L'opzione nel patto di non concorrenza

Francesco Pedroni
06 Agosto 2020

n fattispecie di patto di non concorrenza soggetto a opzione, considerata la struttura tipica dell'opzione prevista dall'ordinamento, la parte contrattuale vincolata all'opzione, ossia alla propria dichiarazione, non è tenuta alla prestazione contrattuale finché la controparte non accetta, costituendo, quindi, il rapporto contrattuale finale...
Massima

In fattispecie di patto di non concorrenza soggetto a opzione, considerata la struttura tipica dell'opzione prevista dall'ordinamento, la parte contrattuale vincolata all'opzione, ossia alla propria dichiarazione, non è tenuta alla prestazione contrattuale finchè la controparte non accetta, costituendo, quindi, il rapporto contrattuale finale. L'opzione determina la nascita di un diritto a favore dell'opzionario che conclude automaticamente il contratto soltanto nel caso in cui venga esercitata.

Spetta al lavoratore dimostrare di aver subito la limitazione della propria libertà contrattuale durante il rapporto di lavoro per effetto della mancata comunicazione da parte dell'azienda dell'esercizio dell'opzione.

Il caso

Un lavoratore propone appello contro la decisione del Tribunale di Monza che aveva rigettato il suo ricorso in primo grado diretto ad ottenere l'accertamento della nullità della clausola relativa al diritto di opzione apposta al patto di non concorrenza allegato al contratto di lavoro e la conseguente condanna dell'azienda datrice di lavoro al pagamento del corrispettivo stabilito nel patto stesso.

In particolare, per quanto di interesse del presente commento, la clausola in questione prevedeva la facoltà della società, a propria insindacabile discrezione, di aderire al patto di non concorrenza comunicando al lavoratore la propria volontà a mezzo di raccomandata a.r. o a mani all'atto di risoluzione del rapporto di lavoro, per qualunque causa intervenuta, in caso di licenziamento (all'atto della comunicazione di recesso) o di dimissioni (entro 8 giorni dal ricevimento della relativa comunicazione del lavoratore). Era altresì previsto che in caso di decorrenza dei predetti termini senza ricezione delle comunicazioni aziendali di avvalimento dell'opzione, la società fosse automaticamente sollevata dal pagamento del corrispettivo del patto di non concorrenza, e che il lavoratore fosse libero da ogni vincolo previsto nel patto stesso.

Il lavoratore rassegnava le dimissioni e l'azienda non inviava alcuna comunicazione relativa all'opzione prevista nell'accordo sulla concorrenza.

Nel rigettare la domanda del lavoratore, il Giudice di primo grado riteneva che nessun patto di non concorrenza fosse stato perfezionato tra le parti, non avendo la datrice di lavoro esercitato la facoltà contrattualmente prevista di adesione al patto di non concorrenza entro il termine previsto e che, conseguentemente, nessun diritto al corrispettivo fosse sorto.

Il lavoratore appellante chiede alla Corte d'Appello di Milano la riforma della sentenza sostenendo che il patto di non concorrenza, ancorché operante per il periodo successivo alla fine del rapporto di lavoro, si era già perfezionato con la relativa pattuizione, impedendo così al lavoratore di progettare il proprio futuro lavorativo, richiamando le argomentazioni giurisprudenziali in tema di facoltà di recesso unilaterale dal patto di non concorrenza.

La questione giuridica

La Corte di appello di Milano, sulla base delle argomentazioni dell'appellante, nella propria analisi, parte dall'esame dei diversi schemi e meccanismi giuridici che il diritto di opzione e il diritto di recesso implicano.

In particolare, richiamando giurisprudenza di legittimità sul punto, la Corte rileva come, diversamente dal diritto di recesso (oggetto dei precedenti giurisprudenziali richiamati nel ricorso in appello), nella fattispecie, per effetto dell'opzione, il patto di non concorrenza non può dirsi già perfezionato in quanto, secondo la sua struttura giuridica tipica, la parte vincolata all'opzione, ossia alla propria dichiarazione, non è tenuta alla prestazione contrattuale finale finché la controparte non accetta, costituendo, quindi, il rapporto contrattuale finale.

Il giudice di secondo grado rigetta quindi l'appello del lavoratore ritenendo che nessun diritto fosse sorto per effetto del patto di non concorrenza, non essendosi quest'ultimo perfezionato in virtù del diritto di opzione non esercitato dall'azienda.

In merito a tale schema il Collegio esplicita la ricostruzione richiamando Cass. n. 25462 del 2017 secondo cui “l'opzione determina la nascita di un diritto a favore dell'opzionario che conclude automaticamente il contratto, soltanto nel caso in cui venga esercitata. Si tratta, quindi, di un diritto potestativo, poiché ad esso corrisponde, dal lato passivo, una posizione di soggezione, dato che, ad esclusiva iniziativa dell'opzionario, il concedente può subire la conclusione del contratto finale. Lo schema di perfezionamento non è quello della proposta-accettazione, ma quello del contratto preparatorio di opzione, seguito dall'esercizio del suddetto diritto, mediante una dichiarazione unilaterale recettizia entro un termine fissato nel contratto stesso o, in mancanza, dal giudice. E, dunque, scaduto tale termine, l'opzione viene meno, trattandosi di un termine di efficacia di un contratto e non di irrevocabilità della proposta”.

La trattazione prosegue esaminando anche il profilo - più prettamente giuslavoristico - della limitazione della libertà contrattuale del lavoratore durante il rapporto di lavoro che la mancata comunicazione dell'esercizio dell'opzione da parte dell'azienda comporterebbe. La Corte, richiamando Cass. n. 13352 del 2014, risolve il tema ritenendo - come già il giudice di primo grado - la deduzione del ricorrente di aver dovuto rinunciare nel corso del rapporto proposte lavorative di imprese concorrenti genericamente formulata e non provata.

Osservazioni

Il ragionamento della Corte d'Appello, corretto sotto il profilo della ricostruzione privatistica dell'istituto dell'opzione (art. 1331 c.c.) e della sua differenza con il recesso quanto a schema giuridico e conseguenze sul vincolo contrattuale, deve essere contestualizzato nel rapporto di lavoro tenendo conto delle specificità delle obbligazioni sulla non concorrenza differenziale. La previsione dell'opzione nel patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c. (destinato a costituire obbligazioni e diritti per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro) determina, infatti, uno schema contrattuale a formazione progressiva costituita da una iniziale proposta irrevocabile del lavoratore e, successivamente, dall'accettazione del datore di lavoro che (solo se e quando pervenga al lavoratore promittente nel termine previsto) determina la conclusione del contratto e il sorgere del diritto del lavoratore al corrispettivo e del datore di lavoro a pretendere l'obbligazione negativa dedotti nel patto.

Se è pur vero che il patto di non concorrenza è destinato a regolare un periodo successivo al rapporto di lavoro e, quindi, cronologicamente si colloca all'esterno del contratto di lavoro, la dichiarazione unilaterale del lavoratore – secondo il meccanismo di opzione – produce inevitabilmente i suoi effetti restrittivi anche prima della cessazione del rapporto di lavoro, essendo necessariamente il lavoratore promittente obbligato a mantenere ferma la propria dichiarazione in vista del suo (eventuale) obbligo finale. E ciò determina inevitabilmente uno squilibrio “precontrattuale” tra lavoratore e datore di lavoro traducendosi in una limitazione della libertà di recesso e di valutazione di possibili occupazioni o esperienze alternative da parte del lavoratore.

Un diverso orientamento della giurisprudenza di legittimità (peraltro coevo alla decisione richiamata dalla Corte nella sentenza in commento e concernente il medesimo datore di lavoro), infatti, ritiene la clausola di opzione accedente al patto di non concorrenza nulla per violazione dell'art. 1331 c.c. e dell'art. 2125 c.c. (Cass. n. 8715 del 2017). Secondo tale decisione, il meccanismo giuridico dell'opzione nel patto di non concorrenza fa sì che l'obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro sorge già durante il rapporto di lavoro subordinato, “impedendo al lavoratore stesso di esercitare il suo diritto di scelta di ulteriori occasioni di lavoro (e ciò anche durante il periodo di preavviso, previsto dal legislatore – in caso di licenziamento – proprio a tutela della parte che subisce il recesso al fine di cercare un altro contraente). Si realizza, anche sotto tale aspetto, la violazione del modello contrattuale dell'opzione in quanto: 1) mentre la parte vincolata all'opzione (ossia alla propria dichiarazione) non è tenuta – nella struttura tipica prevista dall'ordinamento – alla prestazione contrattuale finale finché la controparte non accetta costituendo, quindi, il rapporto contrattuale finale; 2) nella presente fattispecie, invece, il lavoratore concedente l'opzione è obbligato immediatamente, sin dalla stipulazione del patto di opzione (ossia sin dalla data di stipulazione del contratto di lavoro subordinato) non solo a mantenere ferma la dichiarazione ma anche ad adempiere all'obbligazione finale”.

Segue il medesimo ragionamento e giunge alle medesime conclusioni anche la successiva Cass. n. 3 del 2018 che pone l'attenzione anche sul termine successivo (30 giorni) dalla cessazione del rapporto concesso nella fattispecie all'azienda per esercitare il diritto di opzione. La Suprema Corte precisa come la clausola di opzione che accede a patto di non concorrenza è nulla in quanto “cela l'intento fraudolento di vincolare il lavoratore, sin dalla data di assunzione, una volta superato il periodo di prova, all'adempimento dell'obbligazione contenuta nel patto stesso”, riproponendo quindi i medesimi effetti del recesso unilaterale non ammissibile nel patto di non concorrenza.

Ulteriore profilo esaminato dalla predetta giurisprudenza negativa è rappresentato dal corrispettivo specifico per l'opzione. Nel patto di concorrenza esaminato da Cass. n. 8715 del 2017, che accedeva a un contratto di formazione lavoro, il diritto di opzione in favore dell'azienda era stato specificamente concordato “in considerazione della formazione professionale ricevuta alle dipendenze della stessa”. La Corte ha ritenuto che, costituendo l'apporto formativo causa specifica del contratto di formazione e lavoro stipulato fra le parti (in quanto fattispecie contrattuale a causa mista scambio lavoro/retribuzione-formazione), la clausola di opzione, così come configurata dalla società, non garantisse in realtà alcun corrispettivo a favore del lavoratore concedente, con conseguente illecita sperequazione della posizione delle parti nell'ambito dell'assetto negoziale e violazione della natura contrattuale dell'opzione.

Per quanto non si possa non confermare un generale sfavore da parte della giurisprudenza sulle pattuizioni limitative della libertà contrattuale del lavoratore e/o degli obblighi del datore di lavoro in relazione alla concorrenza differenziale, il contrasto giurisprudenziale in seno alla stessa Corte di Cassazione merita un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sulla configurabilità e i requisiti del patto di opzione che accede all'accordo sulla non concorrenza ex art. 2125 c.c..

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