Crisi d'impresa e insolvenza

Marco Terenghi
30 Luglio 2020

Una delle principali novità sistematiche introdotte dal nuovo Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza è rappresentata dalla definizione della “crisi”, dalla sua differenziazione rispetto all'insolvenza e dalle tecniche previste per consentire la sua emersione tempestiva ed il suo superamento. Obiettivo del presente approfondimento è quello di esaminare i concetti di “crisi” e di “insolvenza” nella Legge Fallimentare e nella principale legislazione concorsuale di settore, ripercorrere brevemente la loro evoluzione nella prospettiva adottata dagli interpreti (in particolare dalla giurisprudenza), analizzarne le reciproche interazioni sistematiche ed approdare infine alle definizioni recentemente espresse dal Codice, ponendo in rilievo gli aspetti di continuità ma anche di differenziazione rispetto alla normativa attuale.
Inquadramento

Nel vigente sistema concorsuale, la crisi d'impresa e l'insolvenza sono fenomeni presi in considerazione da una serie di fonti normative venute progressivamente ad esistenza nel corso del tempo, che disciplinano le procedure (negoziali e giudiziali) appositamente istituite per affrontarli e superarli o, laddove ciò non sia possibile, per regolarne lo svolgimento in un'ottica liquidatoria, nel precipuo interesse dei creditori e della salvaguardia dei loro diritti.

L'ordinamento attuale si caratterizza per una diversificazione degli strumenti e delle procedure di gestione della crisi e dell'insolvenza in relazione alla tipologia dei soggetti interessati da questi fenomeni: accanto al corpus normativo originario e prevalente, rappresentato dalla c.d. “Legge Fallimentare” (R.D. 16 marzo 1942, n. 267) e rivolto indistintamente a tutti gli imprenditori commerciali ricompresi all'interno di determinate soglie dimensionali (art. 1 l.fall.), oltreché a particolari soggetti sottoposti alla liquidazione coatta amministrativa (artt. 194-215 l.fall.), si sono via via affiancati provvedimenti più o meno ampi riservati sia ad imprese di dimensioni più rilevanti (L. 3.4.1979, n. 95, istitutiva dell'Amministrazione Straordinaria poi sostituita dal D. Lgs. 8.7.1990, n. 270, e D.L. 23.12.2003, n. 347), sia a soggetti di minor rilievo dimensionale, anche non imprenditori (professionisti e consumatori), afflitti da una situazione di “sovraindebitamento” (L. 27.1.2012, n. 3). Esistono poi numerose discipline di settore, che regolano la crisi e l'insolvenza di imprese appartenenti a particolari categorie economiche, quali banche (artt. 80 e segg. D. Lgs. 1.9.1993, n. 385), SIM, SGR, SICAV e SICAF (artt. 98 e segg. D. Lgs. 24.2.1998, n. 58), assicurazioni (artt. 220-decies e segg. D. Lgs. 7.9.2005, n. 209, dove viene in rilievo anche il monitoraggio del deterioramento delle condizioni finanziarie dell'impresa assicurativa).

Il tratto comune dei vari comparti normativi esistenti è quello di privilegiare, ove possibile, il superamento dello squilibrio economico venutosi a creare ed il ripristino delle condizioni di liquidità ed efficienza del soggetto in difficoltà onde consentirgli la prosecuzione dell'attività, lasciando l'opzione liquidatoria quale extrema ratio da adottare solo in caso di esito negativo del tentativo di risanamento. Ciò non toglie che, in concreto, l'obiettivo di superare la crisi attraverso processi riorganizzativi, negoziali o giudiziali si riveli molto spesso irraggiungibile, tanto da condurre infine alla disgregazione del complesso aziendale in sede fallimentare o liquidatoria: questo accade, generalmente, perché la situazione di squilibrio economico-finanziario si è manifestata, o comunque è stata rilevata, troppo tardi per poter venire adeguatamente fronteggiata attraverso gli strumenti tipici apprestati, tanto da divenire irreversibile e definitiva.

Da qui la necessità, propugnata in modo concorde da tutti i tecnici e gli operatori del settore, di adottare misure normative tali da fare emergere precocemente, o comunque in tempo utile, lo stato di difficoltà in cui versa l'imprenditore onde facilitarne la recovery senza necessità di un esito giudiziale o, quantomeno, liquidatorio. L'esigenza di una tempestiva emersione della crisi, caldeggiata anche a livello europeo (Raccomandazione 135/2014/UE, Proposta Commissione di Direttiva 22.11.2016 e, da ultimo, Direttiva UE 1023/2019) è stata ampiamente recepita nella Legge Delega 19.10.2017, n. 155 e nel susseguente D. Lgs. 12.1.2019, n. 14 (“Codice della Crisi d'impresa e dell'insolvenza), che ha per la prima volta introdotto nel nostro ordinamento i c.d. “strumenti di allerta” (artt. 12-15), insieme all'omonimo procedimento ed a quello denominato di “composizione assistita della crisi” (artt. 16-23), intesi come strumenti preventivi adeguatamente “distanziati” dalla fase giurisdizionale e destinati a risolvere i problemi dell'imprenditore senza necessariamente costringerlo ad accedere a quest'ultima, anche nell'ottica di un risparmio di costi e di tempi.

La definizione di “insolvenza” nella Legge Fallimentare e nelle norme sulle Amministrazioni Straordinarie

Come noto, l'art. 5 l.fall. non fornisce una vera e propria definizione di “insolvenza”, ma precisa che questa si manifesta con inadempimenti o altri “fatti esteriori”, i quali dimostrano l'incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. L'art. 3, D. Lgs. n. 270/1999 riprende tout court il termine “insolvenza” così come proveniente dalla Legge Fallimentare senza caratterizzarlo ulteriormente, e lo stesso fa l'art. 1, D. L. n. 347/2003 a proposito delle imprese c.d. “grandissime”.

L'approccio empirico-descrittivo utilizzato dal legislatore del 1942 e dai successivi interventi in materia di Amministrazione Straordinaria ha indotto la giurisprudenza a raffinare una nozione di insolvenza rivolta anche al fenomeno in sé e non solo alla sua manifestazione concreta, consolidatasi nel corso degli anni attraverso l'ormai tradizionale sintesi di quella “situazione d'impotenza strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività” (Cass. 10.6.2019, n. 15572; App. Milano Sez. IV 29.10.2019, n.; App. Venezia Sez. I 7.11.2019; App. Catania Sez. I 7.11.2019).

In evidenza

Cass. 10 giugno 2019, n. 15572: lo stato d'insolvenza dell'imprenditore commerciale quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d'impotenza strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività”.

Per quanto sintetica, la nozione di insolvenza messa a punto in sede applicativa può considerarsi un accettabile modo di compendiare il deficit dell'elemento più propriamente economico-patrimoniale (la natura strutturale) accanto a quello della componente finanziaria (l'inadeguatezza della liquidità), ponendo entrambi sullo sfondo di un'ottica temporale che da un lato richiede la loro persistenza in termini non effimeri o comunque temporanei, e dall'altro impone all'osservatore di individuare in prospettiva futura la definitività di una situazione così gravemente deteriorata.

Da una simile impostazione di fondo è stato possibile distillare una serie di corollari diretti ad accertare la predicabilità, nel caso concreto, di una situazione attuale di dissesto, così da orientare l'interprete nell'eventuale declaratoria di fallimento.

  • per quanto l'insolvenza si manifesti anche attraverso l'inadempimento, i due concetti rimangono nettamente distinti (anche sotto il profilo ontologico: il primo è uno stato, il secondo un fatto), tanto che l'imprenditore può essere ritento insolvente pur in assenza di inadempimenti involontari o non irrisori, quando sussistono altri “fatti esteriori” significativi (cfr. Cass. 15.12.2017, n. 30209; Cass. 8.8.2013, n. 19027).
  • la prevalenza in bilancio delle passività sulle attività, ancorché marcata, può non essere reputata idonea a fornire di per se stessa la prova dell'insolvenza, potendo lo sbilancio venire superato dalla prospettiva di un favorevole andamento futuro degli affari, o da eventuali ricapitalizzazioni aziendali (Cass. 20.11.2018, n. 29913; Cass. 1.12.2005, n. 26217).
  • del tutto specularmente, il debitore può essere dichiarato insolvente anche in presenza di un'eccedenza contabile dell'attivo sul passivo, ogniqualvolta essa derivi dal valore attribuito a cespiti patrimoniali non agevolmente liquidabili, o la cui alienazione risulterebbe incompatibile con la permanenza dell'impresa sul mercato e con il rispetto, da parte sua, delle obbligazioni già contratte ed in prossima scadenza (Cass. 20.11.2018, n. 29913, cit.).

In evidenza:
Cass. 20 novembre 2018, n. 29913: “Il riferimento alla necessità di riscontrare l'insolvenza mediante una valutazione delle condizioni economiche necessarie (secondo un criterio di normalità) all'esercizio di attività economiche postula che il detto stato non sia escluso - per le società operative - dalla circostanza che l'attivo superi il passivo e che non esistano conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili”.

  • l'esistenza di una situazione di insolvenza attuale e destinata a permanere per un lasso di tempo significativo, accertata dal giudice di merito attraverso la ricorrenza di adeguate forme di manifestazione, non può venire neutralizzata in sede di dialettica pre-fallimentare attraverso la mera prefigurazione di un suo futuro superamento in chiave prospettica grazie a virtuose iniziative di risanamento poste in essere dal debitore (Cass. 20.11.2018, n. 29913, cit.. Si veda, in senso contrario, il recente decreto del Tribunale di Benevento 18.12.2019, in IlCaso.it 4.1.2020, secondo cui se può giungersi a “dichiarare il fallimento di un imprenditore la cui insolvenza non è ancora attuale, ma verrà a manifestarsi con certezza in un arco temporale comunque ristretto (c.d. insolvenza prospettica), a maggior ragione la stessa valutazione può compiersi a contrario, per escludere l'insolvenza dell'imprenditore che si trovi in uno stato di difficoltà solo temporanea, quando emerga che detto stato è superabile attraverso la ordinaria prosecuzione dell'attività di impresa”).
  • per converso, l'apertura della procedura concorsuale si giustifica pur in assenza di inadempimenti già insorti (intesi come fenomeni rivelatori dell'impotenza strutturale richiesta dall'art. 5 l.fall.), ma in presenza di una valutazione prognostica negativa in ordine all'imminente evoluzione delle condizioni economico-finanziarie dell'imprenditore, come può accadere sulla base di ingenti perdite d'esercizio pregresse, di stime negative sull'andamento aziendale in un orizzonte temporale di pochi mesi, di peso dell'indebitamento, di infauste previsioni congiunturali o del settore merceologico di riferimento (Trib. Roma 5.9.2008 nel caso Alitalia; Trib. Torino 14.11.2008, Giur. it. 2009; P.Pajardi-A. Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2013, 57). In sintesi, benché la valutazione circa la capacità dell'imprenditore di fare regolarmente fronte alle proprie obbligazioni si attui necessariamente nel momento in cui va accertata la sussistenza del presupposto oggettivo per la dichiarazione di fallimento, i suoi estremi di parametrazione non sono esclusivamente quelli passati e presenti, ma anche futuri, tra cui in particolare l'idoneità dell'impresa, quantomeno nel breve periodo, a continuare ad operare proficuamente sul mercato in modo da acquisire risorse da destinare all'adempimento delle proprie obbligazioni in una cornice di “normalità” (cfr. Cass. 27.2.2001, n. 2830; M. Sandulli, Sub art. 5, Il nuovo diritto fallimentare, a cura di A. Jorio, Bologna, 2006, I, 90).

L'insolvenza prospettica nella giurisprudenza

Quest'ultima considerazione introduce il tema, divenuto via via sempre più centrale, della prospettiva temporale in cui va collocata la rilevazione dell'insolvenza, ed in particolare della fallibilità di un imprenditore che, pur non presentando ancora gli indici esteriori tipici del dissesto (in particolare gli inadempimenti), denoti una situazione economico-finanziaria già rivelatrice, nel breve termine, di un'imminente incapacità strutturale ad onorare regolarmente le proprie obbligazioni. Le ripetute aperture giurisprudenziali ad una simile ricostruzione (presenti già a far tempo dai primi anni 2000, in chiara evoluzione rispetto ad una fase originaria dove si giungeva a prevedere quali requisiti inespressi per la dichiarazione di fallimento, oltre al mancato pagamento, la formazione del titolo esecutivo ed il pignoramento infruttuoso) hanno definitivamente modificato i termini del confronto, valorizzando in modo crescente sia la visione “prospettica” della capacità dell'imprenditore di fare ordinatamente fronte ai propri impegni, sia l'analisi dell'adeguatezza della complessiva organizzazione aziendale a perseguire l'obiettivo di rimanere sul mercato attraverso l'esercizio di un'attività profittevole o comunque remunerativa (G. Capo, I presupposti del fallimento, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, 1, diretto da G. Fauceglia-L. Panzani, Torino, 2009, 65). Ciò ha consentito alla Corte di Cassazione di accertare l'insolvenza quando dai dati contabili dell'impresa si evinca che il debitore non dispone di risorse idonee a fronteggiare in modo regolare le proprie obbligazioni, tenuto conto dei loro termini di scadenza nonché della natura e composizione dei beni patrimoniali da cui sia ipotizzabile ricavare quanto necessario per farvi fronte (Cass. 20.11.2018, n. 29913, cit..

Si veda anche il già citato Trib. Benevento 18.12.2019, Il Caso.it secondo cui “l'indagine sullo stato di insolvenza (…) deve compiersi in una "prospettiva dinamica", volta a valutare le condizioni economiche dell'impresa in un lasso di tempo futuro ancorché contenuto”, così da poter “dichiarare il fallimento di un imprenditore la cui insolvenza non è ancora attuale, ma verrà a manifestarsi con certezza in un arco temporale comunque ristretto (c.d. insolvenza prospettica)”, in quanto “la necessità di una valutazione prospettica dell'insolvenza è insita nella stessa definizione del presupposto ex art. 5, l. fall., non potendosi altrimenti distinguere la mera difficoltà transitoria dalla incapacità strutturale e permanente”).

Sul tema si è recentemente pronunciato il Tribunale di Milano, chiamato da un gruppo di obbligazionisti titolari di crediti non ancora scaduti a dichiarare il fallimento di una società di navigazione, ritenuta insolvente pur in assenza di inadempimenti o altri “fatti esteriori” classici (carichi tributari/previdenziali, iniziative esecutive o monitorie, passività bancarie), o comunque destinata a diventarlo entro i dodici mesi (in questo Portale, 10.10.2019 e 18.10.2019, con nota di S. Sanzo). Nel rigettare l'istanza (confermando peraltro che il fallimento può derivare anche da un'insolvenza non ancora esteriorizzata in tutta la sua gravità ma prognosticamente irreversibile), il Tribunale si è concentrato sulla “zona grigia” in cui si colloca l'impresa caratterizzata da una crisi intrinseca ma ancora asintomatica, ed ha concluso che quest'ultima, per poter venire accettata come “insolvenza prospettica”, deve associarsi ad un orizzonte temporale molto contenuto, poiché quanto più la prognosi è futura, tanto maggiori sono le variabili nuove ed imprevedibili che possono interagire nel funzionamento del meccanismo aziendale, condizionandone l'esito. Per questo motivo, l'utilizzo della “insolvenza in prospettiva” per affermare la sussistenza dell'elemento oggettivo richiesto per la dichiarazione di fallimento va attuato con prudenza, soprattutto ove lo scenario di sua futura consumazione non rientri nel breve termine (dieci-dodici mesi).

In evidenza:

Tribunale di Milano 3 ottobre 2019: “la insolvenza è tradizionalmente connessa allo stato di irreversibilità della situazione di grave crisi in cui l'impresa versa. (…) La irreversibilità della crisi si sostanzia in una previsione negativa sulla possibilità che i crediti dell'impresa possano trovare integrale soddisfazione. Sussiste, però una zona grigia, un momento in cui la crisi è solo intrinseca, e come fatto esterno non si manifesta ancora con inadempimenti o altri fatti esteriori. Allora diviene importante capire quando si è di fronte a c.d. insolvenza prospettica e, invece, quando si è di fronte a sola crisi di varia entità. L'insolvenza prospettica (…) è necessariamente legata ad un orizzonte temporale molto contenuto, perché quanto più la prognosi è lontana nel tempo, tanto più si possono inserire nel meccanismo imprenditoriale fattori nuovi ed imprevedibili. Essa è stata sdoganata integralmente come concetto previsionale dalla futura riforma che entrerà in vigore nell'agosto 2020, con un orizzonte temporale semestrale, ma è utilizzata come situazione di pericolo che giustifica la segnalazione interna affidata all'organo di controllo, o giustifica la segnalazione esterna affidata ai grandi creditori istituzionali”.

La nozione di “crisi” nel panorama normativo nazionale ed europeo

Né la Legge Fallimentare, né le norme speciali in materia di Amministrazione Straordinaria definiscono invece il termine “crisi”, menzionato una sola volta dall'art. 160, secondo comma, l.fall., il quale si limita a precisare che “per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”. Quantomeno nella prospettiva concordataria, dunque, l'insolvenza costituisce una sorta di “sottocategoria” della crisi, identificandosi con la variante più grave di quest'ultima, tanto che anche l'imprenditore dichiaratamente insolvente può, almeno in astratto, accedere al concordato. Per la verità, l'abrogato art. 187 l.fall., istitutivo della procedura di amministrazione controllata, riservava quest'ultima all'imprenditore “in temporanea difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni”, introducendo così una nozione (quella di “temporanea difficoltà”) distinta dall'insolvenza per la sua natura non-definitiva e non-strutturale, tanto da essere correlata all'esistenza di “comprovate possibilità di risanare l'impresa” e da venire assimilata alla “crisi” vera e propria (D. Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza, Bologna, 2006, p. 195).

Se è vero, dunque, che per l'attuale sistema normativo l'insolvenza rientra nella nozione di crisi, identificandosi con la sua propaggine più estrema, è altrettanto vero che esistono situazioni di malessere economico-finanziario prodromiche all'insolvenza ma da questa distinte, e ciò proprio in virtù del loro possibile superamento attraverso specifiche iniziative di riorganizzazione aziendale, di ricapitalizzazione e di ristrutturazione del debito (sul punto S. Ambrosini, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, in IlCaso.it, 14.1.2019, 4; G. Cavalli, La dichiarazione di fallimento. Presupposti e procedimento, in La riforma della legge fallimentare. Profili della nuova disciplina, a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2006, 31; Sandulli, Sub art. 160, in La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, II, Torino, 2006 p. 983). Anche in questo caso, gli indicatori di una situazione di crisi possono avere natura e connotati tra loro diversi.

Molto spesso, la principale modalità di manifestazione della crisi attiene al profilo finanziario o di liquidità dell'impresa, quando i flussi di cassa correnti e futuri generati dall'attività aziendale non sono in grado di sostenere i debiti in scadenza. Ciò non significa, ovviamente, che la causa della crisi sia sempre e comunque di tipo finanziario (come accade, ad esempio, in presenza di una distonia tra la struttura degli investimenti e quella dei finanziamenti, o di significative asimmetrie temporali fra incassi e pagamenti), ma quando ciò accade il suo superamento passa in genere attraverso un'iniziativa di consolidamento e riduzione del debito, affiancata da misure di ricapitalizzazione e da un più attento controllo sulla sostenibilità finanziaria dell'attività caratteristica.

  • E' risaputo, peraltro, come l'origine di una crisi sia quasi sempre industriale, o comunque “strutturale”, prima che finanziaria (in tal senso P. Bosticco, Il nuovo Codice della crisi e dell'insolvenza: disposizioni generali e definizioni, in questo Portale, 8.7.2019; si veda anche R. Ranalli, I piani d'impresa nel governo societario e nella composizione della crisi tra il regime attuale e la riforma, in Fallimento, 2018, 1051). Può quindi accadere che lo squilibrio aziendale, prima ancora di riflettersi sotto il profilo della liquidità, interessi l'aspetto della redditività o comunque della capacità dell'impresa di rimanere sul mercato con esiti profittevoli. In questo caso, per superare la crisi occorre in genere adottare internamente sia misure di riorganizzazione o di ristrutturazione organizzativa, sia iniziative di natura patrimoniale (dismissione di cespiti non strategici) e finanziaria (immissione di nuova liquidità in azienda anche attraverso l'ingresso di nuovi soci); sul versante esterno, lo strumento più idoneo è rappresentato dall'accordo di ristrutturazione dei debiti in senso parzialmente remissorio e dilatorio, o dal concordato preventivo con continuità nelle realtà imprenditoriali più ampie ed articolate sotto il profilo del ceto creditorio.
  • La crisi può inoltre presentare una connotazione patrimoniale, quando lo squilibrio nei conti si manifesta attraverso lo sbilanciamento tra attivo e passivo, senza che l'impresa evidenzi ancora problemi di liquidità (perché, ad esempio, continua a godere del credito bancario). In questo caso, l'eccedenza dei debiti sulle attività determina un valore negativo del patrimonio netto ed una consumazione del capitale sociale, introducendo così una prospettiva liquidatoria potenzialmente in contrasto con il principio di continuità aziendale (L. Guglielmucci, La riforma in via d'urgenza della legge fallimentare, Torino, 2005, 61), cui l'imprenditore deve fare fronte attraverso la ricapitalizzazione della società, l'adozione di iniziative di restructuring organizzativo (revisione dei processi e delle strategie aziendali per migliorare i risultati di gestione) ed il ricorso a strumenti negoziali o procedure giudiziali volti a rendere sostenibile l'indebitamento in termini di volumi e di scadenze temporali.

Non a caso, il tema dello squilibrio tra debiti ed attività, rapportato a specifiche situazioni dimensionali e soggettive, ha condotto il legislatore a fornire l'unica descrizione attualmente in vigore di un modo di manifestazione della crisi, vale a dire il sovraindebitamento (art. 6, comma 2., L. 27.1.2012, n. 3), definito come la “situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà ad adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente”.

Per quanto il fenomeno disciplinato dall'art. 6, L. n. 3/2012 non sia quello della crisi d'impresa “tipica”, bensì una sua declinazione su scala minore in ragione dei soggetti interessati, non può sfuggire come la nozione di sovraindebitamento accosti due fenomeni tra loro diversi (la “rilevante difficoltà” e la “definitiva incapacità” di adempiere) prospettandoli come derivanti da un unico fatto generatore, costituito dal “perdurante” (e quindi non episodico o momentaneo) disallineamento tra obbligazioni in scadenza e patrimonio “liquido” o “facilmente liquidabile”. Ciò consente di mettere a fuoco una delle caratteristiche che viene normalmente ricollegata alla crisi per differenziarla dall'insolvenza, vale a dire la “reversibilità” dello squilibrio che genera il malessere aziendale: a seconda che esso sia o meno reversibile, infatti, l'esito della reazione da parte dell'imprenditore può coincidere con il ripristino delle normali condizioni di efficienza e quindi con il risanamento dell'impresa, oppure (se ormai endemico o strutturale) con la definitiva cessazione dell'attività, quantomeno ad opera del soggetto non più in grado di operare in condizioni di permanenza sul mercato.

Come è stato correttamente notato, il carattere della “reversibilità” non va enfatizzato oltremodo nel differenziare la crisi dall'insolvenza, in quanto l'ordinamento concorsuale offre un esempio di “insolvenza reversibile” in materia di Amministrazione Straordinaria , dove l'impresa dichiarata insolvente può per espressa previsione normativa passare attraverso il c.d. “programma di risanamento(artt. 27 e 54-56 D. Lgs. n. 270/1999 ed art. 2, D.L. n. 347/2003) e ritornare in bonis; tuttavia, il carattere eccezionale di questa fattispecie contribuisce a rafforzare la convinzione per cui uno dei criteri distintivi tra insolvenza e crisi é proprio la suscettibilità di quest'ultima a venire riassorbita se intercettata in tempo utile, prima di assumere carattere definitivo e strutturale e divenire quindi insolvenza conclamata.

Una conferma di ciò si rinviene nella recente Direttiva UE n. 1023/2019 del 20.6.2019 dedicata ai c.d. “quadri di ristrutturazione preventiva” (preventive restructuring frameworks”), destinata ad essere recepita entro il 17.7.2021 (ancor prima, dunque, della prevista entrata in vigore del Codice della crisi) ed istitutiva dell'obbligo per gli Stati membri di assicurare un regime diretto a facilitare la ristrutturazione preventiva dell'impresa laddove vi sia “probabilità di insolvenza” (insolvency likelihood). Pur non fornendo una definizione normativa di “crisi”, il “considerando” n. 2 della Direttiva individua i soggetti interessati dalla sua applicazione nei “debitori in difficoltà finanziarie” intenzionati a “ristrutturarsi efficacemente in una fase precoce e prevenire l'insolvenza”, mentre l'art. 3, lett. b), nel rinviare ai vari diritti nazionali con riferimento al concetto di “probabilità di insolvenza”, utilizza la medesima espressione introdotta dalla Raccomandazione 135/2014/UE del 12.3.2014 e sostanzialmente ripresa dall'art. 2, lett. a) del D. Lgs. 12.1.2019, n. 14 per definire la crisi.

Al di là dell'apparente caratterizzazione della crisi in senso unicamente “finanziario”, risulta evidente dal corpo della Direttiva come la sua demarcazione rispetto all'insolvenza risieda proprio nell'opportunità di superare le difficoltà dell'imprenditore attraverso misure interne ed esterne di riorganizzazione e ristrutturazione che allontanino la “probabilità di insolvenza” e riportino l'impresa alle normali condizioni di economicità ed efficienza, determinando così una regressione della crisi.

Insolvenza e crisi nel D. Lgs. 12.1.2019, n. 14

Nel testo del nuovo CCII (art. 2, comma 1., lett. b), la definizione dello stato di insolvenza riprende in modo pressoché testuale quella indicata dall'art. 5 l.fall., riaffermando così il principio per cui non può considerarsi insolvente chi é in grado di adempiere alle proprie obbligazioni alla scadenza, integralmente ed attraverso mezzi ordinari di pagamento. L'espressa riproposizione degli inadempimenti come possibile forma di manifestazione dell'insolvenza va posta in correlazione con la distinta figura dei “ritardi qualificati nei pagamenti”, prevista dall'art. 13, comma 1. come uno degli indicatori della crisi: considerato che anche la mora nel pagamento nasce come inadempimento, sanabile successivamente, la distinzione riecheggia il concetto di reversibilità esaminato in precedenza, ricollegando all'insolvenza il mancato pagamento divenuto ormai definitivo o irreversibile, e correlando invece alla crisi quello “temporaneo”, ossia eseguito in ritardo ma pur sempre entro un limite di tempo accettabile e comunque normativamente definito, posto che l'art. 13 richiama espressamente i termini del successivo art. 24 (debiti per retribuzioni scaduti da almeno sessanta giorni e debiti verso fornitori scaduti da almeno centoventi giorni).

Una delle novità contenute nel CCII, invece, è la definizione della crisi, sintetizzabile come “probabilità di futura insolvenza” e come tale concettualmente distinta dall'insolvenza stessa, in evidente discontinuità logica rispetto all'art. 160, secondo comma, l.fall., che fa invece dell'insolvenza una sottoinsieme della crisi, e quindi una species del medesimo genus.

Originariamente definita dall'art. 2, comma 1. lett. come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l'insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” (espressione, peraltro, già modificata dallo schema di Decreto Correttivo A.G. 175, in fase di approvazione alle Camere, con l'introduzione del termine “squilibrio” in luogo di quello “difficoltà”), nello scenario delineato dal CCII la crisi non costituisce solo il presupposto per l'accesso alle varie procedure di sua regolazione, ma rappresenta il detonatore che fa scattare gli obblighi interni di segnalazione previsti dall'art. 14, e che in sintesi sta alla base del nuovo meccanismo dell'allerta.

La valorizzazione del profilo finanziario nella definizione di “crisi” proposta dal CCII non va però enfatizzata oltremodo, sia perché la Relazione illustrativa le riconnette finalità meramente esplicative o di sintesi, sia in quanto essa appare coerente con il principio-base della legge-delega, volto ad introdurre una nozione di crisi modulata proprio sulla falsariga di “probabilità di futura insolvenza”. Inoltre, sono le stesse norme dedicate all'allerta a spiegare che la rilevazione della crisi, in concreto, richiede valutazioni di natura patrimoniale, oltreché finanziaria, in quanto l'art. 13 comma 1. fa riferimento sia alla continuità aziendale (quindi anche all'evoluzione del patrimonio netto), sia all'adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi, mentre alcuni degli indici elaborati dal CNDCEC in forza delle delega di cui al comma 2. attengono proprio all'aspetto strutturale dell'impresa.

In definitiva, il modello proposto dal CCII non vede la crisi solo nell'ottica di un disallineamento tra flussi di cassa e pagamenti da eseguire, ma anche nella prospettiva di uno squilibrio in termini negativi tra crediti e debiti.

Tra crisi, insolvenza e Covid-19

La prioritaria esigenza, espressa dalla Legge-Delega, di favorire una tempestiva emersione della crisi per evitare che si trasformi in insolvenza ha indotto il CCII a tipizzarla in un modo che è stato ritenuto molto prossimo all'insolvenza “prospettica”, posto che anche quest'ultima si risolve nell'insufficienza dei flussi finanziari previsti a garantire l'adempimento delle obbligazioni in scadenza, sulla falsariga della “inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” di cui all'art. 2 (A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCII alla resilienza della twilight zone, Il Fallimento, 2019, 293; G. Terranova, Insolvenza, stato di crisi, sovraindebitamento, Torino, 2013, 75; Trib. Milano 22.10.2019, cit., anche in IlCaso.it con commento di R. Della Santina, Crisi d'impresa e insolvenza prospettica dell'imprenditore: questioni ancora aperte nell'imminenza dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019).

In effetti, nel ricomprendere tra gli indicatori della crisi i “ritardi nei pagamenti reiterati e significativi” modellati sulla base dell'art. 24 (mora di oltre sessanta giorni nel pagamento delle retribuzioni e di oltre centoventi giorni nel saldo dei fornitori), l'art. 13 valorizza una circostanza che attualmente riveste, in tema di revocatoria fallimentare, valore sintomatico dello stato d'insolvenza (A. Rossi, Dalla crisi tipica, cit., 293; S. Leuzzi, Indicizzazione della crisi d'impresa e ruolo degli organi di controllo: note a margine del nuovo sistema, in IlCaso.it, 28.10.2019).

Ancora, l'orizzonte temporale di sei mesi previsto dall'art. 13 comma 1. per valutare la sostenibilità dei debiti a scadere é significativamente più breve rispetto a quello di dodici mesi utilizzato in ambito aziendalitico al fine di accertare la sussistenza della continuità aziendale (si veda il principio di revisione internazionale (ISA Italia) 570, che impone al revisore la verifica prognostica del going concern almeno per il periodo di un anno, onerandolo di “considerare se sussistano eventi o circostanze che possano far sorgere dei dubbi significativi sulla capacità dell'impresa di continuare ad operare come entità in funzionamento”). In un'ottica di rigorosa applicazione dei principi generali, quindi, le scelte operate dal CCII nel delineare la crisi e le sue manifestazioni possono apparire non sufficientemente incisive per raggiungere l'obiettivo di farla emergere precocemente e di costringere l'impresa a superarla.

Lo scenario di riferimento è tuttavia radicalmente mutato a seguito dell'emergenza pandemica da Covid-19, il cui impatto sulla realtà degli operatori economici si è rivelato così traumatico da spingere il legislatore non solo a rinviare l'entrata in vigore del CCII (art. 5, D.L. 8.4.2020, n. 23), ma anche a sospendere temporaneamente l'applicazione delle regole-base in materia di redazione del bilancio e continuità aziendale (art. 7), riduzione del capitale (art. 6) e finanziamenti alle società (art. 8), nonché da ultimo a differire al 2022 l'obbligo di nomina dell'organo di controllo o del revisore nelle S.r.l. (emendamento al d.d.l. per la conversione del D.L. “Rilancio” 19.5.2020, n. 34 approvato dalla Commissione Bilancio della Camera il 29.6.2020). Al di là delle giuste critiche suscitate tra gli interpreti circa il carattere indiscriminato e “non-selettivo” di tali proroghe (D. Galletti, Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra, in questo Portale, 14.4.2020; R. Rordorf, Il codice della crisi e dell'insolvenza in tempi di pandemia, in Giustizia insieme, 8.4.2020), il dato di fatto che ne emerge è quello di un contesto dove il pendolo del legislatore sembra orientarsi verso un allontanamento, quantomeno temporaneo, da dinamiche particolarmente virtuose nell'emersione della crisi, riavvicinandosi nel contempo ad una dimensione di maggiore tolleranza nei confronti di situazioni di squilibrio economico-finanziario sulle quali, a torto o a ragione, aleggia lo spettro della pandemia.

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