Condizioni “stressogene” sul luogo di lavoro: quando il dipendente è concorrente e non esclusivamente vittima
06 Agosto 2020
Massima
Il concorso del lavoratore nella creazione e/o nel mantenimento di una situazione di conflittualità nell'ambiente di lavoro esclude l'applicabilità dell'art. 2087 c.c., non essendo il pregiudizio asseritamente patito riconducibile in via esclusiva ad una (straining) o più condotte (mobbing) del datore.
Ove il ricorrente deduca l'illegittimità del demansionamento a fondamento della domanda, dovrà allegare le prestazioni lavorative in concreto svolte e le disposizioni del CCNL relative alla propria posizione, sì da consentire un raffronto tra le prime e quelle indicate nelle previsioni negoziali. Il caso
La lavoratrice conveniva in giudizio il Comune di Pavia asserendo di aver subito, tra il 1996 ed il 2017, periodi di demansionamento ed inattività forzosa, con trasferimenti continui (quasi uno ogni due anni) da un settore ad un altro.
Tali episodi, qualificati dalla ricorrente come straining, avrebbero causato un pregiudizio alla sua professionalità, con conseguenze tanto sulla sua salute quanto sulle sue abitudini di vita e di relazione.
Il Comune di Pavia contestava la ricostruzione formulata dalla lavoratrice, evidenziando la contraddittorietà della ricostruzione ex adverso formulata, nonché la legittimità della propria condotta, resa evidente dal compendio documentale prodotto. La questione
Dopo un demansionamento, entro che termini può riscontrarsi la sussistenza di un'ipotesi di mobbing o straining?
La soluzione
Il Tribunale di Pavia, individuati i connotati peculiari del mobbing lavorativo e della “sotto-specie” di straining, ha precisato che, al fine di accertare la sussistenza di quest'ultima ipotesi, è necessario valutare se la situazione di conflitto venutasi a creare fra le parti sia stata accentuata dal comportamento del lavoratore. Il contributo che quest'ultimo ha eventualmente dato con le proprie condotte alla determinazione di un duraturo stato di tensione, conduce ad escludere la possibilità di un ristoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. In altri termini, è la stessa condotta del lavoratore ad impedire l'individuazione di un comportamento stressogeno nei suoi confronti imputabile al datore.
Avendo la ricorrente lamentato il proprio demansionamento, il Tribunale ha proseguito l'esame della controversia seguendo un procedimento logico-giuridico fondato su tre fasi successive: l'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte; l'individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria applicato; il raffronto tra il risultato della prima indagine e le previsioni della normativa contrattuale individuati nella seconda.
Esaminando distintamente i vari periodi indicati nel ricorso, il giudice padovano ha dichiarato l'incongruenza e l'infondatezza delle asserzioni della ricorrente, smentite dal compendio documentale prodotto in giudizio. Il Tribunale ha evidenziato, in particolare, l'impossibilità di procedere all'accertamento del dedotto demansionamento, mancando una specifica indicazione da parte della ricorrente delle attività concretamente svolte e delle declaratorie del CCNL relative alla sua posizione lavorativa, con conseguente difetto di un analitico raffronto tra le prime e le disposizioni negoziali interessate, secondo le indicazioni fornite sul punto dalla giurisprudenza. Mediante l'atto introduttivo veniva solo genericamente dedotto il demansionamento, obliando il procedimento trifasico summenzionato, utile all'accertamento di quanto allegato dalla lavoratrice. Ad ogni modo, il Tribunale ha accertato come, nel caso di specie, non vi fosse stato alcun illegittimo esercizio dello jus variandi datoriale, dal momento che le diverse mansioni assegnate alla ricorrente risultavano corrispondenti al suo livello d'inquadramento. Risultava pertanto esclusa la possibilità di affermarne la responsabilità risarcitoria della parte convenuta.
Sebbene il Tribunale abbia ricondotto la fattispecie concreta ad una ipotesi di mobbing e non di straining, la domanda è stata comunque dichiarata infondata. Rispetto allo straining, infatti, non era stato individuato l'evento determinante il duraturo mutamento in peius dell'ambiente lavorativo, atteso quanto accertato documentalmente in giudizio. Mancava, pertanto, l'effettivo peggioramento delle condizioni di lavoro, essendo ciò smentito anche dal fatto che, nel quinquennio successivo agli episodi dedotti, la stessa ricorrente aveva descritto un ambiente lavorativo positivo, nonché dal mancato accertamento di condotte censurabili ed ascrivibili al Comune, determinanti un peggioramento della personale situazione della lavoratrice.
Secondo il giudice pavese, inoltre, il comportamento tenuto dalla ricorrente (assenze giustificate tardivamente, con disagi per l'organizzazione; uso di parole inopportune nei confronti di altri lavoratori) era potenzialmente idoneo a determinare una situazione conflittuale sul posto di lavoro. Tale contributo, in linea con la giurisprudenza di legittimità, escludeva che la ricorrente potesse dolersene, invocando la fattispecie dello straining (o del mobbing).
Osservazioni
L'art. 2087 c.c. rappresenta una norma di chiusura suscettibile di interpretazione estensiva, in ragione del rilievo costituzionale del diritto alla salute tutelato. Si sostiene, pertanto, che il datore di lavoro non sia tenuto solo ad attivarsi nell'adozione di tutte le misure necessarie alla tutela della condizione psico-fisica del lavoratore, ma anche ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente, mediante la creazione di condizioni lavorative "stressogene".
Relativamente alla fattispecie di mobbing, negli anni la giurisprudenza ha tratteggiato una sorta di "sistematica quadripartita della condotta mobbizzante", configurandosi tale fattispecie lesiva laddove sussistano simultaneamente: 1.una serie di comportamenti, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, posti in essere contro la persona del lavoratore in modo sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore o di un suo preposto, o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; 2. l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; 3. il nesso eziologico tra le suddette condotte ed il pregiudizio all'integrità psico-fisica e/o alla dignità; 4. l'elemento soggettivo, rectius l'intento persecutorio, unificante tutti i comportamenti lesivi (ex plurimis: Cass., sez. un., 16 novembre 2017, n. 27193).
Quanto alla rilevanza dell'elemento psicologico, sono individuabili due posizioni radicalmente opposte.
Secondo la tesi oggettiva, il nucleo della fattispecie deve individuarsi nella potenzialità lesiva della condotta, in modo tale da assicurare una protezione piena del bene "salute”, ovviando anche alle difficoltà probatorie connesse alla dimostrazione di un elemento afferente la sfera psichica datoriale. La seconda, ed opposta, opinione (c.d. soggettiva), valorizza il dato psicologico, ciò consentendo di sanzionare anche condotte astrattamente o singolarmente legittime. Dal momento che le vessazioni possono assumere molteplici forme, si è ritenuto, dunque, necessario esaltare il collante dell'intento persecutorio.
Al fine di alleggerire l'onere della prova gravante sul dipendente, si è aperto alla possibilità di dimostrare l'animus nocendi datoriale anche per mezzo di presunzioni, purché gravi, precise e concordanti (art. 2729 c.c.), ponendo una “via mediana” rispetto alla dicotomia tra impostazione oggettiva e soggettiva. L'astratta distinzione tra il motivo vessatorio e l'aspetto oggettivo della condotta, è stato affermato, indurrebbe ad identificare l'elemento soggettivo nella finalità illecita della condotta illegittima, riconducibile piuttosto alla componente obiettiva della condotta medesima. (R. Scognamiglio, A proposito di mobbing, in Riv. it. dir. lav., 2004, I, pp. 503 ss.).
Secondo un recente orientamento giurisprudenziale, inoltre, anche laddove non sia stato accertato l'intento persecutorio, idoneo ad unificare tutti gli episodi adotti dal lavoratore, il giudice non potrà prescindere dal valutare se alcuni dei comportamenti denunciati, esaminati singolarmente, possano essere considerati vessatori e mortificanti e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore, il quale potrà allora essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili.
A partire dal 2005 la giurisprudenza, sempre facendo riferimento all'art. 2087 c.c., ha definito una ulteriore fattispecie, ossia lo straining, inteso come quella situazione di stress forzato sul posto di lavoro in cui la vittima subisce almeno un'azione ingiusta, discriminante e lesiva, avente come conseguenza una perdurante modificazione in pejus della condizione lavorativa. Lo straining è individuato come una forma attenuata di mobbing, mancante del carattere della continuità delle azioni vessatorie. Esso può configurarsi, ad esempio, a seguito di un demansionamento o di una privazione degli strumenti di lavoro. In tali casi la condotta pregiudizievole si concretizza in un'azione unica ed isolata – ovvero più episodi privi tuttavia del connotato della sistematicità – potenzialmente idonea a generare una situazione stressante e temporalmente durevole, con pregiudizio per la salute del lavoratore.
Perché possa configurarsi lo straining, dunque, è sufficiente anche una sola azione, purché i suoi effetti siano duraturi nel tempo, riscontrandosi un tipo di stress superiore rispetto a quello insito nella natura stessa del lavoro e nelle normali interazioni organizzative (Trib. Chieti, sez. lav., 30 maggio 2017, n. 13).
Sembra opportuno, a questo punto, considerare quando le condizioni di stress da lavoro possano ritenersi “fisiologiche” (c.d. stress lavoro-correlato), ossia naturalmente riconducili all'ambiente di lavoro, o meglio ai c.d. rischi psico-sociali derivanti dalla progettazione, organizzazione e gestione dell'attività lavorativa che potenzialmente possono determinare l'insorgere di lesioni della salute del lavoratore, sia fisica che psichica (da valutare nell'adempimento dell'obbligo c.d. positivo gravante sul datore ex art. 28 d.lgs. n. 81 del 2008) Il quid pluris che consentirebbe di accertare, nel caso specifico, un'ipotesi di straining è individuabile nel contenuto vessatorio dell'azione, orientata alla discriminazione del dipendente e generatrice di una situazione di stress forzato e perdurante nel posto di lavoro.
Conformemente a quanto dichiarato dal Tribunale di Pavia, si precisa che l'esistenza tra le parti di una situazione conflittuale la quale non sia riferibile in via esclusiva a comportamenti tenuti dal datore, non può ritenersi riconducibile nel perimetro operativo della tutela ex art. 2087 c.c., traendo lo stress origine anche da comportamenti riconducibili allo stesso lavoratore che, dunque, contribuisce ad accentuare la situazione di tensione. Infatti, in linea giurisprudenza di legittimità sul punto, deve essere negata la natura oggettiva della responsabilità del datore per inadempimento dell'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c., afferendo l'accertamento giudiziale il difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire danni per i lavoratori in relazione all'attività svolta, non potendosi esigere, invece, un luogo di lavoro “a rischio zero” o, considerato il tema trattato, “a tensione/conflittualità zero”. Su quest'ultimo punto si precisa che, anche laddove le condotte lesive siano state poste in essere da colleghi, il datore risponderà ex art. 2087 c.c. per violazione dell'obbligo di tutela, rilevando unicamente che lo stesso sapesse - ovvero potesse sapere – della situazione conflittuale esistente sul luogo di lavoro. Ne consegue, logicamente, che qualora sia esclusa la conoscibilità, ovvero la tensione non sia eliminabile in ragione del “concorso” del lavoratore stesso nel mantenimento della stessa – mediante propri comportamenti – il datore non potrebbe essere chiamato a rispondere del pregiudizio lamentato dal dipendente. La tensione nelle relazioni personali esistenti tra i colleghi, sebbene imponga al datore di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può inoltre essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti datoriali siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore. Sul punto si rammenta la giurisprudenza in ordine al trasferimento giustificato da “incompatibilità ambientale”.
Nel caso di specie, il Tribunale ha esaminato gli episodi dedotti in giudizio, ne ha considerato l'idoneità offensiva ed ha negato di poter ravvisare una violazione degli obblighi datoriali scaturenti dall'art. 2087 c.c. nell'organizzazione della prestazione, evidenziando anche le mancanze in punto di allegazione da parte della ricorrente circa l'asserito demansionamento illegittimo. Il compendio documentale a disposizione del giudice padovano ha consentito di accertare l'insussistenza di un intento persecutorio,nonché l'infondatezza dell'asserzioni della lavoratrice circa l'esistenza, imputabile direttamente o indirettamente alla parte datoriale, di un ambiente di lavoro conflittuale, tenuto anche conto della condotta tenuta dalla medesima, potenzialmente “concorrente” nella causazione di tensioni relazionali.
Per approfondire: Zilli, Addio mobbing benvenuto straining: il mal di lavorare dannoso è sempre risarcibile, anche senza intento persecutorio, in Resp. civ. prev., 2018, 6, 1933 ss.; Lazzari, Le disfunzioni dell'organizzazione del lavoro: mobbing e dintorni, in Dir. sicur. lav., 2, 2018, 1 ss.; Calafà, Il diritto del lavoro e il rischio psico-sociale (e organizzativo) in Italia, in Lav. dir., 2012, 257 ss. |