Il caso. La sentenza trae origine dalla decisione con la quale la Corte d'appello di Catania ha posto a carico dei convenuti in riassunzione – presunti successori della parte originariamente convenuta in giudizio e deceduta nelle more del giudizio medesimo, costituitisi contestando la mancata accettazione dell'eredità del de cuius – l'onere di dimostrare la carenza della loro legittimazione passiva.
Onere della prova. Per quanto qui di interesse, i ricorrenti – successori chiamati in causa in un giudizio di merito che vedeva coinvolta la loro madre, deceduta nelle more del giudizio medesimo – hanno eccepito l'asserita erroneità della decisione della Corte territoriale, in quanto, secondo la prospettazione fornita dai ricorrenti stessi, sarebbe stato onere dell'attore in riassunzione fornire la dimostrazione della loro qualità legittimante.
La Corte di cassazione, confermando la decisione della Corte d'appello di Catania, ha innanzitutto chiarito che la posizione dei ricorrenti – supportata a loro dire da alcune sentenze di legittimità – originerebbe da una divergente percezione della portata dell'art. 2967 c.c.
Secondo i Giudici, la questione deve essere affrontata – conformemente al più recente orientamento della stessa Corte – alla luce del principio di prossimità della prova e, ancora più radicalmente, alla luce dei valori costituzionali condensati nel novellato, rispetto all'epoca in cui si sviluppò l'orientamento invocato dai ricorrenti, art. 111 Cost., i quali non possono non condurre a un'interpretazione non formale, bensì funzionale, delle regole processuali.
E un'interpretazione costituzionalmente orientata della ratio dell'istituto di riassunzione processuale deve ritenersi integrata considerando le ragioni di tutela del diritto di difesa che consentono alla parte non colpita dall'evento interruttivo di proseguire il giudizio nei confronti dei discendenti legittimi della controparte deceduta, senza costringerla ad attività defatiganti di ricerca delle prove dell'accettazione o della rinuncia all'eredità di questi ultimi.
D'altronde, secondo quanto altrettanto statuito dai Giudici di legittimità, il chiamato all'eredità può restare tale per dieci anni ed è conforme ai princìpi che, durante detto periodo, la controparte sia tutelata, mentre sarebbe contrario ai princìpi del giusto processo (oltre che a evidenti ragioni di economia processuale) affermare che la parte non colpita dall'evento interruttivo debba avviare un subprocedimento affinché l'autorità giudiziaria fissi un termine entro il quale il chiamato all'eredità ha l'onere di contestare l'effettiva assunzione di tale qualità, così da escludere la condizione di fatto che ha giustificato la riassunzione.
Sovviene al riguardo il generale principio di vicinanza della prova, in quanto il chiamato all'eredità ha l'agevole possibilità di costituirsi e di allegare di non aver accettato l'eredità, mentre la parte non colpita dall'evento interruttivo si troverebbe nella difficoltà di dimostrare l'effettiva qualità di erede del chiamato, vista la complessità dei fenomeni ereditari e non essendovi un sistema di pubblicità che consenta un controllo da parte dei terzi sull'effettiva acquisizione della qualità di erede da parte del chiamato.
Per tale ragione, conclude la Corte, in considerazione del richiamato principio della prossimità della prova – presidio ontologicamente sistemico che apporta al canone dell'art. 2697 c.c. una specifica tutela dal suo abuso – deve affermarsi che spetta ai chiamati all'eredità di un soggetto deceduto nelle more di un processo, e conseguentemente convenuti in riassunzione – in primis allegare e quindi dimostrare di non essere divenuti eredi.
*Fonte: www.dirittoegiustizia.it