La fusione per incorporazione e il rapporto di cambio tra azioni di risparmio dell'incorporata e azioni ordinarie dell'incorporante

Alessandro Paccoi
13 Luglio 2020

Nel caso di fusione per incorporazione, il rapporto di cambio tra azioni di risparmio della società incorporata e azioni ordinarie della società incorporante deve calcolarsi tenendo conto che il valore delle prime non è necessariamente coincidente con quello delle azioni ordinarie della stessa incorporata
Massima

Nel caso di fusione per incorporazione, il rapporto di cambio tra azioni di risparmio della società incorporata e azioni ordinarie della società incorporante deve calcolarsi tenendo conto che il valore delle prime non è necessariamente coincidente con quello delle azioni ordinarie della stessa incorporata, giacché il valore delle azioni di risparmio, che può essere desunto dalle quotazioni di mercato dei titoli, è funzione dei diritti, non solo di natura patrimoniale, ma anche di natura amministrativa, conferiti dalle azioni in questione.

Il caso

Tizio, titolare di 170.000 azioni di risparmio di Banca Nazionale dell'Agricoltura S.p.A., poi fusa per incorporazione in Banca Popolare Antoniana Veneta S.p.A., conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Padova la Banca incorporante, asserendo di aver sofferto – per effetto della summenzionata operazione straordinaria – una perdita patrimoniale conseguente all'errata valutazione del rapporto di cambio delle azioni dallo stesso precedentemente detenute nell'incorporata. Tale erronea valutazione avrebbe portato, secondo quanto sostenuto da Tizio, ad una significativa diminuzione della propria quota percentuale di partecipazione nell'incorporante (in diminuzione del 44,31%), nonché ad una riconnessa riduzione del suo valore economico (che passava da lire 658.625.730 a lire 366.768.680).

L'attore domandava dunque, in via principale, l'accertamento circa l'esattezza del criterio di redistribuzione applicato nel calcolo del rapporto cambio, con condanna della controparte al risarcimento del danno patito e, in via subordinata, di voler accertare il danno asseritamente derivatogli da una turbativa del mercato tesa alla svalutazione delle azioni di risparmio da esso detenute. A seguito del netto rigetto delle pretese attoree espresso dal Tribunale adito, Tizio impugnava la pronuncia dinanzi alla Corte di Appello di Venezia, invocando l'uguaglianza dei diritti patrimoniali tra azionisti ordinari, privilegiati e di risparmio e la conseguente necessità di operare una paritaria distribuzione delle azioni da ricevere in cambio da parte dei soci dell'incorporata. Anche i giudici del gravame, tuttavia, rigettavano le istanze attoree sostenendo che non sussistesse alcuna necessità di regolare il rapporto di cambio in modo tale da assoggettare le azioni ordinarie e quelle di risparmio al medesimo trattamento. La Corte riteneva, in sintesi, che all'adozione di un criterio unitario di valutazione ostasse l'indiscutibile “esistenza di diritti particolari di alcune categorie di azioni e, fra esse, delle azioni di risparmio” e che “in presenza di una condizione differenziale del titolo, sarebbe risultato necessario procedere a rettificare la modalità di computo della partecipazione azionaria basata sulla stima del rapporto esistente tra il valore complessivo del patrimonio della società emittente al numero dei titoli in circolazione al fine di valorizzare e riflettere le diversità di diritti di ciascuna categoria di titoli incorporati, giacché alla presenza di diversi titoli incorporati nel titolo consegue un diverso valore intrinseco rispecchiato dal diverso prezzo che l'azione può spuntare sul mercato”.

La pronuncia veniva impugnata per cassazione da Tizio, con ricorso basato su tre motivi.

Le questioni giuridiche e le soluzioni

Con il primo motivo, il ricorrente opponeva la violazione e falsa applicazione dell'art. 2348 c.c. e della L. n. 216 del 1974, art. 14. Rilevava infatti che la sentenza impugnata avrebbe disatteso la prescrizione in base alla quale le azioni dovessero essere di eguale valore, sottolineando in particolare che, pur essendo vero che ad azioni di categorie diverse corrispondano diritti diversi, non potrebbe attribuirsi alle azioni un valore differente, stante la loro ontologica essenza di quote di capitale sociale. Con il secondo motivo denunciava invece la violazione degli artt. 2350, 2247, 2252, 1372 e 1321 c.c.. La sentenza impugnata avrebbe infatti escluso che le azioni di risparmio fossero rappresentative di una quota astratta del capitale sociale, con ciò negando la possibilità di attribuire alle stesse il diritto a una parte proporzionale degli utili netti e del patrimonio netto risultante dalla liquidazione. Il terzo e ultimo motivo lamentava invece la violazione e falsa applicazione dell'art. 2501 ter, n. 3 e dell'art. 2247 c.c.. I tre motivi venivano esaminati dai giudici di legittimità congiuntamente.

In via preliminare, vale ricordare come il legislatore non fornisca una definizione generale di fusione, limitandosi a stabilire positivamente una disciplina di dettaglio in relazione a tale operazione societaria. Aderendo a quanto autorevolmente sostenuto dalla dottrina più “tradizionale” (così, ex multis, Campobasso, Manuale di Diritto Commerciale, Milano, 2017, 362, Santagata, Le fusioni, in Trattato delle Società per azioni, 2004, 47 ss.; Id, La fusione fra società, Napoli, 1964, 68; Cottino, Diritto Commerciale, Vol. I, Padova, 1987, 839; Landolfi, Effetti della fusione sui rapporti giuridici della società incorporate, in Le Soc., 1986, 971 ss.; Ghidini, Società personali, Padova, 1972, 969. Contra, ex multis, Galgano, Trattato di diritto civile Vol. 5, Padova, 2005, 680; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1986, 95) dalla prevalente giurisprudenza (ex multis, Cass. civ., ordinanza 28 febbraio 2020, n. 5547, Cass. civ., 17 settembre 2010, n. 19698, in Foro it., 2011, 481, con osservazioni di Dalfino, nonché in Corr. giur., 2010, 1565 ss., con nota di Meloncelli, La fusione dopo la riforma del diritto societario: natura giuridica e conseguente estinzione della società fusa; Cass. civ., 16 febbraio 2007, n. 3696, in Giust. Civ. Mass., 2007, 2; Cass. civ., 25 gennaio 2006, n. 1413, in Giust. Civ. Mass., 2005, 7/8, Cass. civ., 6 maggio 2005, n. 9432, in Giust. Civ. Mass., 2005, 6, Cass. civ., 18 marzo 2005, n. 5973, in Giust. Civ. Mass., 2005, 4, Cass. civ., 16 gennaio 2004, n. 554, in Riv. dottori comm., 2004, 877; Cass. civ., 7 gennaio 2004, n. 50, in Foro. It.,2004,1451) e dai notai (Magliulo, La fusione delle società, Milano, 2009), la fusione non rappresenterebbe un fenomeno traslativo, ma bensì una successione a titolo universale e comporterebbe pertanto l'estinzione di una società e la conseguente successione (per l'appunto, a titolo universale) del soggetto incorporante (nel caso della fusione per incorporazione) o risultante dalla fusione (nel caso della fusione paritaria) in tutti i rapporti sostanziali e processuali facenti prima capo all'estinto.

La fusione determina pertanto una riduzione ad unum dei patrimoni delle singole società e la confluenza dei rispettivi soci in un'unica struttura organizzativa (Campobasso, op. cit.). Senza indugiare ulteriormente sulla natura giuridica della fusione, si rammenta come l'art. 2501 ter c.c., contenente la disciplina di dettaglio relativa al progetto di fusione, richieda che da quest'ultimo risulti, fra l'altro, “il rapporto di cambio delle azioni o quote [c.d. concambio], nonché l'eventuale conguaglio in denaro”, rappresentando il concambio il numero di azioni o quote della società derivante da un'operazione di fusione, che i soci della società estinta ricevono in cambio della loro partecipazione originaria. Come giustamente osservato dai giudici di legittimità nel provvedimento in commento, in termini generali, il rapporto di cambio dipende dalla discrezionalità tecnica degli amministratori, essendo influenzato non solo da valutazioni di carattere economico, ma anche da fattori diversi. Deve pertanto escludersi che lo stesso sia univocamente desumibile dal rapporto matematico intercorrente tra le unità patrimoniali facenti capo alle due società. La Corte ha avuto più volte modo di sostenere (si veda in tal senso Cass. 21 luglio 2016, n. 15025, in questo portale, con nota di Molgora, Danno risarcibile ai soci in ipotesi di concambio da fusione non congruo, e in Giust. Civ. Mass., 2016) come il rapporto di concambio sia concretamente influenzato da numerosi altri elementi di valutazione patrimoniale (dati, ad esempio, dalla qualità dell'organizzazione, dal prestigio aziendale o dal prezzo di borsa delle azioni), come anche da considerazioni di comune convenienza; il giudicante, in un obiter (si veda la richiamata Cass. civ., 15025/2016), ha infatti riconosciuto la plausibilità di un rapporto di cambio sul quale abbiano inciso fattori diversi dalla pura comparazione di valori economici a seguito di negoziazioni intercorse tra le parti, purché essi siano «esplicitati in modo tale da potersene verificare la ragionevolezza e comunque purché non assumano un “peso” prevalente» ;(Domenichini-Pratelli, Rassegna di giurisprudenza. Fusioni, scissioni e trasformazioni, in Giur. Comm, 2018, 559).

Ciò detto, è da chiedersi se sia possibile attribuire valori differenti alle diverse categorie di azioni emesse dalla società incorporata; se, in altri termini, la discrezionalità di cui godono gli amministratori ricomprenda la possibilità di distinguere la misura della partecipazione che i soci possano vantare in ragione della diversa tipologia dei titoli rappresentativi del patrimonio della società. A tale domanda rispondono i giudici di legittimità nel provvedimento in esame, sostenendo che una diversificazione del valore dei titoli appartenenti a due categorie di azioni trovi piena giustificazione in punto di diritto. Dal momento che l'azione incorpora tanto diritti patrimoniali, quanto diritti di partecipazione alla vita amministrativa della società, è “certamente possibile che il valore dei titoli non sia lo stesso quando gli uni e gli altri diritti risultino, in base al rispettivo statuto normativo, differentemente modulati”. Sebbene non possa dunque escludersi aprioristicamente che le azioni di risparmio della società incorporata “possano presentare il medesimo rapporto di cambio con le azioni ordinarie dell'incorporante, è certo che alla definizione del concambio non possa pervenirsi senza considerare le differenze tra le due categorie di azioni dell'incorporata, pena l'inaccettabile equiparazione, nel trattamento giuridico, di diritti di partecipazione che sono differenti”. In base a quanto sostenuto, gli Ermellini ritengono pertanto corretto ritenere che, ai fini della determinazione del rapporto di cambio in presenza di azioni ordinarie e azioni di risparmio emesse dalla società incorporata, si debba anzitutto procedere alla fissazione della c.d. parità interna, vale a dire alla definizione del rapporto di valore tra le diverse tipologie di titoli emessi dalla società incorporata e, successivamente, alla definizione della c.d. parità esterna e cioè alla stima del concambio tra le azioni ordinarie della società incorporata e le azioni ordinarie della società incorporante e tra le azioni di risparmio dell'incorporata e le azioni ordinarie dell'incorporante.

Conclude pertanto la Corte che debba ritenersi senz'altro ammissibile la diversificazione, in sede di concambio, dei valori delle azioni ordinarie e delle azioni di risparmio dell'incorporata e che gli amministratori potranno “e anzi dovranno” stabilire il rapporto di cambio tenendo in debita considerazione la diversa consistenza dei diritti connaturati alle due categorie di azioni.

La pronuncia della Corte di Appello si sottrae, pertanto, a censura e risulta essersi conformata al seguente principio: “nel caso di fusione per incorporazione, il rapporto di cambio tra azioni di risparmio della società incorporata e azioni ordinarie della società incorporante deve calcolarsi tenendo conto che il valore delle prime non è necessariamente coincidente con quello delle azioni ordinarie della stessa incorporata, giacché il valore delle azioni di risparmio, che può essere desunto dalle quotazioni di mercato dei titoli, è funzione dei diritti, non solo di natura patrimoniale, ma anche di natura amministrativa, conferiti dalle azioni in questione”.

Osservazioni

La soluzione fornita dalla Suprema Corte con il provvedimento in commento risulta del tutto convincente. Giungere ad una diversa conclusione significherebbe infatti, quanto meno, ridurre l'ambito di discrezionalità attribuito agli amministratori nella determinazione del rapporto di concambio e non riconoscere la (possibile) diversa consistenza dei diritti connaturati ad azioni di differente categoria. È inoltre fatto notorio che, sebbene l'art. 2348 c.c., comma 1, stabilisca che le azioni debbano essere di uguale valore e che esse conferiscono ai loro possessori uguali diritti, è lo stesso articolo, al terzo comma, ad ammettere che le azioni possano attribuire diritti diversi ai loro portatori. La norma in parola pertanto, nel prevedere una declinazione del principio di eguaglianza all'interno della medesima categoria di azioni, finisce per attribuire al principio stesso una valenza relativa e ben diversa da quella che parrebbe esprimere al primo comma. In ultimo, sostenuto in precedenza come il valore delle azioni dipenda da un apprezzamento che ricomprende tutti i diritti che in esse si conferiscono (trattandosi non solo di diritti di natura patrimoniale ex art. 2350 c.c., ma anche di diritti inerenti l'amministrazione della società, quale il diritto di voto di cui all'art. 2351 c.c.) è condivisibile la giustificazione che la Corte fornisce alla diversificazione del valore dei titoli appartenenti a due differenti categorie. Dal momento che l'azione è idonea ad incorporare tanto diritti patrimoniali quanto diritti amministrativi, è ben possibile che il valore dei titoli non sia lo stesso quando gli uni o gli altri risultino – in base al rispettivo statuto normativo – differentemente modulati.

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