcun modo un tale depauperamento della massa fallimentare non possono in alcun modo rientrare nell'ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

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