Sull’insolvenza della Banca Popolare di Vicenza

Marcello Maggiolo
09 Luglio 2020

L'insolvenza di una banca sottoposta a liquidazione coatta amministrativa deve essere appurata facendo riferimento al momento in cui il provvedimento di liquidazione viene emanato...
Massima

L'insolvenza di una banca sottoposta a liquidazione coatta amministrativa deve essere appurata facendo riferimento al momento in cui il provvedimento di liquidazione viene emanato.

La valutazione sull'insolvenza deve essere compiuta nell'ottica liquidatoria conseguente alla perdita della continuità aziendale, applicando le regole fallimentari generali, e con un particolare riguardo per il deficit patrimoniale, che è ritenuto essere dato di rilevanza centrale nell'accertamento dell'insolvenza dell'impresa bancaria.

Il caso

La Corte d'Appello di Venezia conferma la sentenza con cui il Tribunale di Vicenza aveva dichiarato l'insolvenza di Banca Popolare di Vicenza s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa (d'ora innanzi indicata soltanto come BPVi).

Lo fa pronunciandosi su un reclamo basato su tre motivi, e con un'argomentazione la quale distilla (in fin dei conti la vicenda avviene non lontano dalle pendici del Grappa) il cuore dell'impianto motivazionale della decisione di primo grado, consistente nella convinzione che la Consulenza Tecnica d'Ufficio espletata in corso di causa è persuasiva quanto a rettifiche relative a contributi dello Stato ed attività fiscali differite. Da quell'impianto viene invece eliminata la testa, vale a dire la prospettata rilevanza di tutta una serie di indici di insolvenza; e la coda, consistente nella persuasione del Tribunale che la Consulenza Tecnica d'Ufficio andasse seguita anche quanto a rettifiche relative a crediti deteriorati e attività finanziarie.

Le questioni giuridiche e le soluzioni

Al di là della metafora, l'analisi del discorso giustificatorio deve muovere dal suo doppio presupposto logico. È un presupposto ineludibile, e non a caso accettato in entrambi i gradi di giudizio. Si tratta del fatto che, per un verso, a mente dell'art. 82, comma 2, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 285 (T.U.B.), l'insolvenza di una banca sottoposta a liquidazione coatta amministrativa deve essere appurata facendo riferimento al momento in cui il provvedimento di liquidazione viene emanato (Cass., 21 aprile 2006, n. 9408, citato nella sentenza commentata; ma v. anche Cass., 18 agosto 2017, n. 20186), per cui nel caso concreto la data è il 25 giugno 2017.

Per altro verso, il presupposto sta nel fatto che la valutazione sulla insolvenza deve essere compiuta nell'ottica liquidatoria conseguente alla perdita della continuità aziendale (il 23 giugno la BCE aveva dichiarato la prossimità al dissesto di BPVi, cosa che determinò il successivo 19 luglio la revoca della autorizzazione allo svolgimento dell'attività bancaria); applicando le regole fallimentari generali; e con un particolare riguardo per il deficit patrimoniale, che è ritenuto essere dato di rilevanza centrale nell'accertamento dell'insolvenza dell'impresa bancaria (Cass., 18 agosto 2017, n. 20186).

Detto questo, la Corte d'Appello - nella metaforica ‘testa' della sua motivazione - fa piazza pulita di una serie di indici sintomatici di insolvenza valorizzati dal Tribunale di Vicenza, e da essa ritenuti invece immeritevoli di considerazione o non sufficientemente approfonditi. Con un po' di prudenza (“non destituito di fondamento è l'assunto del reclamante) viene cioè sostanzialmente condivisa la censura per cui non sarebbe stato vero, nei termini ipotizzati dal Giudice di primo grado per dedurne la insolvenza di BPVi, che non ci fu assenza di procedure di salvataggio attivate dal sistema bancario; né sarebbe vero che il deprezzamento delle azioni sia sintomo di insolvenza, essendo piuttosto un indice di crisi (tanto più che le azioni conservarono un valore positivo); non sarebbe poi stato adeguatamente ponderato l'impatto delle misure di sostegno pubblico, della svalutazione dei crediti in sofferenza, dei crediti deteriorati e dei crediti high risk, e quindi sarebbe ingiustificata la loro considerazione quali indici di insolvenza. Sono infine reputati del tutto apodittici i dubbi espressi dal Tribunale circa la reale consistenza della voce di ‘altre attività' per € 407 milioni.

Il resto della decisione attiene alla determinazione del patrimonio netto di BPVi, ed all'impatto che sulla sua valutazione ha avuto il passaggio dalla continuità aziendale all'ottica liquidatoria. Più in concreto, il giudizio si appunta sulle valutazioni che condussero dapprima il Consulente Tecnico d'Ufficio e poi il Tribunale ad apportare tutta una serie di rettifiche a un patrimonio netto contabile calcolato - ma secondo i principi contabili che postulano la continuità aziendale: di qui l'esigenza delle rettifiche - in € 2.005 milioni al 25 giugno 2017, data di emanazione del provvedimento di liquidazione.

Su questo dato di partenza si appunta un ulteriore paio di considerazioni preliminari del tutto condivisibili e, a quanto pare, in realtà neppure contestate dal reclamante. Da un lato, le rettifiche vengono considerate in linea generale inevitabili, data la cessazione della continuità aziendale il giorno successivo, e data quindi la necessità di adottare l'ottica liquidatoria che esige di valutare le attività secondo il presunto valore di realizzo e le passività secondo l'atteso valore di estinzione. Dall'altro lato viene precisato che le rettifiche devono basarsi sulla migliore ipotesi liquidatoria, che è quella non atomistica o non integralmente atomistica; e si aggiunge che in effetti il D.L. 25 giugno 2017, n. 99 (“Disposizioni urgenti per la liquidazione coatta amministrativa di Banca Popolare di Vicenza s.p.a. e di Veneto Banca s.p.a.”, conv. con mod. nella l. 31 luglio 2017, n. 121) adottò tale prospettiva la quale, anche in assenza dell'intervento normativo, sarebbe comunque stata alla base di qualsiasi possibile intervento alternativo.

Tracciato in questo modo il quadro di principio, anche nella metaforica ‘coda' della decisione la Corte d'Appello condivide, senza darlo troppo a vedere, le doglianze del reclamante.

Il Giudice ritiene infatti poco attendibile la valutazione resa in sede di Consulenza Tecnica d'Ufficio, e condivisa in sentenza, attinente a due plessi di crediti, che sono i crediti rimasti in capo alla procedura e i crediti high risk, ed altrettanto poco attendibile viene considerato il giudizio che conduce alla svalutazione degli assets finanziari.

Fondamentalmente, secondo la Corte, questi aspetti dell'indagine peritale avrebbero meritato ben altro approfondimento. La circostanza non induce però a disporre una nuova Consulenza. All'interno di una ipotetica indagine ulteriore condotta con la necessaria analiticità, avrebbero infatti dovuto essere presi in considerazione tutta una serie di fattori (che qui non ripeto) i quali, se in parte avrebbero potuto avere un effetto migliorativo dei valori, imponendone una correzione in alto e quindi riducendo la svalutazione concretamente operata, in altra parte avrebbero avuto effetti depressivi dei valori indicati nella perizia.

Secondo la Corte, a tutto concedere il complessivo quadro di deficit non sarebbe stato sensibilmente alterato, e tanto meno sanato.

Osservazioni

Tutto sta quindi in uno specifico segmento della decisione del Tribunale di Vicenza, e soprattutto della Consulenza Tecnica d'Ufficio espletata in quel grado di giudizio. Quello specifico segmento - il cuore - convince invero la Corte d'Appello che l'insolvenza c'era, e che dovesse dunque essere ribadita rigettando il reclamo.

I punti nodali sono sostanzialmente due: la Corte condivide la rettifica apportata al patrimonio netto contabile in ragione della entità dei contributi erogati dallo Stato, rettifica che conduce a un patrimonio netto rettificato negativo per € 436 milioni; e la Corte condivide altresì la rettifica operata alle attività fiscali e la mancata considerazione delle attività fiscali differite (DTA) nella situazione patrimoniale al 25 giugno 2017.

Essendo questo il nucleo fondamentale della decisione, su di esso merita quindi fermare l'attenzione.

Il primo punto attiene al debito corrispondente ai contributi erogati dallo Stato per € 1.820 milioni ed € 621 milioni (con un totale di € 2.441 milioni), come era previsto (all'art. 4, comma 1, lett. b e d, D.L.25 giugno 2017, n. 99, e) agli artt. 2.4 e 2.5.1 del contratto 26 giugno 2017 (sulle peculiarità dei contenuti di quel contratto e della sua relazione con il d.l. 25 giugno 2017, n. 99 cfr. D. MAFFEIS, I debiti delle banche venete: interpretare un contratto che ha forza di legge, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 994 ss.), cioè del contratto con cui i commissari liquidatori di BPVi alienarono a Intesa San Paolo il cosiddetto ‘Insieme aggregato' (nulla quaestio invece per l'ulteriore contributo previsto all'art. 4.2 del contratto 26 giugno 2017 ex art. 4, comma 1°, lett. a.i, D.L. 25 giugno 2017, n. 99).

Si esclude innanzi tutto che il debito, in quanto restitutorio e sorto quindi nel momento della erogazione concreta del finanziamento a Intesa San Paolo, possa ritenersi inesistente alla data dell'emanazione del provvedimento di liquidazione e perciò non valorizzabile in rettifica allo stato patrimoniale in quella data (che è quella rilevante ex art. 82, comma 2, TUB).

La ragione per assegnare rilevanza a quel debito in sede di valutazione di insolvenza viene ravvisata nel fatto che la questione rilevante non attiene alla esistenza o inesistenza del debito, o meglio al momento in cui esso venne ad esistenza, ma alla determinazione di quale fu l'effettivo prezzo di realizzo dell''Insieme aggregato'. In questa diversa prospettiva, viene allora osservato che il prezzo negativo di mercato riconosciuto all''Insieme aggregato' fu calcolato tenendo conto anche di quel contributo.

Non rileva, secondo la Corte, come si giunse a determinare le concrete condizioni della cessione, e quindi non conta il fatto - valorizzato dalla difesa del reclamante - che tali condizioni non furono il frutto di una normale dinamica di mercato. Non si nega che mancò una effettiva procedura competitiva, né si nega la conseguenza che a Intesa San Paolo fu lasciato un notevole potere negoziale nella trattativa relativa alle condizioni della cessione. Senza negare tutto questo, si osserva peraltro che -per ragioni di stabilità patrimoniale della cessionaria - il valore del contributo sarebbe con ogni probabilità apparso nella determinazione del prezzo all'interno di qualsivoglia diverso meccanismo di cessione, e che in ogni caso il meccanismo concretamente elaborato fu in certa misura reso necessario da fattori sistematici, cioè dalle condizioni congiunturali del mercato delle fusioni e acquisizioni bancarie.

In conclusione, viene quindi condivisa l'idea secondo la quale l'importo di € 2.441 milioni rappresenti una componente del prezzo negativo che (con lo sbilancio di cessione) forma il prezzo complessivo a cui fu ceduto l''Insieme aggregato'. E sul piano della insolvenza o non insolvenza di BPVi, ciò induce a ritenere condivisibile che quell'importo sia detratto dal patrimonio netto contabile BPVi alla data di emanazione del decreto di liquidazione (25 giugno 2017), con la conseguenza che il patrimonio netto rettificato a quella data presentava un saldo negativo di € 436 milioni.

Il secondo punto attiene alla ulteriore rettifica che interessò le attività fiscali, ed alla mancata considerazione nella situazione patrimoniale al 25 giugno 2017 delle attività fiscali differite (DTA).

Più precisamente, questo secondo punto attiene al modo di interpretare sistematicamente le disposizioni fiscali dell'art. 7, D.L. 25 giugno 2017, n. 99, il quale al comma 1° prevede che, nelle cessioni di cui all'art. 3 del medesimo decreto, al cessionario siano trasferiti i crediti d'imposta originati da imposte anticipate; ed al comma 3° prevede che nelle medesime cessioni di cui all'art. 3 a cessionario e cedente si applichi l'art. 15, D.L. 14 febbraio 2016, n. 18 (“Misure urgenti concernenti la riforma delle banche di credito cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze, il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio”, convertito con modificazioni dalla legge 8 aprile 2016, n. 49), e quindi possano ritenersi cedute anche le attività fiscali differite (DTA).

Nell'alternativa tra il ritenere che la norma dell'art. 15, D.L. 14 febbraio 2016, n. 18 sia espressione di un principio generale, e considerarla viceversa norma relativa ad enti sottoposti a risoluzione ed enti ponte, la Corte propende per quest'ultima interpretazione. L'argomento non è solidissimo, nel senso che viene opposta opinione (della Corte) a opinione (del Consulente di parte reclamante), senza un percorso ermeneutico che, nella sua sostanza, vada oltre il principio ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, e che invece avrebbe almeno avuto bisogno di chiarire perché la regola dell'art. 15, D.L. 14 febbraio 2016, n. 18 sia norma non semplicemente speciale (e quindi come tale suscettibile anche di applicazione analogica), ma addirittura eccezionale, con le conseguenze dell'art. 14 disp. prel. c.c. Non intendo dire che la soluzione della Corte sia necessariamente errata, né intendo sopravvalutare il fatto che in altra parte della motivazione la norma in questione viene in un passaggio espressamente qualificata come norma speciale (in riferimento alle DTA non iscritte nella situazione patrimoniale al 25 giugno 2017 per mancato superamento del probability test si legge “va nuovamente affermato che si tratta di norma speciale…”.); mi limito semplicemente a segnalare che il discorso giustificatorio sul punto è piuttosto ermetico.

Di questa scelta interpretativa occorre peraltro indicare la rilevante conseguenza: solo il D.L. 25 giugno 2017, n. 99 avrebbe cioè consentito di trasferire alla cessionaria le DTA trasformabili in crediti d'imposta per un valore che viene indicato in € 215 milioni. Volendo allora valutare le DTA secondo criteri di liquidazione alla data del relativo provvedimento, il valore di € 215 milioni va portato in diminuzione agli € 524 milioni appostati a titolo di attività per imposte anticipate (DTA) nella situazione patrimoniale BPVi al 25 giugno 2017.

Il medesimo discorso viene poi ripetuto per le DTA non iscritte nella situazione patrimoniale al 25 giugno 2017 per mancato superamento del probability test, di cui si nega la valorizzazione (integralmente pretesa dal reclamante per € 604 milioni) proprio in ragione del fatto che l'art. 7, D.L. 25 giugno 2017, n. 99 non conterrebbe un principio generale; e di cui si precisa poi che al limite esse avrebbero potute essere valorizzate per il loro prezzo contrattualmente previsto di € 305 milioni.

Conclusioni

Questi dunque i contenuti della sentenza della Corte d'Appello di Venezia. È decisione assai articolata, e certamente assai meditata. Sono caratteristiche che la rendono senz'altro apprezzabile, valutazione questa che poi viene confermata dal modo sobrio e sempre tecnico con cui - senza concedere spazio alle suggestioni che la vicenda concreta avrebbe potuto generare - districa un non semplice coacervo di elementi giuridici e contabili.

Dalla lettura è però nato un interrogativo: esso riguarda il modo in cui hanno trovato soluzione i due temi qui descritti come il cuore della decisione. Il primo tema è la rettifica per il valore negativo corrispondente al debito per i contributi erogati dallo Stato; l'altro tema è la rettifica delle attività fiscali e la mancata considerazione delle attività fiscali differite (DTA).

Orbene, in riferimento al primo tema la Corte ha ritenuto di non dar peso alla critica secondo la quale la cessione dell'‘Insieme aggregato' sarebbe avvenuta secondo dinamiche di mercato del tutto alterate. Semplificando molto: secondo la Corte, può essere che la vicenda sia stata anomala; forse le cose sarebbero potute andare in altro modo, o forse no, ma alla fine ciò che conta è quanto accadde. I valori, e la rettifica di € 2.441 milioni, vanno cioè determinati sulla base della storia, e quindi sulla base di ciò che fu pattuito nel contratto 25 giugno 2017 con particolare riguardo per la valorizzazione di € 2.441 milioni quale componente negativa del prezzo.

In riferimento al secondo tema (rettifica delle attività fiscali e mancata considerazione dei DTA), la Corte dice che senza il D.L. 25 giugno 2017, n. 99, non ci sarebbe stato “trasferimento in capo a Intesa San Paolo delle DTA (non trasformate in crediti d'imposta), di talché, in assenza di tale disposizione, detta posta avrebbe avuto un valore di liquidazione sostanzialmente pari a zero” (p. 23 della sentenza). La valutazione viene quindi ridotta per un importo pari a quanto fu oggetto di trasferimento. Ma il trasferimento, in realtà e seppur grazie alla apposita previsione legislativa, ci fu.

In questo secondo caso, diversamente che nel primo, non viene quindi dato peso a ciò che in effetti accadde: lì si tiene conto della valorizzazione dei contributi che ci fu; qui invece non si tiene conto del trasferimento che pure ci fu.

Certamente, il diverso criterio di giudizio potrebbe trovare giustificazione con un'osservazione che pure trapela dalla decisione della Corte: nel quadro di una verifica dedicata alla sussistenza di uno stato di insolvenza, la determinazione del patrimonio netto BPVi all'avvio della procedura di liquidazione coatta amministrativa (art. 82, comma 2°, Tub), questione cui appartiene il tema fiscale, è altro rispetto alla determinazione del prezzo di realizzo dell”Insieme aggregato” e quindi del suo valore di liquidazione, questione cui appartiene invece il tema dei contributi Statali.

Ma tutto è avvenuto nello stesso contesto, tutto è frutto degli stessi atti: provvedimento di avvio della liquidazione (rilevante ex art. 82, comma 2, Tub), provvedimento (il medesimo) che ha consentito di trasferire le DTA, atti negoziali con cui le DTA sono state effettivamente trasferite ed è stato determinato il prezzo di realizzo dell'”Insieme aggregato”: tutto è occorso tra il 25 e il 26 giugno, e tutto è frutto di un'unica operazione.

La disarticolazione dei singoli passaggi ha allora un sapore un po' artificiale, e l'interrogativo
resta.

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