Pubblico impiego contrattualizzato: termine quinquennale di prescrizione per differenze retributive e principio di non discriminazione

Paolo Laguzzi
27 Luglio 2020

Nell'impiego pubblico contrattualizzato, la domanda con la quale il dipendente assunto a tempo determinato, invocando il principio di non discriminazione nelle condizioni di impiego, rivendica il medesimo trattamento retributivo previsto per l'assunto a tempo indeterminato soggiace al termine quinquennale di prescrizione...
Massima

Nell'impiego pubblico contrattualizzato, la domanda con la quale il dipendente assunto a tempo determinato, invocando il principio di non discriminazione nelle condizioni di impiego, rivendica il medesimo trattamento retributivo previsto per l'assunto a tempo indeterminato soggiace al termine quinquennale di prescrizione previsto dall'art. 2948 nn. 4 e 5 c.c., il quale decorre, anche in caso di illegittimità del termine apposto ai contratti, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza, e per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto a partire da tale momento (principio enunciato nell'interesse della legge ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c.).

Il caso

Alcuni insegnanti, assunti con contratti a tempo determinato di durata annuale, convengono il MIUR avanti il giudice del lavoro richiedendone la condanna al pagamento delle differenze retributive derivanti a loro favore dall'applicazione - in misura pari a quelle dei colleghi assunti a tempo indeterminato - degli aumenti conseguenti all'anzianità maturata, computata con riferimento a tutti i periodi della loro prestazione a tempo determinato, nel limite della prescrizione.

Il Tribunale accoglie la domanda dei ricorrenti, in dichiarata applicazione della clausola 4 dell'Accordo Quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE.

In grado d'appello, la Corte territoriale respinge il gravame proposto dal Ministero, ritenendo non giustificata da ragioni oggettive la disparità di trattamento tra le due tipologie di contratto; e respingendo anche il motivo di appello con il quale veniva censurato il mancato accoglimento dell'eccezione di prescrizione, dovendosi secondo la Corte qualificare di natura risarcitoria la domanda proposta dagli insegnanti con conseguente applicabilità del termine ordinario decennale di prescrizione.

Il Ministero dell'Istruzione propone ricorso per cassazione.

La questione

La Corte di cassazione, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, è chiamata a pronunciarsi su vari punti attinenti al contratto a termine in ambito scolastico.

In particolare, viene sottoposta a giudizio di legittimità la condotta datoriale che, per tale tipo di contratto, in assenza della continuità del rapporto non valorizza a fini retributivi l'anzianità di servizio.

Inoltre, a fronte dell'eccepita prescrizione delle conseguenti rivendicazioni economiche degli insegnanti che si dolgono della disparità di trattamento rispetto ai colleghi assunti a tempo indeterminato, la S.C. affronta le connesse questioni dell'individuazione della durata e del dies a quo del relativo termine prescrizionale.

Le soluzioni giuridiche

Sulla prima questione sottoposta, la Corte richiamando il proprio consolidato orientamento (tra le tante, Cass. n. 22558 del 2016; Cass. n. 23868 del 2016; Cass. n. 28635 del 2018; Cass. n. 30573 del 2019), peraltro in maniera conforme alla richiamata giurisprudenza comunitaria (Corte di giustizia 9 luglio 2015, causa C-177/14, Regojo Dans, punto 32; sentenza 20 giugno 2019 in causa C-72/18, Ustariz Arostegui; sentenza 15 aprile 2008, causa C- 268/06, Impact), ribadisce il principio in base al quale al lavoratore a tempo determinato devono essere assicurate condizioni di impiego che non siano meno favorevoli rispetto a quelle riservate all'assunto a tempo indeterminato "comparabile".

Il principio non può subire deroghe neppure a fronte della legittima apposizione del termine al contratto di lavoro.

In particolare, nel settore scolastico, la clausola 4 dell'Accordo quadro sul rapporto a tempo determinato recepito dalla direttiva n. 1999/70/CE, norma di diretta applicazione, impone al datore di lavoro di riconoscere la anzianità di servizio maturata al personale del comparto scuola assunto con contratti a termine, ai fini della attribuzione della medesima progressione stipendiale prevista per i dipendenti a tempo indeterminato dai c.c.n.l. succedutisi nel tempo.

Vanno pertanto disapplicate le disposizioni dei c.c.n.l. che, prescindendo dalla anzianità maturata, commisurano in ogni caso la retribuzione degli assunti a tempo determinato al trattamento economico iniziale previsto per i dipendenti a tempo indeterminato.

Tale clausola 4 dell'Accordo, infatti, garantisce in termini generali la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni e vietando ogni disparità non obiettivamente giustificata, sicché la clausola stessa ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l'obbligo di applicare il diritto dell'Unione e di tutelare i diritti che quest'ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno.

Pure le maggiorazioni retributive che derivano dall'anzianità di servizio del lavoratore, costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva: data, quest'ultima, da elementi precisi e concreti di differenziazione che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate (cfr. Corte di giustizia 9 luglio 2015, in causa C177/14, Regojo Dans, punto 44; sentenza 5.6.2018, in causa C677/16, Montero Mateos, punto 57).

Infine, conclude la Corte, non vale ad escludere la violazione del principio di non discriminazione la circostanza che ad altri fini (ad es., ferie, festività, permessi, malattia e congedi) siano riconosciute al personale supplente le medesime garanzie delle quali godono gli assunti a tempo indeterminato, perché la clausola 4 impone l'equiparazione in tutte le condizioni di impiego, ad eccezione di quelle che siano oggettivamente incompatibili con la natura a termine del rapporto.

Circa il secondo gruppo di questioni rimesso al suo vaglio, relative al regime di prescrizione da osservarsi in siffatte ipotesi di discriminazione nel trattamento retributivo, la Corte assume una posizione peculiare.

Per un verso, infatti, dichiara inammissibile la questione attesa la sua irrilevanza nel caso di specie (nel ricorso per cassazione, il Ministero datore di lavoro non ha infatti precisato a quale periodo la domanda di ciascuno degli originari insegnanti ricorrenti si riferisse e in quale arco temporale si fossero svolti i rapporti a termine dedotti in giudizio); per altro verso, invece, sottolineatane l'importanza sul piano generale in ragione dei due orientamenti opposti emersi nella giurisprudenza di merito, su tale questione la Corte enuncia d'ufficio e “nell'interesse della legge” il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi (art. 363, comma 3, c.p.c.).

La pronuncia impugnata aveva in effetti ritenuto la natura risarcitoria - basata sulla violazione del diritto dell'Unione - della domanda proposta dagli originari ricorrenti, traendone la conseguenza dell'applicabilità del termine ordinario decennale di prescrizione.

Per contro, nel ricorso di legittimità si sostiene che la domanda con la quale il personale assunto a tempo determinato rivendica il medesimo trattamento economico riservato al dipendente a tempo indeterminato non ha natura risarcitoria bensì retributiva e, pertanto, il termine di prescrizione deve essere quello quinquennale previsto dall'art. 2948 n. 4 c.c.

La tesi del Ministero ricorrente è accolta dalla Suprema Corte, pur senza, come detto, alcuna conseguenza pratica sul giudizio a quo.

In particolare, la Corte sottolinea con argomento a contrario che la suddetta inversa regola - in base alla quale, allorché si faccia valere una pretesa di natura risarcitoria conseguente alla responsabilità dello Stato per mancata o tardiva attuazione di direttive eurounitarie, la relativa responsabilità deve qualificarsi di natura contrattuale e quindi rimanere soggetta al termine decennale di prescrizione (Cass., sez. un., 17 aprile 2009, n. 9147) - opera nei soli casi in cui la norma comunitaria, preordinata ad attribuire diritti ai singoli soggetti, non sia dotata del carattere c.d. self executing.

Non è questa, invero, l'ipotesi che ricorre nella fattispecie giacché, come si è detto, la clausola 4 del suddetto Accordo quadro, nell'escludere in via generale ed in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l'obbligo di applicare il diritto dell'Unione, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno e riservando all'assunto a termine il medesimo trattamento previsto per il dipendente a tempo indeterminato.

Ciò implica, continua la Corte, che la pretesa che il singolo fa valere nel rivendicare le stesse condizioni di impiego previste per il lavoratore comparabile partecipa della medesima natura della condizione alla quale l'azione si riferisce e, pertanto, qualora la denunciata discriminazione sia relativa a pretese retributive, la domanda con la quale si rivendica il trattamento ritenuto di miglior favore va qualificata di adempimento contrattuale e soggiace alle medesime regole che valgono per la domanda che l'assunto a tempo indeterminato potrebbe, in ipotesi, azionare qualora quella stessa obbligazione non fosse correttamente adempiuta.

Ne deriva, quanto alla prescrizione, che non può essere applicato il termine ordinario decennale in luogo di quello, quinquennale, previsto dall'art. 2948 c.c., n. 4 per "tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi", e dal n. 5 in relazione alle "indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro".

Diversamente, osserva in conclusione il giudice, “si verificherebbe una discriminazione ‘alla rovescia', nel senso che al dipendente assunto a termine finirebbe per essere riservato un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto per il lavoratore comparabile”.

Quanto poi all'individuazione del dies a quoda assumere ai fini del calcolo del quinquennio, la pronuncia in commento prende le mosse dal principio più volte in proposito affermato dalla stessa Corte di legittimità (anche a Cass., sez. un., n. 575 del 2003; da ultima, Cass. n. 20918 del 2019) nell'ambito dell'impiego privato basato sulla verifica in concreto della stabilità del rapporto: principio per cuiil metus, ritenuto dal Giudice delle leggi (Corte cost. n. 63 del 1966) quale motivo decisivo per addivenire alla dichiarazione di illegittimità costituzionale del citato art. 2948 n. 4 c.c., presuppone l'esistenza di un rapporto a tempo indeterminato nel quale non sia prevista alcuna garanzia di continuità e, pertanto, quanto al rapporto a termine, è ravvisabile soltanto qualora, in conseguenza della riscontrata frode alla legge o della violazione dei limiti posti dalla normativa succedutasi nel tempo, si operi la conversione dei diversi contratti in un unico rapporto a tempo indeterminato.

Al contrario, nel contratto a termine legittimamente stipulato, quand'anche si succedano due o più contratti tra le stesse parti, il lavoratore ha soltanto diritto a che il rapporto venga mantenuto in vita sino alla scadenza concordata e l'eventuale risoluzione ante tempus non fa venir meno alcuno dei diritti derivanti dal contratto.

In tale ipotesi, pertanto, il termine prescrizionale dei crediti retributivi inizia a decorrere dal giorno della loro insorgenza e per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto a partire da tale momento, dovendo - ai fini della decorrenza della prescrizione - i crediti scaturenti da ciascun contratto considerarsi autonomamente e distintamente da quelli derivanti dagli altri e non potendo assumere alcuna efficacia sospensiva della prescrizione gli intervalli di tempo correnti tra un rapporto lavorativo e quello successivo, stante la "tassatività" della elencazione delle cause sospensive previste dagli artt. 2941 e 2942 c.c.

Le suddette regole, come detto emerse in giurisprudenza in relazione al rapporto di impiego privato, a giudizio della S.C. debbono subire un sostanziale adattamento nell'ambito dell'impiego pubblico contrattualizzato.

In tal settore, infatti, opera il divieto posto dall'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 (testo unico Pubblico Impiego) alla conversione in un unico rapporto a tempo indeterminato dei “casi di violazione da parte delle pubbliche amministrazioni delle disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori a termine”.

Inoltre, ritiene la Corte, la condizione psicologica di metus o timore del licenziamento nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni non si presenta in modo analogo a quanto avviene in quello privato.

Ciò poiché l'azione del datore di lavoro pubblico, istituzionalmente vincolata al rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità, secondo i Supremi Giudici è astretta da parametri legali significativi, oltre che da vincoli organizzativi, che permangono anche dopo la contrattualizzazione dell'impiego e che pongono il datore di lavoro pubblico, la cui discrezionalità è vincolata dalla legge e dalla contrattazione collettiva, in condizione di operare sui dipendenti una pressione decisamente ridotta rispetto a quella che può esercitare il datore privato.

In conclusione, nel pubblico impiego contrattualizzato, anche in caso di illegittimità del termine apposto ai contratti succedutisi nel tempo la prescrizione – quinquennale - dei crediti retributivi prevista dall'art. 2948, nn. 4 e 5 c.c. decorre in corso di rapporto e, pertanto, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto stesso essa inizia il suo decorso dal giorno della loro insorgenza, mentre per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto a partire da tale momento.

Osservazioni

Il carattere di novità della pronuncia commentata sta tutto nel crisma di legittimità assegnato all'opzione interpretativa, che risulta invece contrastata nella giurisprudenza di merito, la quale ritiene la natura retributiva, con la conseguente durata quinquennale (e non decennale) del relativo termine di prescrizione ex art. 2948 c.c., della domanda di pagamento di differenze retributive del dipendente pubblico a tempo determinato fondata sul principio di non discriminazione.

Viene per l'appunto sconfessato l'orientamento contrario.

Quest'ultimo fa leva su di un principio affermato dalla stessa Corte di cassazione a Sezioni unite (Cass., sez. un., n. 9147 del 2009) in tema di responsabilità dello Stato per mancata o tardiva attuazione delle direttive UE: la natura contrattuale e risarcitoria dell'azione stessa che, pur avendo un oggetto retributivo, sarebbe principalmente volta a ripristinare la tutela prevista in favore dei lavoratori dall'ordinamento comunitario, tutela per converso negletta da quello interno.

I giudici di legittimità, però, nell'occasione precisano che tale tesi risarcitoria può giustificarsi nei soli casi – affatto diversi da quello in questione, nel quale la disposizione UE risulta direttamente azionabile dal cittadino innanzi al giudice nazionale – in cui la norma comunitaria, preordinata ad attribuire diritti ai singoli, non sia dotata del carattere self executing.

Proprio il recepimento tardivo della Direttiva non auto-applicativa determina, infatti, l'insorgere in capo allo Stato dell'obbligazione "ex lege", di natura indennitaria, che sta alla base della pretesa riparatoria attivata dai privati pregiudicati da tale tardività.

Per il resto, e cioè per le ulteriori questioni oggetto di lite, la sentenza n. 10219 del 2020 richiama consolidati indirizzi presenti nella giurisprudenza.

Così è per la questione di merito trattata in causa, costituita dal ritenersi o meno discriminatorio, appunto alla luce della normativa eurounitaria, il mancato riconoscimento da parte del datore di lavoro pubblico italiano dell'anzianità di servizio relativa al lavoro prestato dal dipendente in forza di contratti a termine.

Questione, come detto, da tempo risolta in senso affermativo dalla concorde giurisprudenza nazionale e della Corte di giustizia UE.

Anche sul tema della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi nel corso del rapporto di lavoro la pronuncia non innova.

Essa, infatti, affronta la questione partendo dalla consolidata regola pretoria secondo la quale allorquando tra le stesse parti di un rapporto di lavoro privato si succedano due o più contratti a tempo determinato - ciascuno dei quali legittimo ed efficace – va riconosciuta la decorrenza dei termini prescrizionali (essa va al contrario negata nei soli casi di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro).

Inoltre, aggiunge la Corte, altro approdo condiviso della giurisprudenza è dato dal fatto che i crediti scaturenti da ciascuno di tali contratti a termine devono essere considerati autonomamente e distintamente rispetto a quelli derivanti dagli altri; e gli intervalli di tempo correnti tra un rapporto lavorativo e quello successivo non possono assumere alcuna efficacia sospensiva della prescrizione (cfr. ex pluribus Cass., sez. un., n. 575 del 2003; Cass. n. 8996 del 2028; Cass. n. 20918 del 2019).

Anche nell'accostare, in conclusione del proprio ragionamento e con un'importante puntualizzazione finale, i suddetti principi alla diversa ipotesi del rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, la S.C. non si allontana dalla comune opinione che, attesa la sua speciale natura, quest'ultimo rapporto è sempre caratterizzato dal requisito della stabilità e tale da non potersi nel suo ambito configurare una situazione di soggezione psicologica del lavoratore, neanche per le assunzioni temporanee (sic Corte cost. n. 143 del 1969).

Ne discende, a giudizio dei supremi giudici, la particolare regola per cui, a differenza dell'impiego privato, in quello pubblico la prescrizione dei crediti di natura retributiva decorre in costanza di rapporto anche nel caso di illegittimità del termine apposto al contratto a tempo determinato.

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