Somministrazione irregolare e imputazione del licenziamento: interpretazione autentica dell'art. 38, co. 3, d.lgs. n. 81 del 2015
31 Luglio 2020
L'art. 80-bis del d.l. n. 30 del 2020 (cd. Decreto Rilancio), aggiunto con la legge di conversione n. 77 del 2020 (pubblicata nella G.U. n. 180 del 18 luglio 2020), ha introdotto una significativa novità in materia di somministrazione irregolare.
La norma, infatti, rubricata “Interpretazione autentica del comma 3 dell'articolo 38 del d.lgs. n. 81/2015” dispone espressamente che “il secondo periodo del comma 3 dell'art. 38 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento”.
***
La prima, rilevante, questione che la norma pone attiene all'ambito di applicazione temporale della stessa.
Ai sensi dell'articolo 11 delle disposizioni sulle leggi in generale, che disciplina l'efficacia della legge nel tempo, infatti, “la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.
Si tratta di un principio privo di rango costituzionale, che può essere derogato dal legislatore secondo un criterio di ragionevolezza e mediante una norma espressa che intervenga chiaramente anche per il passato; infatti, “la Costituzione non fissa limiti alla potestas legis adicendi, del legislatore, salvo quello dell'irretroattività della legge penale (art. 25 Cost.), ponendo il rispetto dello stesso giudicato su un piano di mera opportunità politica” (Cass., 8 ottobre 1990, n. 9899).
Il suddetto limite (di irretroattività) non riguarda le norme di interpretazione autentica, ossia quelle che il legislatore emana per chiarire il significato di norme preesistenti o per comporre una situazione di squilibrio emerso anche da un contrasto giurisprudenziale e, dunque, con l'intento di “imporre un determinato significato a precedenti disposizioni di pari grado, così da far regolare dalla nuova norma a fattispecie sorte anteriormente alla sua entrata in vigore, dovendosi escludere, (…) che la disposizione possa essere intesa come diretta ad imporre una determinata disciplina solo per il futuro” (in tal senso, Cass., S.U., 29 aprile 2009, n. 9941).
Il carattere interpretativo autentico di una legge, tuttavia, non è dato dalla qualificazione che di essa fornisce il legislatore, ma “dipende esclusivamente dal suo contenuto, caratterizzato dall'enunciazione di un apprezzamento interpretativo circa il significato di un precetto antecedentecui la norma si ricollega nella formula e nella ratio da un momento precettivo con il quale il legislatore impone questa interpretazione, escludendone ogni altra, non solo per il passato ma anche per il futuro e che ha perciò sempre efficacia retroattiva, a meno che la legge disponga altrimenti” (principio quest'ultimo ormai consolidato e risalente, Cass., S.U., 4 marzo 1983, n. 1622; nello stesso senso, tra le tante, Cass., 12 luglio 1986, n. 4527). Ove, viceversa, la norma non si limiti a chiarire la portata di una previsione già esistente, ma introduca un elemento modificativo ed innovativo non si verte in un'ipotesi di interpretazione autentica, con la conseguenza che la norma troverà applicazione solo per il futuro, salva diversa ed espressa previsione della legge (Cass., 16 giugno 1986, n. 4022; Cass., 5 ottobre 1988, n. 5371).
Applicando i principi esposti all'art. 80-bis si potrebbe ritenere che, a prescindere dalla qualificazione contenuta nella rubrica della norma, l'intervento del legislatore non sia di tipo interpretativo autentico, ma modificativo ed innovativo per cui, in assenza di una espressa previsione anche per il passato, la norma non avrebbe un'efficacia retroattiva, ma solo per il futuro.
L'art. 38 del d.lgs. n. 81 del 2015, infatti, nella parte oggi novellata non aveva posto una questione interpretativa ed applicativa così significativa da richiedere un intervento mediante una norma di interpretazione autentica.
Le poche pronunce della giurisprudenza in materia non hanno fatto emergere un significativo contrasto giurisprudenziale.
Tra le più rilevanti vi è certamente la sentenza del 5 luglio 2016 n. 17969, ove il Supremo Collegio – pur pronunciatosi sull'art. 27 d.lgs. n. 276 del 2003 – ha precisato che ove il legislatore con la norma richiamata dispone in maniera espressa ed inequivoca che “tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o per la gestione del rapporto (...) si intendono compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione”,sancisce che l'utilizzatore subentra nei rapporti così come poi gestiti dal somministratore (…) sia per quanto riguarda gli atti di gestione del rapporto, questi producono per espressa volontà del legislatore, tutti gli effetti negoziali anche modificativi del rapporto di lavoro, loro propri, ivi incluso il licenziamento” ritenendo, di conseguenza, che “il licenziamento, anche se intimato (…) dal somministratore dovrà essere impugnato nei sessanta giorni successivi alla sua comunicazione, pena la ordinaria decadenza dall'azione di annullamento anche rispetto all'utilizzatore, non potendo ormai trovare applicazione i principi affermati da questa Corte con riguardo alla L. n. 1369 del 1960”.
Dello stesso tenore sono anche i successivi interventi della giurisprudenza di merito che, nel richiamare espressamente la pronuncia della Cassazione appena citata, hanno confermato che tra gli atti di gestione indicati dal legislatore del 2003 deve essere ricompreso anche il licenziamento quale atto modificativo del rapporto di lavoro (così, Corte di Appello di Milano del 30 maggio 2019 n. 670/2019, Corte di Appello di Roma, del 22 maggio 2020, n. 1079/2020 e Corte di Appello di Brescia del 2 ottobre 2014 in Lav. giur, 2015, 393).
Anche più di recente, il Supremo Collegio ha confermato il principio espresso con la sentenza n. 17969 del 2016, altresì precisando, a conferma di quanto ivi affermato, che “una volta che l'interpretazione della regula iuris è stata enunciata con intervento nomofilattico della Corte regolatrice essa ha anche vocazione di stabilità (…) per cui se la formula della legge, la cui interpretazione è nuovamente messa in discussione, è rimasta inalterata, una sua diversa interpretazione non ha ragione di essere ricercata e la precedente abbandonata, quando l'una e l'altra sono compatibili con la lettera della legge, essendo da preferire (…) l'interpretazione sulla cui base si è, nel tempo, formata una pratica di applicazione stabile (Cass. S.U. 10864/2011) (…)” (Cass., 7 marzo 2019, ordinanza n. 6668).
In termini a prima vista difformi da tali arresti sembra porsi la sentenza dell'11 aprile 2018 n. 22179 ove il Supremo Collegio, rinviando ai principi espressi in costanza della leggen. 1369 del 1960, ha affermato che non è possibile fuori dei casi previsti dalla legge una “disarticolazione fra titolare e utilizzatore del rapporto lavorativo con una consequenziale disarticolazione e regolamentazione tra i due obblighi correlati alla prestazione lavorativa”, in quanto “la struttura del rapporto di lavoro subordinato (…) è bilaterale e non plurilaterale” per cui “l'effettivo utilizzatore delle prestazioni lavorative si sostituisce all'interposto nell'unico rapporto di lavoro, cosicchè l'eventuale licenziamento intimato da quest'ultimo deve considerarsi giuridicamente inesistente”. Tuttavia, in tale ultimo caso il Supremo Collegio si è pronunciato su una fattispecie molto specifica di distacco la cui non genuinità era già stata accertata in un precedente giudizio ed in relazione al quale il licenziamento intimato dalla distaccante poteva perciò qualificarsi come inesistente in quanto posto in essere da un soggetto già ritenuto non essere il datore di lavoro effettivo del lavoratore distaccato. La specificità della fattispecie affrontata nel caso richiamato, induce a ritenere la pronuncia, ed i principi ivi espressi, non del tutto sovrapponibile a quelli più sopra richiamati e, pertanto, non necessariamente in contrasto con essi.
Ove, dunque, per quanto appena esposto si dovesse ritenere che l'art. 80-bis non sia una norma di interpretazione autentica, mancando in essa una specifica previsione di retroattività, essa dovrebbe trovare applicazione solo per il futuro, vale a dire, in termini concreti, per i licenziamenti irrogati dopo il 18 luglio 2020, data della sua entrata in vigore.
Qualora, invece, secondo l'espressa indicazione del Legislatore l'art. 80-bis dovesse qualificarsi norma di interpretazione autentica si pone il problema di comprendere a quali licenziamenti essa trovi applicazione.
Come ricordato in precedenza, infatti, la norma di interpretazione autentica ha un'efficacia retroattiva e, in quanto tale, produce effetti anche per atti e/o rapporti già verificatisi all'epoca della sua entrata in vigore, non potendo incidere solo su rapporti già interamente esauriti.
Del resto, la giurisprudenza ha chiarito che la legge interpretativa “non incontra ostacoli in atti e fasi di un rapporto privi di autonomia e rilevanza giuridica propria, per i quali possono vantarsi diritti acquisiti per decadenze e preclusioni solo a fronte di una legge autenticamente innovativa. Per contro, la legge interpretativa (…) disciplina anche gli effetti di attività ed eventi verificatisi nell'iter di svolgimento del rapporto medesimo (…) con conseguente applicabilità, anche d'ufficio, nei giudizi in corso (…)” (Cass., 4 giugno 1983, n. 3813; Cass., 18 maggio 2010, n. 12114).
Ne segue che dovrebbero ritenersi interessati quei licenziamenti irrogati dal somministratore sub iudice e per i quali ancora non vi sia una pronuncia passata in giudicato sull'imputabilità del licenziamento all'utilizzatore; mentre non potrebbero essere interessati dalla novella legislativa i licenziamenti per i quali alla data della sua entrata in vigore vi sia sulla questione una pronuncia oramai definitiva.
Ovviamente, anche se la nuova norma esclude che il lavoratore debba impugnare il licenziamento irrogatogli dal somministratore per evitare che se ne consolidino gli effetti anche a favore dell'utilizzatore, resta che nel caso in cui al licenziamento consegua la cessazione dell'attività lavorativa presso l'utilizzatore egli avrà comunque l'onere di impugnare tale cessazione (non il licenziamento) entro il termine di decadenza dicui all'art. 6 legge n. 604 del 1966, giusta la previsione contenuta nell'art. 32, comma 4, legge n. 183 del 2010.
***
L'art. 80-bis l. 77 del 2020 pone un'altra questione di indubbio rilievo, che concerne l'ambito “soggettivo” di applicazione.
Alcuni interpreti, infatti, all'indomani della approvazione della norma hanno ritenuto che la stessa trovi applicazione solo alla somministrazione di lavoro, tenuto conto del tenore letterale della previsione contenuta nell'art. 80-bis che fa esclusivo riferimento a tale ultimo istituto (e non anche ad altre fattispecie interpositorie e di dissociazione tra datore di lavoro formale e sostanziale) e precluderebbe, pertanto, qualsiasi interpretazione estensiva o analogica di essa.
Un'interpretazione sistematica della norma, tuttavia, porta a ritenere che essa trovi applicazione anche alle fattispecie interpositorie dell'appalto e del distacco non genuini. Invero, per entrambe le fattispecie la legge dispone - come per la somministrazione - che il lavoratore possa chiedere mediante ricorso giudiziale la costituzione di un rapporto di lavoro in capo all'utilizzatore e che in tali ipotesi “si applica il disposto dell'art. 27, comma 2” (cfr. artt. 29, comma 3-bis, e 30, comma 4-bis, d.lgs. n. 276 del 2003), che disponeva, appunto, che “tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione e la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione”.
Anche se l'art. 27 del d.lgs. n. 276 del 2003 è stato abrogato dal d.lgs. n. 81 del 2015, quest'ultimo, introducendo agli artt. 30 e ss. una nuova disciplina della somministrazione di lavoro, all'art. 38 ha riprodotto quasi integralmente, l'art. 27.
Ne consegue che ad oggi il rinvio all'art. 27 del d.lgs. n. 276 del 2003 contenuto ai commi 3 bis e 4 bis degli artt. 29 e 30 possa ritenersi riferito all'art. 38 d.lgs. 81 del 2015, anche tenuto conto che secondo la tesi prevalente – tanto in dottrina quanto in giurisprudenza – l'appalto e il distacco non genuini – disposti, cioè, al di fuori dei limiti di legge -, si risolvono in sostanza in una “somministrazione irregolare”.
In tale ultimo senso, del resto, si è recentemente pronunciata anche la giurisprudenza chiarendo che “l'art. 27 d.lgs. 276/2003 è stato sì abrogato dal dlgs 81/2015 (art. 55 co 1 lett. d), entrato in vigore il 25.6.2015, ma il relativo testo è stato trasfuso nell'art. 38 del dlgs 81/2015 (…)” (così Corte Appello di Milano 670/2019 cit.).
Aderendo a tale ultima lettura della norma in commento, per cui l'art. 38 d.lgs. n. 81 del 2015 trova applicazione a tutte le fattispecie interpositorie, compresi dunque l'appalto ed il distacco non genuini, è evidente che l'impatto dell'art. 80-bis risulta assai significativo.
In tutti questi casi, infatti, si pone oggi per l'utilizzatore un problema rilevante, in quanto mentre in precedenza si poteva avvalere del licenziamento intimato dal somministratore ed il lavoratore era onerato di impugnarlo, a pena di decadenza, anche verso l'utilizzatore (in tal senso, tra le altre Corte di Appello di Milano del 21.3.2019, cit.), oggi tale automatismo è escluso: con l'entrata in vigore dell'art. 80-bis legge n. 77 del 2020, l'utilizzatore non si potrà avvalere del licenziamento disposto dal somministratore, ma dovrà procedere al licenziamento in proprio, anche nel caso in cui il licenziamento sia stato irrogato per fatti avvenuti nel contesto del rapporto di utilizzazione, perciò idonei ad incidere anche sulla “fiducia” dell'utilizzatore. |