La corretta presunzione del danno morale «standard» da menomazione biologica: la cassazione ultima è in errore

Marco Bona
13 Luglio 2020

In questo contributo, in critica a recenti interventi 2019/2020 della giurisprudenza di legittimità (lungi dall'essere univoci e privi di contraddizioni), si affronta la questione della prova presuntiva del danno morale «standard» nei casi di lesioni personali, dimostrandosi, anche in considerazione di precedenti della stessa Cassazione e di contributi dottrinali, come tale impostazione probatoria sia giuridicamente fondata, oltre che normativamente confermata. Si rileva anche la correttezza della liquidazione del danno morale di base in una frazione del quantum del danno biologico. Muovendo da tali basi si perviene a giudicare positivamente le «tabelle milanesi», fra l'altro compatibili con il «decalogo Travaglino-Rossetti».
La questione della prova presuntiva del danno morale «standard» nei casi di danni alla persona nello scenario della distinzione tra sofferenza biologica e sofferenza morale

Nella giurisprudenza di legittimità dell'ultimo periodo la distinzione tra «sofferenze biologiche» e «sofferenze morali» è tornata definitivamente in auge ed a risplendere (cfr. ex plurimis i seguenti precedenti: Cass. civ., Sez. III, 4 febbraio 2020, n. 2464; Cass. civ., Sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2788; Cass. civ., Sez. III, 17 gennaio 2018, n. 901; Cass. civ., Sez. III, ord. 27 marzo 2018, n. 7513; Cass. civ., Sez. III, 14 novembre 2017, n. 26805; Cass. civ., Sez. III, 31 ottobre 2017, n. 25817). Anche il «San Martino 2019» si è posto in questa precisa direzione (cfr., in particolare, Cass. civ., Sez. III, 11 novembre 2019, n. 28989).

Nello specifico, in base a questi approdi, fenomenologicamente inoppugnabili, è fondato ed occorre distinguere tra, da un lato, la «sofferenza psicofisica» (o «sofferenza biologica», oppure «sofferenza menomazione-correlata»), che si riferisce a plurimi tipi di dolori comportanti effetti invalidanti medicolegalmente apprezzabili ed accertabili (il «dolore nocicettivo», prodotto dall'attivazione diretta dei recettori della nocicezione; il «dolore neuropatico», causato dall'interessamento del sistema nervoso centrale e/o periferico; il «dolore psichico», attivato da situazioni psico-relazionali; il «dolore misto», tale da annoverare la presenza di più o tutte le componenti precedenti), e, dall'altro lato, la «sofferenza morale» (o «patema d'animo» o «sofferenza interiore»), categoria fenomenologicamente variegata e complessa, inclusiva di tutti i risvolti negativi dell'evento dannoso apprezzabili in relazione alla sfera del πάθος, cioè la «sfera dell'intimo sentire» (così ex multis Cass. civ., Sez. III, ord., 25 febbraio 2008, n. 4712).

Al centro di questa seconda categoria, per giurisprudenza costante e come pure sottolineato dagli ultimi interventi della Suprema corte, si pone l'aspetto interiore e più intimo del danno non patrimoniale, ossia la sofferenza morale in tutti i suoi aspetti, non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente o dei giorni di invalidità temporanea. Per esempio - l'elenco, come puntualizzato dalla stessa Cassazione, non è esaustivo - tra questi sovvengono il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione, spaventi, angosce, timori e prove della vita, il rimorso, la malinconia, la tristezza, stress, fastidi, frustrazioni, prostrazioni, disagi, dispiaceri, imbarazzi, sentimenti di «rabbia» o di «revanchismo», ed altre innumerevoli emozioni negative (sui contenuti del «danno morale» cfr. amplius M. Bona, Importanti precisazioni per lo statuto del danno non patrimoniale: sfera morale, personalizzazioni, rischi di recidive e congiunti del sopravvissuto, I Parte, in Resp. Civ. Prev., 2019, n. 5, 1716-1731).

Come ribadito ancora da ultimo, per «sofferenza interiore» s'intende il «moto d'animo, manifestazione emotiva che può o meno accompagnarsi alla lesione della salute e che non assume rilevanza clinica prescindendo pertanto da qualsiasi verifica oggettiva secondo i criteri della medicina legale» (Cass. civ., Sez. III, Ord., 26 maggio 2020, n. 9865).

Peraltro, proprio in quest'ultima ordinanza la Suprema corte, intervenuta con riferimento specifico all'art. 139 Cod. Ass. , ha condivisibilmente puntualizzato che «l'accertamento e la liquidazione del danno morale (sofferenza interiore) non deve essere confuso con il differente criterio di “personalizzazione” del danno biologico», quest'ultima ipotesi ricorrendo «esclusivamente nel caso in cui il criterio tabellare di valutazione del danno biologico - destinato alla riparazione delle conseguenze “ordinarie” inerenti ai pregiudizi che qualunque vittima di lesioni analoghe normalmente subirebbe - non appare esaustivo a compensare idoneamente la perdita della capacità dinamico-relazionale»; in breve, la «personalizzazione» del danno biologico è «del tutto estranea all'autonoma voce di danno inerente la sofferenza interiore (danno morale)» (sicché non può che trarsi come la percentuale di incremento del 20%, di cui al comma 3 dell'art. 139 Cod. Ass., non riguardi il danno morale, ciò sia con riferimento a tale norma nella sua versione precedente alla legge n. 127/2017 atteso ivi l'espresso riferimento al «danno biologico», sia in relazione alla sua nuova formulazione dato che sì non compare più l'aggettivo «biologico», ma, oltre al rinvio dal comma 1 a valori tabellari storicamente stabiliti per il solo «danno biologico», si ha che l'aumento del quinto abbia esplicitamente ad oggetto «specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati» ovvero, sempre a livello di sfera biologica, «una sofferenza psico-fisica di particolare intensità»). Questa ordinanza, invero, si pone in piena conformità con la restaurata distinzione tra danno morale e danno biologico (risulta così pure superato l'infelice ed isolato precedente Cass. civ., Sez. III, 27 maggio 2019, n. 14364, che, in un caso di rilevanti menomazioni psicofisiche, aveva sostenuto che le «modalità di liquidazione» del danno morale si sarebbero identificate nella «personalizzazione» del danno biologico, con la conseguenza che per il riconoscimento del danno da sofferenza interna nella misura del 30% del danno biologico, come operata dai giudici del merito peraltro in misura ridotta rispetto ai criteri usuali, sarebbe stata necessaria l'«individuazione di circostanze specifiche ulteriori rispetto a quelle “ordinarie”», richiesta evidentemente assurda ai fini del risarcimento del danno morale «standard» da lesioni personali).

Deve aggiungersi come la giurisprudenza ultima, sempre valorizzando la distinzione tra danno biologico e danno morale, abbia pure ribadito come attraverso quest'ultima categoria il giudice possa attribuire rilievo a particolari aspetti dell'elemento soggettivo della condotta tali da aggravare la sofferenza interna del danneggiato (il c.d. «danno morale aggravato dalla condotta»). In particolare, si può menzionare fra le ultime pronunce Cass. civ., sez. III, 13 dicembre 2019, n. 32787, per la quale i limiti massimi tabellari, di cui alle «tabelle milanesi», possono anche essere superati «quando la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro tabellare non possa aver già tenuto conto», situazione che può verificarsi, ad esempio, quando l'illecito sia stato commesso con dolo («la Corte di merito non ha considerato se il fatto illecito violento, di natura dolosa, da cui è derivata la lesione della persona, meriti una particolare e separata valutazione in termini di danno morale, e la fattispecie dunque integri le ipotesi particolari che giustificano, in ipotesi, anche uno sconfinamento dai parametri ordinari»).

Dunque, risulta essere stata archiviata in modo netto dalla Cassazione la doctrine della c.d. «reductio ad unum», supportata dalle sentenze delle Sezioni Unite del «San Martino 2008», per le quali giustappunto il danno biologico avrebbe dovuto «fagocitare» il danno morale. Altresì sconfessata risulta la pessima pronuncia Corte cost. n. 235/2014, che, per l'appunto, a sua volta, per quanto qui d'interesse, si era grossolanamente confusa fra, da un lato, la sofferenza interiore/danno morale (in nessun modo sussumibile sotto il danno biologico medicolegalmente accertabile e, quindi, neppure sotto l'angusto margine del 20% previsto per la sua personalizzazione) e, dall'altro lato, la sofferenza psicofisica/biologica medicolegalmente accertabile.

Ciò premesso, la questione, che continua ad insistere sul tavolo degli interpreti, è se in questo rinnovato scenario bipartito possa continuare a trovare spazio la tradizionale presunzione del danno morale «standard» da lesione psicofisica, ossia, più specificatamente, quella quota di «dolore morale» di base presunta nella canonica spannometrica misura tra ¼ ed ½ del danno biologico «standard» che contraddistingueva il sistema di liquidazione precedente il «San Martino 2008» ed è stato poi ripreso e consolidato, proprio onde scongiurare ricadute negative per i danneggiati a seguito della reductio dell'11 novembre 2008, in seno alle nelle «tabelle milanesi» post SS.UU. 11 novembre 2018.

La giurisprudenza di legittimità ultima: alcune rilevanti incoerenze

La Cassazione ultima, anche nei pronunciamenti più recenti innanzi citati, ha ribadito, come già reiteratamente nel passato e pur con talune eccezioni (cfr., per esempio, Cass. civ., Sez. III, 14 novembre 2019, n. 29495), il concetto per cui in linea di principio, diversamente da quanto si verifica per una parte del quantum del danno biologico, per la liquidazione del danno da «sofferenza interiore» nessun «automatismo risarcitorio» sarebbe predicabile.

Muovendo da questa statuizione (in parte condivisibile laddove essa sia intesa nel senso di esigere la considerazione, da parte del magistrato, delle singole circostanze del caso concreto e, quindi, pure la personalizzazione del danno morale dinanzi a scenari particolari), alcuni interpreti e taluni giudici di legittimità si sono sospinti a sostenere che, dunque, sarebbe altresì sempre richiesta una «prova specifica» per il riconoscimento del danno in questione, pena la configurazione di un inammissibile «danno evento» o «danno in re ipsa».

Emblematica al riguardo è la già richiamata ordinanza Cass. civ. Sez. III, 26 maggio 2020, n. 9865, per la quale il danno morale «non può […] essere oggetto di risarcimento quale voce accessoria del danno biologico quantificabile mediante “automatico” incremento percentuale del punto di invalidità biologica o del corrispondente valore monetario, dovendo invece rispondere a criteri di valutazione del tutto autonomi, occorrendo il previo accertamento dell'an e la esplicazione degli indici utilizzati per la quantificazione del danno» (su questa stentorea base la Cassazione ha ritenuto infondata la doglianza mossa da un danneggiato - il quale aveva riportato un danno biologico permanente da trauma distorsivo del rachide cervicale e dorsale stimato dal CTU nella misura del 2-3% con dolore fisico di grado lieve - avverso la decisione del Tribunale di Bologna di escludere la risarcibilità del danno morale, in quanto tale voce avrebbe dovuto essere specificamente provata nell'an prima ancora che nel quantum e che, in mancanza di tale puntuale prova, non era consentito alcun automatismo tra riconoscimento della invalidità biologica e riconoscimento della sofferenza morale).

Fermo restando che dovrebbe essere del tutto scontata la differenza intercorrente tra, da un lato, il «danno presunto» e, dall'altro lato, il «danno evento» (ovvietà che, invece, non pare così chiara agli interpreti in questione), l'orientamento giurisprudenziale in disamina - comunque talvolta disatteso dalla stessa Suprema corte in precedenti coevi (cfr., per esempio, Cass. civ., Sez. VI-3, ord., 17 settembre 2019, n. 23146) - appare innanzitutto incoerente, ciò sotto almeno tre profili.

In primo luogo, da un lato la Cassazione interviene con risposte tranchant stile quella fornita dalla predetta ordinanza Cass. civ. n. 9865/2020 (laddove la Suprema corte mostra di esigere una non meglio specificata prova «concreta» del pregiudizio morale da menomazione biologica; cfr., altresì, in questo senso Cass. civ., Sez. III, ord., 28 febbraio 2020, n. 5627); dall'altro lato, al contempo essa sottolinea che, pur rendendosi necessaria una «rigorosa valutazione, sul piano della prova, […] dell'aspetto interiore del danno» (così Cass. civ., Sez. III, 17 gennaio 2018, n. 901), questa prova può senz'altro risolversi - com'è logico che sia - sulla base del notorio, di massime di esperienza e di presunzioni (così, oltre a Cass. civ.n. 901/2018, anche Cass. civ., Sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2788; questa puntualizzazione, peraltro, si pone in linea con quanto statuito dalle Sezioni Unite dell'11 novembre 2008 in ordine al ricorso alle presunzioni per la dimostrazione dei pregiudizi non patrimoniali non accertabili a livello medico legale: «attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri», Cass. civ., Sez. Un. civ., 11 novembre 2008, n. 26972).

In secondo luogo, non può non notarsi come questa stessa giurisprudenza di legittimità abbia costantemente ritenuto fondate, al punto da elevarle a paradigma nazionale a partire dal 2011, le «tabelle milanesi» nella versione rivista nel 2009.

Queste tabelle, come già si ricordava innanzi e si approfondirà oltre al § 4, per l'appunto contemplano ed individuano in via presuntiva, all'interno della pur unitaria categoria del danno non patrimoniale, una quota monetaria ad hoc per il tradizionale danno morale (cfr. la «terza colonna» delle tabelle), soluzione che, al lato pratico, ha permesso di preservare, in manifesta reazione alle sentenze del «San Martino 2008», i valori monetari recati dal modello risarcitorio più consolidato, in cui la determinazione del quantum del danno morale da lesioni psicofisiche avveniva per l'appunto nella maggior parte dei casi in una frazione di quanto liquidato a titolo di danno biologico (generalmente, salvi casi particolari, da ¼ ad ½ di quest'ultimo: cfr. la disamina condotta già tempo addietro in M. Bona, Liquidazione del danno morale da lesioni personali, in P.G. Monateri-M. Bona-U. Oliva, Il nuovo danno alla persona. Strumenti attuali per un giusto risarcimento, Milano, 1999, 50-53).

Fra le tante pronunce in questione si confronti, per esempio, Cass. civ., Sez. III, 6 marzo 2014, n. 5243, ove i giudici di legittimità hanno confermato la validità delle «tabelle milanesi» quale paradigma di riferimento a livello nazionale proprio anche in considerazione dell'inclusione del quantum tradizionalmente ascritto in via presuntiva per il risarcimento del danno morale: «le “Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all'integrità psico- fisica” del Tribunale di Milano sono state rielaborate all'esito delle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008. In particolare, esse hanno determinato il valore finale del punto utile al calcolo del danno biologico da invalidità permanente, procedendo ad un aumento dell'originario punto tabellare in modo da includervi la componente già qualificata in termini di “danno morale”, che si usava liquidare separatamente (nei sistemi tabellari antecedenti la pronuncia n. 26972 /08) con operazione che le Sezioni Unite hanno ritenuto non più praticabile. L'affermazione delle Sezioni Unite secondo cui siffatta componente rientra nell'area del danno biologico, del quale, ogni sofferenza fisica o psichica per sua natura intrinseca costituisce componente, non può certo essere intesa nel senso che di essa non si debba (più) tenere conto a fini risarcitori».

Deve, peraltro, rilevarsi l'apprezzamento, da parte della stessa Suprema corte ultima (cfr., per esempio, le sentenze n. 2788/2019, n. 4878/2019 e n. 8755/2019, nonché già Cass. civ., Sez. III, ord. 27 marzo 2018, n. 7513) della nuova formulazione dell'art. 138 Cod. Ass., che, così come riformato dall'art. 1, comma 17, della legge 4 agosto 2017, n. 124Legge annuale per il mercato e la concorrenza»), al nuovo comma 2, lett. e), testualmente, ai fini della redazione delle tabelle monetarie per le invalidità permanenti da 10% a 100%, fissa il criterio per cui, «al fine di considerare la componente del danno morale da lesione dell'integrità fisica, la quota corrispondente al danno biologico è incrementata in via percentuale e progressiva per punto, individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione progressiva della liquidazione».

Tale specificazione, per l'appunto apprezzata dalla stessa Suprema Corte, conferma l'impostazione retta sulla presunzione di una quota di base del danno morale, per l'appunto oggetto di tabellazione e, dunque, di liquidazione sistematica (salvi, in tutta evidenza, casi del tutto eccezionali).

Pertanto, proprio anche in considerazione dell'entusiasmo dimostrato dalla Cassazione per il «nuovo» art. 138 Cod. Ass. il diniego operato dalla giurisprudenza di legittimità in disamina appare decisamente contraddittorio, confutato dalle pronunce stesse che la sostanziano.

Incoerenze a parte, sta di fatto che è fenomenologicamente infondata la tesi per cui non sarebbe possibile assumere come «normale» nei casi di danni all'integrità psicofisica la ricorrenza di una quota «standard» di danno morale, pertanto risarcibile in via presuntiva.

Questo punto merita di essere approfondito.

Perché è giusto e fondato riconoscere presuntivamente un danno morale «standard» da menomazione biologica

È innanzitutto da rammentare come la stessa autorevole dottrina, che poi ha direttamente contribuito alla stesura dell'ormai celebre «decalogo Travaglino-Rossetti», già in tempi non sospetti osservava con estremo buon senso, in relazione alla «prassi processuale» per cui il danno morale si presumeva sempre e non si accertava mai, come ciò fosse «ovvio ed anzi necessario», «sia perché non è agevole provare l'intensità del dolore altrimenti che per presunzioni (exart. 2727 c.c., muovendo dall'entità delle lesioni); sia perché non è di norma sostenibile che da una lesione dell'integrità psichica o fisica dell'individuo non derivi almeno una sensazione di dolore, e quindi un danno morale» (M. Rossetti, Il danno da lesione della salute, Padova, 2001, 1114).

Questa inequivocabile impostazione dottrinale, che avvalla il riconoscimento in via presuntiva di una quota di base, stabilita ed allocata in via presuntiva, del danno morale da lesione personale, trova indiscutibilmente conferma innanzitutto a livello normativo.

Infatti, essa non solo trova indiscutibile supporto nella predetta nuova formulazione dell'art. 138 Cod. Ass., che, dunque, la legittima (cfr. § 2), ma anche nel già noto d.P.R. 3 marzo 2009, n. 37Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all'estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma dell'articolo 2, commi 78 e 79, della legge 24 dicembre 2007, n. 244»), che, al comma 1, lett. b) ed c), dell'art. 5 («Criteri per la determinazione dell'invalidità permanente»), non solo mantiene salda la distinzione tra danno biologico e danno morale, ma, positivamente sostanziando questa categoria con la «sofferenza» ed il «turbamento dello stato d'animo, oltre che [con la] lesione alla dignità della persona», per la sua determinazione giustappunto assume il criterio della parametrazione rapportata all'entità del danno biologico, «in una misura fino a un massimo di due terzi del valore percentuale del danno biologico».

Al di là dell'imprimatur legislativo (invero, non sempre di per sé affidabile), l'impostazione in questione denota, comunque, una sua più che fondata logica giustificatrice sia in relazione alla prova dell'esistenza del danno morale «minimo» da danno alla persona, sia con riferimento al c.d. «criterio della proporzionalità».

Segue. La prova presuntiva dell'esistenza di un danno morale «standard» da lesione personale

In primo luogo, in ordine al fatto che si possa ritenere in via presuntiva l'esistenza di un pregiudizio morale «standard» (o «minimo») da lesioni personali non corrisponde affatto al vero, come ancora da ultimo lasciato intendere da taluna dottrina (Cfr. M. Franzoni, Il nuovo “danno morale”, ex art. 138 cod. ass., impone una modifica delle tabelle milanesi?, in www.ridare.it, 24 luglio 2019, § 2.), che ilriconoscimento, in tutti i casi di danni di menomazioni psicofisiche, di una quota di danno morale condurrebbe a risarcire pregiudizi inesistenti od indimostrati, pertanto risolvendosi in un autentico «automatismo risarcitorio» oppure in un danno evento od un danno in re ipsa.

Infatti, al contrario costituisce un'applicazione del tutto corretta ed ineccepibile sia della prova presuntiva (praesumptiones hominis) che del principio probatorio retto sul fatto notorio (art. 115, comma 2, c.p.c.) assumere che ad ogni menomazione, quand'anche soltanto micropermanente, si affianchi sempre un danno morale, cioè il ritenere che la violazione della salute sia inesorabilmente, casi eccezionali a parte, fonte di perturbamenti interni e non lasci «indifferente», sul piano emozionale, il danneggiato, né in relazione alla sua invalidità temporanea, né con riguardo per la sua invalidità permanente che costantemente si presenterà nella sua vita quotidiana in termini di disagi, impedimenti, risentimenti, ecc..

Del resto, anche a voler ipotizzare che vi siano persone del tutto insensibili, nel loro intimo, per la compromissione illecita del proprio corpo o della propria mente, rimarrebbe che, per quanto consta, l'indifferenza interiore per le menomazioni biologiche ingiustamente subite non appartiene affatto all'uomo comune e, quindi, oltre ad essere controeccepita, andrebbe altresì dimostrata da chi sostiene di trovarsi dinanzi ad una persona tanto eccezionale da esulare completamente dalla norma. In breve, assumendo a riferimento la «sensibilità dell'uomo medio» (ove per sensibilità s'intende qui genericamente la «capacità di offendersi e soffrire internamente per il danno subito»), si può certamente desumere in via presuntiva, quale costante conseguenza di una menomazione psicofisica, una sofferenza interna del danneggiato, ciò per l'appunto salvo casi del tutto eccezionali (per esempio, come già rilevava Cass. civ., 4 luglio 1962, n. 1687, in Resp. civ. prev., 1962, 632, in una vicenda evidentemente straordinaria, «il giudice può tenere conto di un parziale ottundimento dell'animo, a causa di una sofferenza più ampia, pregressa e tuttora in atto che possa aver reso l'animo stesso meno sensibile a fatti che ad altri apporterebbero di per sé gravi ferite»).

D'altro canto, anche attesa la nota e talvolta eccessiva riluttanza all'amissione di prove testimoniali in materia (sistematicamente e superficialmente inquadrate e, pertanto, liquidate come «valutative»), la dimostrazione della sofferenza morale, cioè delle conseguenze che «si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con se stesso» (così Cass. civ., Sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2788), non può che poggiarsi sulla dimostrazione del dato oggettivo della ricorrenza di una violazione di un bene personale (nel caso in disamina la lesione dell'integrità psicofisica) astrattamente idonea, secondo il criterio dell'id quod plerumque accidit e, sul piano causale, del «più probabile che non», a provocare riflessi negativi nella sfera intima della persona così vulnerata.

La richiesta di una prova diversa da quella presuntiva si risolverebbe di fatto nell'imposizione, contraria al dato normativo (art. 2729 c.c. e art. 115, comma 2, c.p.c.) di una probatio diabolica, prova tanto più impossibile in un sistema processuale civile come quello nostrano che, diversamente da altri ordinamenti, silenzia del tutto i danneggiati (cioè rende per lo più irrilevante quanto dichiarato dai diretti interessati in ordine ai propri pregiudizi) e costringe i testi, quando ammessi, a sterili dichiarazioni.

A ben osservare, in questo esatto senso, cioè a favore di una prova del danno morale da lesione personale ancorata alla dimostrazione stessa della menomazione della salute, si è posta pure, al di là della declamazione della necessità di una prova della sofferenza morale, la stessa Suprema corte (Cass. civ., Sez. VI - 3, ord., 17 settembre 2019, n. 23146) in una recente ordinanza purtroppo passata in sordina, ma decisamente rilevante, intervenuta in merito al ricorso avanzato da un danneggiato in un sinistro stradale, il quale si doleva del fatto che la corte territoriale gli aveva negato il risarcimento del danno morale, adducendo, a supporto di tale diniego, un difetto di prova nonostante il deposito di documentazione clinica attestante le lesioni patite (certificato di pronto soccorso attestante la frattura della rotula sx, la frattura del piede sx, una ferita lacerocontusa suturata con punti e contusioni multiple, e cartella clinica attestante, tra l'altro, anche la somministrazione di potente antidolorifico) e, pertanto, non avendo considerato, secondo le nozioni di comune esperienza ed in base all'id quod plerumque accidit, la sofferenza morale insita in tali lesioni personali.

Orbene, in questa interessante ordinanza la Cassazione ha ritenuto tale ricorso del tutto fondato: «La Corte, pur esattamente ritenendo che anche il danno morale soggettivo patito in conseguenza di lesioni personali deve essere allegato e provato, non ha fatto corretto uso dei paradigmi normativi in tema di presunzioni, non facendo discendere dal fatto noto indicato (frattura rotula sx e piede sx ed uso di potente antidolorifico) la necessaria conseguenza in termini di sofferenza morale e non valutando quindi che la situazione nell'immediatezza evidenziava una sofferenza a carico del ricorrente».

Tuttavia, proprio quest'ultima ordinanza così come ancora di più altri meno felici interventi della Cassazione (cfr., per esempio, Cass. civ., Sez. III, 13 gennaio 2016, n. 339, in cui sì si è affermato che «in linea di principio neanche con riguardo alle lesioni di lieve entità si può escludere il c.d. danno morale dal novero delle lesioni meritevoli di tutela risarcitoria» e che anche in tali casi opera la prova per presunzioni, ma al contempo è stato pure cripticamente rilevato che «nel caso di lesioni minori (micropermanenti)[…] non sempre vi è un ulteriore danno in termini di sofferenza da ristorare»; cfr., altresì, Cass. civ., Sez. VI-3, ord., 11 febbraio 2020, n. 3140) possono fare scattare alcuni ulteriori quesiti.

Sussiste una soglia minima di menomazione psicofisica sotto la quale è possibile escludere presuntivamente la ricorrenza di un danno morale? S'impone la prova (evidentemente affidata al vaglio medico-legale) di una concomitante sofferenza psicofisica per il riconoscimento della sofferenza morale?

A parte il fatto che anche una «banale» distorsione del rachide cervicale comporta «sofferenze psicofisiche» (per esempio, dolori cervicali, problemi di rigidità, cefalee, ecc.) e, comunque, il «dolore fisico», nella forma «lieve», sussiste anche in relazione ad eventi traumatici di entità molto modesta pure in assenza di terapie analgesiche (cfr. al riguardo, a livello medico-legale, E. Pedoja e F. Pravato, Il danno da sofferenza psicofisica intrinseca, in La sofferenza “psicofisica” nel danno alla persona, Santarcangelo di Romagna, 2013, 39), è di tutta evidenza come, con riferimento ad una persona che preservi dopo il sinistro una sua «sensibilità morale/emozionale», non ricorra una soglia di menomazione biologica sotto la quale il danno morale non sarebbe presumibile. Anche una lesione biologica minima (ad esempio, una piccola ferita cutanea inferta tramite una condotta illecita) è tale da suscitare una reazione emotiva avversa (un sentimento di frustrazione, di offesa subita, di dignità lesa).

Dunque, che senso ha richiedere per la liquidazione del danno morale «minimo» una prova diversa da quella presuntiva in relazione ai casi di lesioni «minori»? In tutta evidenza tale richiesta non ha senso alcuno: per questa via, in realtà, si esige una prova impossibile o, comunque, si pretende di attribuire al danneggiato, in via presuntiva (via percorsa inversamente a ciò che comprova la normalità delle persone), una situazione di «insensibilità morale» od emozionale, situazione che, peraltro, non si può attribuire neppure per presunzione ai soggetti alessitimici, ossia agli individui che sono incapaci di manifestare e rappresentare i propri sentimenti.

Peraltro, al di là della dimostrazione dell'invalidità temporanea e/o permanente prodotta dall'illecito o dall'inadempimento, quale altra prova può addursi per comprovare il perturbamento dell'animo da vulnus alla propria salute inteso innanzitutto nei termini di «torto morale»? (per tale contenuto centrale del danno morale cfr. già G. Cesareo Consolo, Trattato sul risarcimento del danno in materia di delitti e quasi delitti, 2° ed., Torino, 1914, 223, il quale sottolineava che «le due espressioni danno morale, offesa morale si equivalgono», op. cit., 231).

Non può, pertanto, condividersi - innanzitutto sul piano giuridico - quella giurisprudenza (cfr., per esempio, Cass. civ., Sez. VI-3, ord., 11 febbraio 2020, n. 3140), che sin troppo superficialmente, senza neppure interrogarsi sugli effettivi contenuti della prova richiesta, evoca la «necessità che anche il danno morale sia oggetto di specifica allegazione e prova da parte del soggetto che ha azionato la pretesa risarcitoria» in relazione ad un'invalidità permanente ammontante ad un «solo» 1%, così ritenendo fondata la decisione della corte di merito che aveva negato la liquidazione del danno morale in ragione del fatto che l'attrice non avesse allegato e comprovato, a fronte di tale invalidità, «peculiari profili di incidenza delle lesioni sulla “serenità morale”». Dinanzi a sentenze di questo tipo sorge spontanea la seguente domanda: che cosa avrebbe dovuto dimostrare il danneggiato e, soprattutto, con quali mezzi istruttori? Perché questa giurisprudenza non offre risposte a questo semplice quesito e nulla specifica sulla prova richiesta alla vittima?

Questa giurisprudenza, invero, maschera, forse del tutto inconsapevolmente, un'autentica arbitraria tagliola sui risarcimenti attuata (peraltro per poche centinaia di euro) attraverso la richiesta di una prova «specifica» del tutto inesigibile e, come si osservava, contraria alla presunzione operante in materia, per la quale ad una menomazione dell'integrità psicofisica si associa normalmente un'offesa morale.

In tutta evidenza il danno morale connesso ad 1% di invalidità permanente sarà altrettanto modesto, ma questo rilievo attiene ad un altro piano, quello del quantum.

Infatti, logicamente non va confusa la questione, sin qui affrontata, della prova dell'esistenza del danno morale «standard» con il problema della prova del quantum dei pregiudizi morali di base, della quale si verrà ora a riferire.

Segue. La prova presuntiva del quantum del danno morale «standard» da menomazione psicofisica

È fondato sostenere che l'entità del danno morale di base da menomazioni psicofisiche sia rapportabile in via presuntiva alla gravità della menomazione? E se sì, è corretto assumere, sempre presuntivamente, la misura «standard» compresa tra 1/5 e la metà del quantum del danno biologico?

Qui viene in considerazione il c.d. «criterio della proporzionalità», peraltro, come innanzi si osservava, avvallato dal legislatore (cfr. art. 138, comma 2, lett. e), Cod. Ass.; art. 5, comma 1, lett. c), d.P.R. 3 marzo 2009, n. 37) e strutturalmente alla base dei valori monetari di cui alle «tabelle milanesi», che nel 2009 non hanno fatto altro che recepire, pur con un'ulteriore livello di standardizzazione, l'esperienza da tempo consolidata a livello di prassi giurisprudenziale (cfr. le osservazioni empiriche condotte sulla giurisprudenza degli anni ottanta alle prese con le prime esperienze sul danno biologico da P.G. Monateri e A. Bellero, Il “quantum” nel danno alla persona, 2° ed., Milano, 1989, 145, ove già si dava atto del fatto che la «indagine empirica ha mostrato come le decisioni delle corti finiscano per convergere verso dei valori standard del punto di i.p. misurato in termini di indennizzo del danno morale. Perciò la valutazione media del danno morale segue effettivamente l'andamento del tasso di i.p., a maggiore invalidità permanente, corrisponde una maggiore assegnazione monetaria, e viceversa»).

Orbene, la parametrazione del danno morale «standard» sul quantum del danno biologico e, più specificatamente, in proporzione alla gravità dell'invalidità, così come anche perorata dal legislatore, è presuntivamente corretta: difatti, il giudice, il quale cum grano salis in via presuntiva rapporti la base monetaria per la liquidazione del pregiudizio morale al quantum individuato per il danno biologico, non incorre in un automatismo, bensì procede ad una razionale applicazione della regola di comune esperienza per cui i «dolori dell'animo» sono generalmente tanto più gravi quanto più è seria ed impattante la menomazione biologica (razionale presunzione già caldeggiata da P.G. Monateri e A. Bellero, op. cit., 144-145).

Infatti, nel contesto di una liquidazione necessariamente da operarsi in via equitativa e convenzionale, ben si può presumere – sia per ragioni di uniformità di trattamento, sia per esigenze di prevedibilità del quantum e sia per una condivisibile semplificazione – che la violazione della dignità/sensibilità morale (con annessi e connessi) sia tanto maggiore quanto più grave risulti la lesione dell'integrità psicofisica.

Fu la stessa Suprema corte (Cass. civ., Sez. III, 9 gennaio 1998, n. 134) a sottolineare come per l'appunto tale modello liquidativo risulti «ispirato alle stesse esigenze che giustificano la liquidazione del danno alla salute in base al sistema cosiddetto del “valore di punto differenziato” (e crescente in relazione all'aumentare del grado di invalidità), il quale è svolto proprio ad evitare che la valutazione inevitabilmente equitativa del danno non patrimoniale assuma connotazioni ogni volta diverse, imprevedibili, suscettibili di apparire arbitrarie anche in ragione della insopprimibile difficoltà di offrire appaganti e controllabili ragioni giustificative di una determinazione quantitativa che ha funzione meramente surrogante e compensativi a delle sofferenze indotte dal fatto lesivo costituente reato» (cfr., in seguito, nella medesima direzione: Cass. civ., Sez. III, 10 maggio 2011, n. 10207; Cass civ., Sez. III, 9 marzo 2011, n. 5540; Cass. civ., Sez. III, 15 luglio 2009, n. 16448; in dottrina a supporto del «criterio della proporzionalità» cfr. ex plurimis: P. Ziviz, La tutela risarcitoria della persona, Milano, 1999, 203; G. Cricenti, Il danno non patrimoniale, Padova, 1999, 373; M. Rossetti, Il danno da lesione della salute, cit., 1114).

Con il che si giustifica anche la convenzione per cui mediamente il quantum monetario del danno morale di base corrisponde ad una frazione del quantum del danno biologico temporaneo e permanente. Certamente per questa via si attribuisce di fatto un maggiore valore risarcitorio alla lesione della salute rispetto al quantum ascritto per la violazione della personalità e della sfera interna, il che, però, at the end of the day sembra corrispondere all'idea, sponsorizzata anche a livello filosofico, per cui «la salute non è tutto, ma senza salute tutto è niente» (Arthur Schopenhauer).

Questa impostazione appare ispirata alla buona logica, pragmatica, efficiente; del resto, non ha senso lamentare da un lato l'imprevedibilità delle liquidazioni e dall'altro lato contrastare il criterio illustrato, bollandolo come pigro automatismo della magistratura di merito.

Può qui soltanto aggiungersi come la stessa Suprema corte (Cass. civ., Sez. III, 14 novembre 2019, n. 29495), a dimostrazione che la giurisprudenza di legittimità ultima è lungi dall'essere avversa al modello sin qui perorato, abbia ammesso che «i parametri medico-legali che vengono utilizzati per determinare il quantum del danno biologico - sia in riferimento alle conseguenze temporanee della lesione psico-fisica, sia in riferimento alle conseguenze permanenti - non possono non incidere anche sul quantum del danno “morale” nel senso di sofferenza direttamente correlata alla lesione psico-fisica della stessa persona, pur trattandosi formalmente, a ben guardare, di un pregiudizio ontologicamente diverso».

Ciò rilevato, invero la Cassazione ha ragione ad evocare lo spettro degli automatismi, ma soltanto allorquando le peculiarità del caso richiedano al magistrato di adattare il quantum offerto da questo modello di base oppure finanche di accantonarlo. Senz'altro, come già si osservava in dottrina (P.G. Monateri e A. Bellero, Il “quantum” nel danno alla persona, 2° ed., cit., 144) non ogni tipo di invalidità permanente incide a livello di sofferenza morale allo stesso modo sui consociati, ma è del tutto evidente come, una volta posta la presunzione in questione, si possa e si debba poi scendere in ulteriori «considerazioni qualitative, che le elaborazioni matematiche delle decisioni giudiziali […] non sono in grado di tenere in considerazione» (così già P.G. Monateri e A. Bellero, op. cit., 144).

Insomma, è chiaro che la presunzione, per cui il danno morale da lesione personale ammonta ad una frazione del quantum del danno biologico, costituisce un punto (rectius, uno spunto) di partenza per la liquidazione di tale danno non patrimoniale, non già un invalicabile limite. In altri termini, restano fermi i necessari adeguamenti di questa logica «standard» a ciascun caso concreto (esigenza costantemente e correttamente affermata dalla Cassazione già prima degli ultimi pronunciamenti e delle Sezioni Unite di «San Martino 2008»), con evidente possibilità di adottare anche delle differenti proporzioni oppure dei criteri diversi (si pensi, ad esempio, alla ragazza violentata, ove il danno morale può ben risultare di gran lunga superiore al danno biologico).

Anzi, sottolineandosi qui il rischio, in taluni casi, di una «svalutazione» del danno morale (rischio certamente concretizzatosi nella prassi ben più dell'eventualità di liquidazioni di pregiudizi inesistenti), non può non evidenziarsi anche in questa sede la necessità di superare una visione eccessivamente biologicocentrica del quantum del danno non patrimoniale da menomazione psicofisica: se per le predette ragioni può presumersi, nei casi di lesioni personali, un danno morale «standard» o «minimo» proporzionato (peraltro in misura inferiore) all'entità del vulnus biologico, è altrettanto scontato come esso vada poi adeguatamente personalizzato, come già ribadito dalla giurisprudenza di legittimità prima delle Sezioni Unite del 2008 (cfr. ex plurimis Cass. civ., Sez. III, 9 novembre 2006, n. 23918, in Corr. giur., 2007, 522, con nota di G. Travaglino: «Nella liquidazione del danno non patrimoniale derivante da fatto illecito, il giudice di merito deve tener conto delle effettive sofferenze patite dall'offeso, della gravità dell'illecito di rilievo penale e di tutti gli elementi della fattispecie, in modo da rendere la somma liquidata adeguata al caso concreto. Il ricorso da parte dei giudici di merito al criterio di determinazione della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno morale in una frazione dell'importo riconosciuto per il risarcimento del danno biologico, è legittimo, purché il giudice abbia tenuto conto delle peculiarità del caso concreto, effettuando la necessaria personalizzazione di detto criterio alla fattispecie e dando atto di non aver applicato i valori tabellari con mero automatismo»).

In definitiva, come pure insegna la giurisprudenza di legittimità ora citata, è nella fase della personalizzazione che si può ed occorre correggere il tiro rispetto agli automatismi tabellari, financo sganciando la liquidazione finale del danno morale da qualsiasi lacciuolo.

Nondimeno, anche in sede di personalizzazione del quantum dei pregiudizi morali è possibile mantenere una certa qual prevedibilità delle decisioni, per esempio, fatte salve tutte le eccezioni del caso, calcolandosi la quota dell'incremento del danno morale in una frazione di quanto ascritto per l'incremento riconosciuto a titolo di pregiudizi relazioni-dinamici «peculiari».

Dopo il «decalogo Travaglino-Rossetti» e l'ultima giurisprudenza in punto prova del danno morale «standard» occorre modificare le «tabelle milanesi»?

Senza dubbio, come si osservava innanzi, il modello presuntivo È fondato sostenere che l'entità del danno morale di base da menomazioni psicofisiche sia rapportabile in via presuntiva alla gravità della menomazione? E se sì, è corretto assumere, sempre presuntivamente, la misura «standard» compresa tra 1/5 e la metà del quantum del danno biologico?

Qui viene in considerazione il c.d. «criterio della proporzionalità», peraltro, come innanzi si osservava, avvallato dal legislatore (cfr. art. 138, comma 2, lett. e), Cod. Ass.; art. 5, comma 1, lett. c), d.P.R. 3 marzo 2009, n. 37) e strutturalmente alla base dei valori monetari di cui alle «tabelle milanesi», che nel 2009 non hanno fatto altro che recepire, pur con un'ulteriore livello di standardizzazione, l'esperienza da tempo consolidata a livello di prassi giurisprudenziale (cfr. le osservazioni empiriche condotte sulla giurisprudenza degli anni ottanta alle prese con le prime esperienze sul danno biologico da P.G. Monateri e A. Bellero, Il “quantum” nel danno alla persona, 2° ed., Milano, 1989, 145, ove già si dava atto del fatto che la «indagine empirica ha mostrato come le decisioni delle corti finiscano per convergere verso dei valori standard del punto di i.p. misurato in termini di indennizzo del danno morale. Perciò la valutazione media del danno morale segue effettivamente l'andamento del tasso di i.p., a maggiore invalidità permanente, corrisponde una maggiore assegnazione monetaria, e viceversa»).

Orbene, la parametrazione del danno morale «standard» sul quantum del danno biologico e, più specificatamente, in proporzione alla gravità dell'invalidità, così come anche perorata dal legislatore, è presuntivamente corretta: difatti, il giudice, il quale cum grano salis in via presuntiva rapporti la base monetaria per la liquidazione del pregiudizio morale al quantum individuato per il danno biologico, non incorre in un automatismo, bensì procede ad una razionale applicazione della regola di comune esperienza per cui i «dolori dell'animo» sono generalmente tanto più gravi quanto più è seria ed impattante la menomazione biologica (razionale presunzione già caldeggiata da P.G. Monateri e A. Bellero, op. cit., 144-145).

Infatti, nel contesto di una liquidazione necessariamente da operarsi in via equitativa e convenzionale, ben si può presumere – sia per ragioni di uniformità di trattamento, sia per esigenze di prevedibilità del quantum e sia per una condivisibile semplificazione – che la violazione della dignità/sensibilità morale (con annessi e connessi) sia tanto maggiore quanto più grave risulti la lesione dell'integrità psicofisica.

Fu la stessa Suprema corte (Cass. civ., Sez. III, 9 gennaio 1998, n. 134) a sottolineare come per l'appunto tale modello liquidativo risulti «ispirato alle stesse esigenze che giustificano la liquidazione del danno alla salute in base al sistema cosiddetto del “valore di punto differenziato” (e crescente in relazione all'aumentare del grado di invalidità), il quale è svolto proprio ad evitare che la valutazione inevitabilmente equitativa del danno non patrimoniale assuma connotazioni ogni volta diverse, imprevedibili, suscettibili di apparire arbitrarie anche in ragione della insopprimibile difficoltà di offrire appaganti e controllabili ragioni giustificative di una determinazione quantitativa che ha funzione meramente surrogante e compensativi a delle sofferenze indotte dal fatto lesivo costituente reato» (cfr., in seguito, nella medesima direzione: Cass. civ., Sez. III, 10 maggio 2011, n. 10207; Cass civ., Sez. III, 9 marzo 2011, n. 5540; Cass. civ., Sez. III, 15 luglio 2009, n. 16448; in dottrina a supporto del «criterio della proporzionalità» cfr. ex plurimis: P. Ziviz, La tutela risarcitoria della persona, Milano, 1999, 203; G. Cricenti, Il danno non patrimoniale, Padova, 1999, 373; M. Rossetti, Il danno da lesione della salute, cit., 1114).

Con il che si giustifica anche la convenzione per cui mediamente il quantum monetario del danno morale di base corrisponde ad una frazione del quantum del danno biologico temporaneo e permanente. Certamente per questa via si attribuisce di fatto un maggiore valore risarcitorio alla lesione della salute rispetto al quantum ascritto per la violazione della personalità e della sfera interna, il che, però, at the end of the day sembra corrispondere all'idea, sponsorizzata anche a livello filosofico, per cui «la salute non è tutto, ma senza salute tutto è niente» (Arthur Schopenhauer).

Questa impostazione appare ispirata alla buona logica, pragmatica, efficiente; del resto, non ha senso lamentare da un lato l'imprevedibilità delle liquidazioni e dall'altro lato contrastare il criterio illustrato, bollandolo come pigro automatismo della magistratura di merito.

Può qui soltanto aggiungersi come la stessa Suprema corte (Cass. civ., Sez. III, 14 novembre 2019, n. 29495), a dimostrazione che la giurisprudenza di legittimità ultima è lungi dall'essere avversa al modello sin qui perorato, abbia ammesso che «i parametri medico-legali che vengono utilizzati per determinare il quantum del danno biologico - sia in riferimento alle conseguenze temporanee della lesione psico-fisica, sia in riferimento alle conseguenze permanenti - non possono non incidere anche sul quantum del danno “morale” nel senso di sofferenza direttamente correlata alla lesione psico-fisica della stessa persona, pur trattandosi formalmente, a ben guardare, di un pregiudizio ontologicamente diverso».

Ciò rilevato, invero la Cassazione ha ragione ad evocare lo spettro degli automatismi, ma soltanto allorquando le peculiarità del caso richiedano al magistrato di adattare il quantum offerto da questo modello di base oppure finanche di accantonarlo. Senz'altro, come già si osservava in dottrina (P.G. Monateri e A. Bellero, Il “quantum” nel danno alla persona, 2° ed., cit., 144) non ogni tipo di invalidità permanente incide a livello di sofferenza morale allo stesso modo sui consociati, ma è del tutto evidente come, una volta posta la presunzione in questione, si possa e si debba poi scendere in ulteriori «considerazioni qualitative, che le elaborazioni matematiche delle decisioni giudiziali […] non sono in grado di tenere in considerazione» (così già P.G. Monateri e A. Bellero, op. cit., 144).

Insomma, è chiaro che la presunzione, per cui il danno morale da lesione personale ammonta ad una frazione del quantum del danno biologico, costituisce un punto (rectius, uno spunto) di partenza per la liquidazione di tale danno non patrimoniale, non già un invalicabile limite. In altri termini, restano fermi i necessari adeguamenti di questa logica «standard» a ciascun caso concreto (esigenza costantemente e correttamente affermata dalla Cassazione già prima degli ultimi pronunciamenti e delle Sezioni Unite di «San Martino 2008»), con evidente possibilità di adottare anche delle differenti proporzioni oppure dei criteri diversi (si pensi, ad esempio, alla ragazza violentata, ove il danno morale può ben risultare di gran lunga superiore al danno biologico).

Anzi, sottolineandosi qui il rischio, in taluni casi, di una «svalutazione» del danno morale (rischio certamente concretizzatosi nella prassi ben più dell'eventualità di liquidazioni di pregiudizi inesistenti), non può non evidenziarsi anche in questa sede la necessità di superare una visione eccessivamente biologicocentrica del quantum del danno non patrimoniale da menomazione psicofisica: se per le predette ragioni può presumersi, nei casi di lesioni personali, un danno morale «standard» o «minimo» proporzionato (peraltro in misura inferiore) all'entità del vulnus biologico, è altrettanto scontato come esso vada poi adeguatamente personalizzato, come già ribadito dalla giurisprudenza di legittimità prima delle Sezioni Unite del 2008 (cfr. ex plurimis Cass. civ., Sez. III, 9 novembre 2006, n. 23918, in Corr. giur., 2007, 522, con nota di G. Travaglino: «Nella liquidazione del danno non patrimoniale derivante da fatto illecito, il giudice di merito deve tener conto delle effettive sofferenze patite dall'offeso, della gravità dell'illecito di rilievo penale e di tutti gli elementi della fattispecie, in modo da rendere la somma liquidata adeguata al caso concreto. Il ricorso da parte dei giudici di merito al criterio di determinazione della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno morale in una frazione dell'importo riconosciuto per il risarcimento del danno biologico, è legittimo, purché il giudice abbia tenuto conto delle peculiarità del caso concreto, effettuando la necessaria personalizzazione di detto criterio alla fattispecie e dando atto di non aver applicato i valori tabellari con mero automatismo»).

In definitiva, come pure insegna la giurisprudenza di legittimità ora citata, è nella fase della personalizzazione che si può ed occorre correggere il tiro rispetto agli automatismi tabellari, financo sganciando la liquidazione finale del danno morale da qualsiasi lacciuolo.

Nondimeno, anche in sede di personalizzazione del quantum dei pregiudizi morali è possibile mantenere una certa qual prevedibilità delle decisioni, per esempio, fatte salve tutte le eccezioni del caso, calcolandosi la quota dell'incremento del danno morale in una frazione di quanto ascritto per l'incremento riconosciuto a titolo di pregiudizi relazioni-dinamici «peculiari».

Senza dubbio, come si osservava innanzi,del danno morale «standard» sin qui illustrato e perorato – pure avvallato legislativamente – trova piena conferma nelle «tabelle ambrosiane».

Da taluni interpreti si è rilevato come queste, però, dovrebbero ritenersi almeno in parte in crisi a seguito dell'approdo della Suprema corte (Cass. civ., Sez. III, ord. 27 marzo 2018, n. 7513) al «decalogo Travaglino-Rossetti», ciò proprio in ragione del trattamento riservato nel modello ambrosiano alla liquidazione dei pregiudizi morali. Rafforzerebbe questa prospettiva la serie di sentenze ed ordinanze di legittimità intervenute a sancire l'esigenza di una prova «specifica» per la liquidazione del pregiudizio morale.

Sennonché, ferma restando l'inattendibilità di questi ultimi interventi giurisprudenziali (cfr. supra §§ 2 e 3), innanzitutto le «tabelle milanesi» sono lungi dall'impedire la congiunta (ma al contempo separata) attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, attribuzione perorata al punto n. 8 del «decalogo», ove per l'appunto si ribadisce la legittimità di tali contestuali liquidazioni. Infatti, come si ricava espressamente dal § 1 dei criteri orientativi e dalla stessa griglia delle tavole in questione, attraverso la terza colonna di queste si compensa, quale «aumento» in percentuale del danno biologico di cui alla seconda colonna, il pregiudizio morale medio e presunto, così disgiuntamente individuato; dunque, le «tabelle milanesi» permettono, in conformità ai punti nn. 8 e 9 del predetto «decalogo», che il danno morale, pur sotto l'unificante cappello del danno non patrimoniale, sia «oggetto di separata valutazione e liquidazione» (cfr. così il punto n. 8 del «decalogo»).

Vero è che il modello presuntivo del danno morale di base, così come rinvenibile nella terza colonna delle «tabelle ambrosiane», è affetto da un certo qual automatismo, ma, posto quanto già innanzi osservato al § 3.2, per un verso tale rigidità è inevitabile nel contesto di una griglia valutativa (comunque inesorabilmente a valenza indicativa e soggetta a personalizzazione), per altro verso proprio tale modello consente, perlomeno a livello di riparazione minima, la concreta attuazione del «decalogo Travaglino-Rossetti»: infatti, laddove al contrario bastasse, per negare il risarcimento del pregiudizio morale di base, l'assenza di una «prova specifica» (invero, impossibile da fornire), si ridimensionerebbe sistematicamente la portata del danno non patrimoniale al solo danno biologico e, quindi, la rivitalizzazione della distinzione tra danno biologico e danno morale si risolverebbe in una mera petizione di principio, un approdo del tutto inutile (ciò con risvolti negativi a partire dalle trattative stragiudiziali).

Del resto, non può certo interpretarsi il «decalogo Travaglino-Rossetti» nel senso di esigere prove irrealizzabili oppure di opporsi ad un modello consolidato a livello giurisprudenziale e pure condiviso normativamente. Anzi, va qui debitamente ricordato che proprio la giurisprudenza di legittimità alla base del decalogo ha confermato come la prova del danno morale da danno alla persona possa senz'altro risolversi sulla base del notorio, di massime di esperienza e di presunzioni (cfr. in primis Cass. civ., Sez. III, 17 gennaio 2018, n. 901).

Pertanto, sembra piuttosto evidente quanto segue: l'impianto delle «tabelle milanesi» non è affatto posto in crisi dal «decalogo Travaglino-Rossetti» o, tantomeno, dai contributi avversi alla prova presuntiva del danno morale.

Semmai si può accettare l'idea di un affinamento ulteriore della «veste grafica» di queste tavole, condividendosi a questo fine la proposta di indicare nella loro terza colonna l'importo risultante dalla percentuale ivi indicata così come di aggiungere, in corrispondenza di ogni anno di età del danneggiato, all'indicazione del complessivo danno non patrimoniale, separatamente, anche l'ammontare monetario del danno biologico e di quello morale «standard» (cfr. D. Spera, Le novità normative e la recente giurisprudenza suggeriscono un ritocco della Tabella milanese del danno non patrimoniale da lesione del bene salute?, in www.ridare.it, 9 luglio 2019). Questa soluzione, infatti, potrebbe contribuire a rendere più esplicita la quota del danno non patrimoniale ascritta dalle tabelle al danno morale «standard» (o presunto), sicché il giudice del merito potrebbe più agevolmente motivare ed indicare il quantum di eventuali riduzioni od incrementi dei valori-base.

Per inciso non si condividono, invece, le seguenti proposte di modifica delle «tabelle milanesi»: 1) ridenominazione della seconda colonna aggiungendo al lemma «danno biologico» gli aggettivi «dinamico relazionale»; infatti, i profili dinamico-relazionali sono lungi dallo sostanziare e dall'esaurire il valore percentuale del «punto di base»; 2) ridenominazione della terza colonna con l'impiego dell'espressione «punto danno da sofferenza soggettiva interiore media presunta»: l'aggettivo «soggettivo» - non necessario (del resto, essendo posto accanto all'aggettivo «interiore») e lungi dall'avere chissà quale portata chiarificatrice - richiama un'espressione utilizzata dal legislatore con riferimento alla «personalizzazione» del danno biologico, dunque è improprio e fonte di confusione; l'aggettivo «media», comunque particolarmente scivoloso, è contraddetto dalle percentuali già attribuite al tradizionale danno morale dalla terza colonna introdotta dalla versione del 2009, percentuali che seguono una progressione da un ¼ ad ½ come da consolidata giurisprudenza di merito precedente il 2008, indicando, dunque, dei parametri/criteri presuntivi al minimo e non già delle medie aritmetiche; semplificando, nel passato si era soliti dire per le micropermanenti che il danno morale era liquidato in via presuntiva «al minimo», sicché questo «minimo» (¼) non può trasformarsi ora in un valore «medio»; sarebbe una rappresentazione non veritiera.

Sta di fatto che una volta reso esplicito ed inequivocabile il valore monetario attribuito al (solo!) danno morale di base strettamente associato alle lesioni dell'integrità psicofisica (rivisitazione, comunque, non necessaria), nella prospettiva della nuova veste grafica delle «tabelle milanesi», l'unico punto critico, sotto il profilo della conformità delle stesse al «decalogo Travaglino-Rossetti», rimarrebbe la penultima colonna recante gli «aumenti personalizzati».

Tale colonna, invero, è sotto più profili opinabile: fissa dei tetti massimi, laddove, come condivisibilmente sottolineato da Cass. civ., Sez. III, 4 febbraio 2020, n.2461, innanzitutto per il danno morale «non sarebbe giustificata in radice la postulazione di un tetto massimo alla personalizzazione del danno»; tali limiti riguardano tutti i pregiudizi, tanto quelli biologici, che esistenziali, che morali (dunque, questa colonna, almeno apparentemente, contraddice il principio della valutazione e della liquidazione separate tra danno biologico e danno morale); prevede percentuali di incremento inverse rispetto al comune sentire (infatti, a menomazioni più gravi dovrebbero corrispondere scenari di personalizzazione più ampi).

Nondimeno, tali criticità - peraltro riprodotte in parte dal legislatore all'art. 138 Cod. Ass. - sono superabili nella pratica sol considerandosi come trattasi di limiti aventi mera valenza indicativa (gli stessi redattori delle tabelle hanno specificato che queste recano «criteri orientativi»); inoltre, nulla impedisce al magistrato di motivare eventuali incrementi del quantum di base, procedendo separatamente per il danno biologico e per il danno morale.

Del resto, recenti contributi della Suprema corte intervenuti proprio sul fronte del danno morale hanno ribadito che il giudice del merito, adeguatamente motivando, può sempre superare i limiti indicati come massimi dalle tabelle in questione. Per esempio, in seno all'ordinanza Cass. civ., Sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2762 i giudici di legittimità hanno avvallato la decisione della corte territoriale di attribuire al rischio di recidiva - inquadrata quale «evento idoneo ad incidere, in termini di una più accentuata “sofferenza interiore” (soprattutto legata al timore del suo elevato grado di mortalità) sulla prosecuzione del percorso esistenziale del P.» - una personalizzazione ulteriore (extra-tabellare) rispetto all'aumento personalizzato indicato dalle tabelle. Nella già innanzi ricordata pronuncia Cass. civ., sez. III, 13 dicembre 2019, n. 32787 la Suprema corte, riproponendo la prospettiva del danno morale aggravato dalla condotta, ha rilevato che i limiti, di cui alle «tabelle milanesi», possono sempre essere superati «quando la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro tabellare non possa aver già tenuto conto», pertanto, ad esempio, in considerazione della particolare gravità della condotta lesiva. Dolo o colpa grave, come esplicitato da quest'ultima sentenza, possono giustificare «anche uno sconfinamento dai parametri ordinari», il che, a ben osservare, trova pure esplicita conferma in seno alla premessa alle «tabelle milanesi».

In conclusione

L'idea, per la quale il danno morale «standard» da menomazione psicofisica non sarebbe riconoscibile e quantificabile in una frazione del danno biologico come da lunga e ben radicata tradizione, è infondata e pure inefficiente anche in termini di prevedibilità dei risarcimenti. Inoltre, si pone in contrasto con le «tabelle milanesi», ossia con un riferimento essenziale e consolidato per la liquidazione dei danni alla persona, nonché con la nuova versione dell'art. 138 Cod. Ass.

Logicamente, al contempo, la stretta associazione presuntiva tra quantum del danno biologico e quantum del danno morale «standard» - qui perorata quale primo step della liquidazione del danno non patrimoniale alla persona - non può divenire una via per svalutare la riparazione dei pregiudizi morali sia laddove, nel caso concreto, ricorrano particolari circostanze della violazione dell'integrità psicofisica tali da imporre liquidazioni superiori al criterio di base in questione (per esempio, una condotta efferata), sia qualora l'illecito e/o l'inadempimento abbiano inciso oltre che sulla salute anche su altri beni garantiti dalla Costituzione o da altre norme (si pensi, per esempio, anche solo al concorso ed alla cumulabilità tra danno morale da menomazione psicofisica e danno non patrimoniale da vacanza rovinata nell'ipotesi in cui il sinistro sia occorso durante un viaggio di piacere, in un villaggio turistico od a bordo di una nave da crociera).

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