Troppe assenze per malattia, l’azienda chiede una verifica medica: legittimo il rifiuto del dipendente

Attilio Ievolella
30 Luglio 2020

Vittoria per il dipendente che vede riconosciuto il proprio diritto a riavere il lavoro. Priva di fondamento l'azione dell'azienda, che aveva licenziato il lavoratore solo perché quest'ultimo si era rifiutato di sottoporsi a delle verifiche mediche sulla veridicità delle malattie che spesso – 60 giorni in 10 mesi – lo avevano obbligato a rimanere a casa.

60 giorni di assenza in appena 10 mesi, e tutti piazzati a ridosso dei week-end o abbinati a periodi di ferie. Il comportamento del lavoratore insospettisce l'azienda, che ipotizza ci si trovi di fronti a malattie finte – nonostante i certificati medici – e pretende dal dipendente la sottoposizione ad alcuni controlli sanitari. Il netto rifiuto opposto dal lavoratore è sacrosanto, e non può certo giustificarne il licenziamento, anche perché è un abuso, secondo i Giudici, la richiesta avanzata dalla società (Cass., sez. lav., 29 luglio 2020, n. 16251).

Riflettori puntati su una guardia giurata, e, ad essere precisi, sulle sue ripetute assenze per malattia, accompagnate da regolari certificati medici.

I troppi giorni a casa rendono sospettosa l'azienda che si rivolge al Tribunale per un accertamento tecnico preventivo sullo stato di salute del dipendente. L'uomo però «si dichiara indisponibile a sottoporsi all'esame», e la società reagisce con una contestazione disciplinare mirata a censurare «il rifiuto del lavoratore di prestare il consenso a sottoporsi agli accertamenti, rendendo così impossibile la verifica del suo stato di salute e giustificando ulteriormente i sospetti circa l'effettiva sussistenza degli episodi morbosi» alla base delle assenze per malattia.

L'azienda adotta però la linea dura e così, non ritenendo plausibili le giustificazioni addotte dal lavoratore, procede al suo licenziamento per giusta causa. E questo provvedimento viene ritenuto sacrosanto in Tribunale, poiché «le numerose assenze per malattia del lavoratore nel corso del 2016, attestate da certificati emessi da medici diversi e poste a ridosso dei week-end e spesso alternate a ferie e permessi nei mesi di luglio e agosto 2016, hanno ingenerato nella società dubbi circa l'effettività delle malattie stesse».

Per i Giudici, quindi, il rifiuto del dipendente all'idea di sottoporsi a dei controlli medici va qualificato come «una rilevante violazione dei doveri di correttezza e buona fede gravanti sul lavoratore».

Di diverso avviso sono i Giudici d'Appello, che mettono in discussione il licenziamento per giusta causa adottato dall'azienda.

Il lavoratore spiega di avere prodotto «documentazione sanitaria comprovante la sussistenza delle malattie» e sostiene la tesi del «concorso di colpa della società per la tardività degli accertamenti, senza mai aver proceduto ad eseguire i controlli sanitari previsti per le assenze effettuate». E i Giudici di secondo grado dichiarano illegittimo il licenziamento deciso dall'azienda, che poi viene condannata a «reintegrare il dipendente nel precedente posto di lavoro con le medesime o equivalenti mansioni ed a corrispondergli l'indennità risarcitoria pari alle retribuzioni globali di fatto maturate dal giorno del recesso a quello dell'effettiva reintegrazione, nel limite massimo di dodici mensilità».

Inevitabile il ricorso in Cassazione da parte dell'azienda. I suoi legali sostengono che i Giudici d'Appello abbiano commesso un errore: più precisamente, a loro parere il rifiuto del lavoratore alla prospettiva di «sottoporsi all'accertamento tecnico preventivo e ad ispezioni sulla sua persona non è facoltà della parte» e quindi «è qualificabile come grave inadempimento agli obblighi lavorativi» e come «grave violazione degli obblighi di correttezza e buonafede nell'esecuzione del contratto di lavoro».

Peraltro, sempre secondo i legali dell'azienda, «dal rifiuto del lavoratore di sottoporsi all'accertamento tecnico preventivo possono evincersi argomenti di prova circa l'inesistenza delle malattie denunciate» dal lavoratore. E in questa ottica vengono anche evidenziate «le date delle assenze (contigue ai week-end e ad altri giorni non lavorativi)» e «la diversità dei medici che certificarono le varie malattie».

Senza dimenticare poi, sempre secondo la difesa, che «le varie patologie denunciate (lombalgia, torocalgia, gastroenterite, rimozione di unghia incarnita, etc.) non giustificavano certamente i sessanta giorni di assenza in dieci mesi».

La visione proposta dall'azienda non convince però la Cassazione.

In premessa i Giudici ricordano che «gli obblighi di correttezza e buonafede costituiscono un metro di valutazione in ordine all'adempimento o meno degli obblighi contrattuali». Subito dopo essi osservano che l'accertamento tecnico preventivo è «previsto dall'art. 445-bis c.p.c. per deflazionare il contenzioso in materia previdenziale» e non certo per «consentire al datore di lavoro di controllare lo stato di salute dei propri dipendenti». Di conseguenza, va censurata la posizione dell'azienda, poiché, Statuto dei lavoratori alla mano, «sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente» e «il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda» e infine «il datore di lavoro ha facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico».

Per i Giudici, poi, bisogna sottolineare che «il nuovo art. 445-bis c.p.c. prevede come condizione di procedibilità nelle controversie previdenziali la presentazione, unitamente al ricorso giudiziario, di una istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa previdenziale fatta valere, restando così fermo il fatto che si tratta di un onere gravante su chi intende richiedere in giudizio una prestazione a carico dell'INPS, e non certo di un nuovo istituto, che si affiancherebbe senza alcun fondamento normativo agli ampi e diversi strumenti già indicati nell'art. 5 stat. Lav., che consente al datore di lavoro il controllo circa lo stato di salute dei suoi dipendenti ovvero la veridicità delle malattie da essi denunciate come causa di legittime assenze dal lavoro».

Va quindi categoricamente escluso che «al datore di lavoro sia consentito far controllare per tale via, lo stato di salute dei suoi dipendenti». Ciò legittima il netto rifiuto opposto dal dipendente e rende assolutamente privo di fondamento il licenziamento adottato dall'azienda.

(Fonte: Diritto e Giustizia)

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