Sono ammissibili per la prima volta in appello le contestazioni alla stima del valore del bene da dividere
14 Luglio 2020
Massima
In tema di scioglimento giudiziale della comunione, anche laddove la parte non abbia, nel corso del giudizio di primo grado, mosso specifiche contestazioni in ordine ai criteri seguiti dal giudice per addivenire alla stima del bene da dividere, non le è preclusa la facoltà di formulare critiche alla stima stessa mediante la formulazione di uno specifico motivo di gravame, senza che ciò implichi la proposizione di una domanda nuova ovvero di un'eccezione in senso stretto, precluse in appello ex art. 345 c.p.c. Il caso
Tizio conveniva in giudizio, dinanzi al tribunale di Roma, l'ex coniuge Caia al fine di procedere allo scioglimento della comunione inerente all'immobile acquistato durante il matrimonio in regime di comunione legale ed assegnato alla convenuta in sede di separazione consensuale. Il tribunale adito disponeva la divisione assegnando la piena proprietà del bene alla convenuta, con condanna di questa al versamento del conguaglio in favore dell'attore. Tizio proponeva appello deducendo l'erroneità della valutazione del bene ai fini dell'attribuzione, in quanto era stato computato anche il diritto di abitazione vantato dalla convenuta per effetto dell'assegnazione della casa familiare in sede di separazione. Il gravame veniva rigettato, in quanto, secondo la corte d'appello, la stima del bene operata dal CTU non era stata, in primo grado, contestata da parte del difensore dell'appellante, neanche in relazione all'incidenza del diritto di abitazione, questione, quest'ultima, del tutto nuova e, quindi, formulata in violazione dell'art. 345 c.p.c. Il motivo di gravame veniva, pertanto, considerato inammissibile ex art. 342 c.p.c., in quanto non idoneo a contrastare la motivazione della sentenza impugnata. Tizio proponeva, allora, ricorso per cassazione, deducendo, con l'unico motivo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 345 c.p.c., in quanto, da un lato, il motivo di appello era conforme alla formulazione vigente ratione temporis dell'art. 342 c.p.c., e, dall'altro, doveva escludersi la violazione dell'art. 345 c.p.c., atteso che la contestazione relativa all'incidenza del diritto di abitazione mirava ad individuare l'esatto ammontare della quota di spettanza del ricorrente. La questione
Di particolare interesse è la questione inerente all'applicazione del divieto di ius novum di cui all'art. 345 c.p.c. alle contestazioni specifiche che la parte abbia sollevato, per la prima volta in sede di appello, avverso i criteri applicati dal giudice di primo grado per stimare il valore del bene oggetto della domanda di scioglimento della comunione. Le soluzioni giuridiche
Prima di entrare nel merito della prospettata questione, la Suprema Corte ha escluso la violazione dell'art. 342 c.p.c., nella formulazione antecedente alla riforma operata dal d.l. n. 83/2012, conv. in l. n. 134/12, in quanto la decisione del giudice di primo grado si era limitata a recepire le indicazioni del CTU, senza specificamente approfondire le ragioni per le quali il diritto di abitazione avrebbe inciso sulla stima del bene anche in sede di divisione. Ragion per cui, non essendo necessaria per la formulazione dell'appello (inteso come revisio prioris instantiae) l'adozione di forme particolari (per consolidata giurisprudenza, cfr. Cass. civ., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16), peraltro neanche all'esito della nuova formulazione del medesimo art. 342 c.p.c. (come recentemente interpretato da Cass. civ., Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27199), e dovendo applicarsi un criterio di simmetria tra il livello di approfondimento delle argomentazioni del giudice di primo grado e la specificità delle censure utilizzate dall'appellante per confutare l'impianto motivazionale della sentenza impugnata (in proposito, si rimanda a C. Taraschi, Le Sezioni Unite risolvono la questione sul grado di specificità dei motivi di appello, in www.ilprocessocivile.it), la contestazione formulata dall'appellante in ordine all'errata computazione del diritto di abitazione ai fini della determinazione del conguaglio dovuto al comproprietario non assegnatario era idonea a contrastare la correttezza della decisione di primo grado ed imponeva al giudice d'appello di verificare, nel merito, la fondatezza delle ragioni addotte dal ricorrente, anziché liquidare il motivo di gravame con una declaratoria di inammissibilità. Deve, altresì, escludersi, per il profilo che più interessa in questa sede, la violazione dell'art. 345 c.p.c., in quanto l'attore, avendo proposto in primo grado una domanda di scioglimento della comunione sul bene comune, con l'atto di appello non aveva introdotto una nuova domanda, né sollevato una nuova eccezione in senso stretto (l'unica alla quale è applicabile il divieto di cui all'art. 345 c.p.c.: Cass. civ., Sez. Un., 7 maggio 2013, n. 10531), ma si era limitato a sollecitare una verifica in ordine alla correttezza della stima del valore del bene comune, assumendo che sulla stessa non potesse avere incidenza il diritto di abitazione riconosciuto in sede di separazione tra coniugi. Ciò in base all'assunto per cui il fatto che si trattasse di un diritto personale atipico di godimento, preordinato alla tutela della prole, imponeva di ritenere che lo stesso venisse meno una volta attribuita la piena proprietà del bene in sede di scioglimento della comunione. In sostanza, non era configurabile un (vietato) ampliamento del thema decidendum, in quanto l'appellante, pur sempre nell'ambito del perseguimento del risultato cui mirava la proposizione della domanda originaria di divisione, aveva sollevato una contestazione limitata ad accertare la legittimità delle operazioni divisionali in relazione ai criteri di stima del bene comune. E la facoltà di sollevare, in appello, tale contestazione, anche qualora la parte non abbia mosso specifiche critiche in primo grado, non può ritenersi preclusa, esulando la stessa dall'ambito applicativo delle limitazioni di cui all'art. 345 c.p.c. Al riguardo la Suprema Corte richiama il proprio precedente di Cass. civ., 26 marzo 2019, n. 8400, secondo cui, in tema di successione legittima, il diritto di abitazione ed uso ex art. 540, comma 2, c.c. è devoluto al coniuge del de cuius in base ad un meccanismo assimilabile al prelegato ex lege, sicché la sua concreta attribuzione, nell'ambito di una controversia avente ad oggetto lo scioglimento della comunione ereditaria, non è subordinata alla formulazione di una espressa richiesta in tal senso (vedi anche Cass. civ., 31 luglio 2013, n. 18354): tuttavia, ove il giudice di primo grado abbia disposto la divisione della comunione ereditaria senza detrarre il valore capitale del menzionato diritto spettante al coniuge superstite (in aggiunta alla quota attribuita dagli artt. 581 e 582 c.c.) e questa statuizione implicita negativa sul punto non abbia formato oggetto di uno specifico motivo di impugnazione, il riconoscimento del citato diritto di abitazione ad opera del giudice di appello è impedito dalle preclusioni processuali maturate e, in specie, dal giudicato interno formatosi al riguardo. Né, infine, appariva rilevante che il ricorrente avesse, in primo grado, concluso per l'attribuzione in suo favore del bene secondo la stima del CTU (ossia al netto del diritto di abitazione spettante all'altro coniuge), posto che tale istanza poteva interpretarsi nel senso di essere diretta ad ottenere l'attribuzione del bene in proprio favore limitando l'entità del conguaglio dovuto alla controparte, ma senza che ciò precludesse, una volta attribuito invece il cespite all'altro coniuge, la possibilità di contestare i criteri di stima del bene in sede di appello. La Suprema Corte ha, quindi, in accoglimento del ricorso, cassato la sentenza impugnata, con rinvio a diversa sezione della corte di merito affinchè venisse esaminata la questione inerente all'incidenza o meno sul valore del bene del diritto di abitazione attribuito in sede di separazione tra coniugi. Osservazioni
La pronuncia in commento risulta condivisibile, posto che nel divieto di ius novum di cui all'art. 345 c.p.c. rientrano: 1) le domande nuove, ossia quelle con cui si alteri anche uno soltanto dei presupposti della domanda iniziale, introducendosi un petitum diverso e più ampio, oppure una diversa causa petendi, fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado ed, in particolare, su un fatto giuridico costitutivo del diritto originariamente vantato, radicalmente diverso, sicché risulti inserito nel processo un nuovo tema d'indagine (cfr., ex multis, Cass. civ., 19 settembre 2016, n. 18299); 2) le nuove eccezioni in senso stretto, e non anche quelle in senso lato, il cui rilievo d'ufficio non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è, quindi, ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis (Cass. civ., 10 ottobre 2019, n. 25434; Cass. civ., 31 ottobre 2018, n. 27998); 3) i nuovi mezzi di prova ed i nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile, e salvo sempre il deferimento del giuramento decisorio. Pertanto, come già sostenuto in passato dalla giurisprudenza di legittimità, nel giudizio di divisione avente ad oggetto un bene immobile, non costituisce domanda nuova quella con cui si introduca per la prima volta in grado di appello un tema d'indagine riguardante la stima del bene, atteso che essa non modifica né l'oggetto né la causa petendi del giudizio, costituendo la stima del bene momento necessario per procedere alla divisione (in tal senso, cfr. Cass. civ., 22 ottobre 2010, n. 21791, la quale ha cassato la sentenza di merito che aveva, invece, ritenuto domanda nuova quella con la quale - in sede di stima di uno degli immobili oggetto di divisione - uno dei condividenti aveva eccepito un mutamento di destinazione d'uso del bene, da abitazione a studio professionale). La problematica in esame si interseca, poi, con quella, estremamente attuale, inerente all'individuazione dei limiti temporali di contestabilità, in primo grado, delle risultanze della CTU, contendendosi il campo, allo stato, tre diversi orientamenti: 1) secondo una prima tesi, le osservazioni critiche alla consulenza tecnica di ufficio non possono essere formulate in comparsa conclusionale e, pertanto, se ivi contenute, non possono essere esaminate dal giudice, perché in tal modo esse rimarrebbero sottratte al contraddittorio ed al dibattito processuale (Cass. civ., 3 luglio 2013, n. 16611; Cass. civ., 22 marzo 2013, n. 7335; Cass. civ., 1° luglio 2002, n. 9517); 2) in senso contrario, è stato ritenuto che, con la comparsa conclusionale, la parte può svolgere nuove ragioni di dissenso e contestazione avverso le valutazioni e conclusioni del CTU, trattandosi di nuovi argomenti su fatti già acquisiti alla causa, che non ampliano l'ambito oggettivo della controversia (Cass. civ., 10 marzo 2000, n. 2809); 3) secondo, infine, altra tesi più recente, i rilievi alla CTU - ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c. - possono essere formulati nella comparsa conclusionale sempre che non introducano in giudizio nuovi fatti costitutivi, modificativi o estintivi, nuove domande o eccezioni o nuove prove, e purchè il breve termine per la memoria di replica, comparato con il tema dei rilievi, non si traduca, con valutazione da effettuarsi caso per caso, in un'effettiva lesione del contraddittorio e del diritto di difesa (Cass. civ., 21 agosto 2018, n. 20829; Cass. civ., 26 luglio 2016, n. 15418). Di recente, con l'ordinanza interlocutoria n. 1990 del 29 gennaio 2020, la II sezione civile della Corte di cassazione, riconosciutane la particolare importanza ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c., ha rimesso al Primo Presidente, per l'assegnazione alle Sezioni Unite, la questione inerente alla configurabilità in capo alle parti del giudizio del potere di contestare i risultati di una CTU per la prima volta in comparsa conclusionale, nonché la questione della correlata possibilità di compiere tali contestazioni, laddove reputate tardive in primo grado, in appello, sottraendosi la consulenza tecnica di parte alle preclusioni di cui all'art. 345 c.p.c. (cfr. R. Metafora, Contestazione della CTU in sede di comparsa conclusionale: la parola alle Sezioni Unite, in www.ilprocessocivile.it).
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