Estensione del principio di irriducibilità della retribuzione ed effetti sulla disponibilità del trattamento retributivo a mansioni immutate
10 Agosto 2020
Massima
In relazione al profilo retributivo si pone la medesima esigenza di protezione del lavoratore tanto nell'ipotesi di esercizio (legittimo) dello ius variandi quanto nell'ipotesi in cui le mansioni rimangano immutate.
Anche in quest'ultimo caso, pertanto, trovano applicazione le stringenti regole in materia di riduzione della retribuzione dettate dall'art. 2103 c.c. e, conseguentemente, vertendo su diritti indisponibili, il relativo accordo dovrà concludersi in sede protetta. Il caso
La pronuncia in esame è stata resa dalla Corte d'Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado del Tribunale di Lecco, in relazione al rapporto di lavoro dipendente di un dirigente, che – impugnando nei termini di legge un accordo di riduzione della retribuzione sottoscritto con la propria azienda – aveva formulato in giudizio domanda di condanna alla corresponsione delle relative differenze retributive nonché dell'indennità sostitutiva del preavviso (ponendo a fondamento della giusta causa di dimissioni proprio l'illegittima riduzione del trattamento retributivo).
L'accordo impugnato, concluso tra le parti in sede non protetta, aveva ad oggetto la significativa riduzione della retribuzione, a mansioni immutate, del dirigente, con rinuncia da parte di quest'ultimo a quanto previsto dal CCNL applicato in materia di trattamento minimo garantito e contestuale rinuncia all'impugnativa.
Le pronunce dei due successivi gradi di giudizio hanno fornito soluzioni giuridiche totalmente contrapposte, in ragione della diversa estensione riconosciuta al principio di irriducibilità della retribuzione.
Il Tribunale di Lecco ha respinto le pretese del lavoratore sulla scorta della legittimità dell'accordo sottoscritto dallo stesso. Il giudice di prime cure non ha ravvisato alcuna violazione né dell'art. 2103 c.c., ritenendo che l'irriducibilità della retribuzione ivi prevista sia garanzia riferita solo all'ipotesi di variazione in pejus delle mansioni espletate, né dell'art. 2113 c.c., in considerazione della disponibilità dei diritti oggetto della pattuizione.
In altre parole, l'atto dismissivo avrebbe ad oggetto un diritto (il trattamento retributivo) derivante da un contratto individuale (non da disposizioni inderogabili di legge o da contratti e accordi collettivi), per cui può validamente avvenire attraverso la redazione di una semplice scrittura privata sottoscritta direttamente tra datore di lavoro e lavoratore interessato.
Di diverso avviso si è dimostrata la Corte d'Appello di Milano, che, accogliendo il gravame interposto dal lavoratore, ha riformato in ogni suo punto la pronuncia resa dal Tribunale di Lecco.
Segnatamente, i giudici della Corte distrettuale hanno condannato il datore di lavoro alla corresponsione delle differenze retributive, ravvisando un duplice profilo di illegittimità dell'accordo impugnato.
In primo luogo, la Corte risulta cristallina nell'enunciare il seguente presupposto: se l'art. 2103 c.c. appresta delle regole stringenti per la riduzione della retribuzione persino nell'ipotesi di variazione in peius delle mansioni espletate, a maggior ragione tali garanzie dovranno operare quando le mansioni rimangono immutate; pertanto, nel caso di specie, la violazione della procedura di formalizzazione dell'accordo (non sottoscritto in sede protetta) ha determinato di per sé l'invalidità dello stesso.
Altresì, l'illegittimità della pattuizione discende dal fatto che la stessa si pone in aperta violazione dell'art. 36 della Costituzione, risultando la “nuova” retribuzione “pattuita” al di sotto del corrispondente trattamento minimo garantito previsto dal CCNL applicato.
Infine, la Corte distrettuale ha ravvisato una giusta causa di dimissioni nella sproporzione venutasi a creare tra prestazione lavorativa resa e retribuzione risultante dall'accordo, con conseguente riconoscimento del diritto dell'indennità sostituiva del preavviso. La questione
La pronuncia della Corte d'appello di Milano, riformando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Lecco, ha indubbiamente riportato in auge il dibattito giurisprudenziale e dottrinale sull'estensione del principio di irriducibilità della retribuzione di cui all'art. 2103 c.c..
Tale principio, infatti, viene enunciato nell'ambito della stessa disposizione civilistica che sancisce l'immutabilità delle mansioni (rectius, la mutabilità delle mansioni a specifiche condizioni): la vicinanza grafica e la stretta correlazione letterale tra questi due principi continua ad alimentare la querelle sull'effettiva portata del divieto di riduzione del trattamento economico.
Ebbene, l'intervento riformatore del d.lgs. 81 del 2015, pur avendo innovato sin dalla rubrica la disciplina del mutamento di mansioni, recependo le relative elaborazioni giurisprudenziali, continua a descrivere le sorti della retribuzione nella specifica ipotesi di esercizio dello ius variandi.
Nella sua formulazione ante Jobs Act, l'art. 2103 c.c. faceva divieto di “diminuzione della retribuzione” nel caso di assegnazione del lavoratore “a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”.
A norma del nuovo art. 2013 c.c., quinto e sesto comma,“…il mutamento delle mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.
Nelle sedi di cui all'art. 2113 c.c., quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita…”.
La questione affrontata dalla pronuncia di merito in esame può allora essere riassunta nei seguenti termini: le condizioni cumulative poste dal nuovo art. 2103 c.c. (conclusione dell'accordo in sede protetta e sussistenza di un particolare interesse del lavoratore) per procedere ad una (legittima) riduzione della retribuzione si applicano ad ogni ipotesi di revisione in pejus del trattamento retributivo o solo laddove tale revisione sia strettamente collegata ad un mutamento delle mansioni?
Definire l'estensione del principio di irriducibilità della retribuzione riveste un'evidente importanza pratica, in quanto da tale estensione dipende e deriva il carattere disponibile o meno del relativo diritto.
A sua volta, definire la disponibilità o meno di tale diritto ha evidenti ricadute sulle forme e modalità con cui può essere disposta un'eventuale restrizione dello stesso, ovverosia se trovi o meno applicazione il disposto dell'art. 2113 c.c. in materia di rinunzie e transazioni.
Pertanto, diviene centrale stabilire se il diritto ad un certo trattamento retributivo per la prestazione lavorativa resa trovi la sua fonte esclusivamente in disposizioni pattizie (con conseguente operatività del principio di autonomia contrattuale) o se, in una qualche misura, derivi anche da disposizioni inderogabili di legge.
Non stupisce d'altronde che nel diritto del lavoro il problema dei limiti dell'autonomia dispositiva del prestatore di lavoro assuma uno spessore particolare, in connessione con l'inderogabilità unilaterale che caratterizza gran parte delle norme che lo compongono (per un approfondimento in materia di “Disposizione dei diritti in materia di lavoro” si rimanda a Mariella Mariani, voce del Digesto online Pluris, anno di pubblicazione 1990). Le soluzioni giuridiche
La ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali sulla querelle in oggetto deve prendere le mosse da una risalente pronuncia di Cassazione del 1987, che affida l'interpretazione dell'art. 2103 c.c. (ovviamente nella sua formulazione ante Jobs Act) ad un criterio ermeneutico prettamente letterale.
La diminuzione della retribuzione vietata dall'art. 2103 c.c. sarebbe soltanto quella “conseguenza diretta ed immediata di un declassamento professionale del lavoratore”: ciò in quanto “se il Legislatore avesse voluto […] stabilire un divieto di riduzione della retribuzione, di portata autonoma e generalizzata, che prescindesse dal collegamento con l'ipotesi di mutamento in peius delle mansioni del lavoratore, avrebbe dato all'espressione un'autonomia grammaticale ben più marcata di quella che poteva assicurare l'opposizione di una semplice virgola…” (Cass., sez. lav., 9473/1987).
La possibilità che, al di fuori di un mutamento delle mansioni, le parti possano raggiungere un valido accordo avente ad oggetto la riduzione dell'ammontare del precedente trattamento retributivo discenderebbe dal principio dell'autonomia contrattuale “valevole anche nell'ambito dei rapporti di lavoro”.
La disponibilità del diritto che viene tratteggiata da tale pronuncia di legittimità, pertanto, non rende necessario guardare all'art. 2113 c.c., con la conseguenza che la validità del relativo accordo non sarebbe subordinata al rispetto di particolari formalità.
A partire da tale pronuncia si sono consolidati quegli orientamenti che ammettono, specie rispetto alla qualifica dirigenziale, accordi di modifica consensuale della retribuzione in senso anche peggiorativo, purchè nel rispetto dei minimi tabellari (come espressione del principio di cui all'art. 36 Cost., cfr. Cass. n. 6083/1997).
In altre parole, il trattamento economico della prestazione lavorativa si comporrebbe di un nucleo “duro”, indisponibile, rappresentato dalla retribuzione minima (che trova la sua fonte nella lettera inderogabile della Costituzione); tutto ciò che va oltre tale nucleo ha matrice pattizia e le parti ne possono disporre convenzionalmente.
Tuttavia, parallelamente, si possono individuare delle pronunce di legittimità che, proprio nell'affrontare il divieto di diminuzione della retribuzione nelle ipotesi di esercizio dello ius variandi, legano indissolubilmente il trattamento retributivo alla professionalità del lavoratore. Ebbene, la retribuzione irriducibile è quella che funge da corrispettivo delle qualità professionali intrinseche alle mansioni svolte dal lavoratore, mentre possono essere soppressi quegli elementi accessori diretti a compensare un rischio particolare, specifiche modalità della prestazione lavorativa, un disagio ambientale o temporale, o, più in generale, erogati in considerazione di caratteristiche estrinseche e non connaturali alle mansioni svolte (ex plurimis, Cass. n. 7277/1996, Cass, 15517/2000, Cass. 6763/2002).
Queste pronunce, pur occupandosi dell'irriducibilità della retribuzione in stretta correlazione con il mutamento delle mansioni, estendono progressivamente il nucleo “duro” del trattamento retributivo a cui ha diritto il lavoratore: ciò che deve essere garantito non è soltanto il trattamento minimo, bensì un trattamento economico tale da corrispondere e compensare una certa professionalità.
L'esigenza di assicurare una retribuzione in linea con le caratteristiche professionali del prestatore risulta particolarmente evidente proprio nell'ipotesi in cui si realizzi un (legittimo) mutamento di mansioni (ancor più a seguito dell'intervento riformatore del d.lgs. 81 del 2015, che – a determinate condizioni – consente l'assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore).
Tuttavia, seppure in modo meno eclatante ed al contrario più subdolo, la medesima esigenza di tutela della professionalità del lavoratore si pone anche e soprattutto “a mansioni immutate”.
Lo svolgimento delle medesime mansioni permette di conservare (e verosimilmente incrementare) una professionalità a fronte della quale non risulta giustificata una riduzione del trattamento retributivo, che, pertanto, deve essere sottratto alla disponibilità delle parti.
E' sostanzialmente questo l'approdo di Cassazione, Sez. Lav., n. 11362/2008, che, fornendo una diversa e più estesa interpretazione del diritto del lavoratore (non limitato ai minimi tabellari), riconosce una portata generale ed autonoma al principio di irriducibilità della retribuzione di cui all'art. 2103 c.c.: “Nella specie, non vi è stato legittimo uso dello jus variandi del datore di lavoro, dato che è pacifico in causa che il dipendente ha continuato ad esercitare le sue mansioni dirigenziali già espletate in precedenza, senza alcuna variazione; […] Non vi è quindi alcuna ragione che possa giustificare la riduzione dello stipendio e la violazione del principio di irriducibilità della retribuzione, pacificamente ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte come garanzia autonoma rispetto a tutte le altre previste dall'art. 2103 c.c..”.
Ne deriva l'indisponibilità del trattamento retributivo concordato al momento dell'assunzione, che “non è riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro ed ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto” (in tal senso già Cass. n. 16106/2003).
Venendo alla vicenda di merito qui in esame, alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale ripercorsa, risulta evidente come la pronuncia resa dal Tribunale di Lecco ritenga di aderire all'orientamento di legittimità più risalente, mentre la riforma della Corte d'appello di Milano si assesta sui principi giurisprudenziali più recenti e li ritiene condivisibili anche rispetto all'art. 2103 c.c. così come novellato dal d.lgs. 81 del 2015. Osservazioni
Quella che prima facie potrebbe sembrare una forzatura della lettera della norma, si rivela essere un'interpretazione necessitata dai principi e dalle norme costituzionali.
A ben vedere, quella realizzata dalla giurisprudenza a partire dal 2008 non costituisce affatto applicazione analogica di un principio, quello dell'irriducibilità della retribuzione, dettato dalla norma con espresso riferimento all'ipotesi di variazione in pejus delle mansioni.
Trattasi piuttosto di (ammessa) interpretazione estensiva costituzionalmente orientata: occorre infatti ricordare che l'art. 36 Cost. non si limita a sancire il diritto al minimo retributivo; sancisce altresì il diritto del lavoratore ad una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”.
Pertanto, se il divieto di riduzione del trattamento retributivo è posto più in generale a presidio della professionalità del lavoratore, laddove quest'ultima non muti (non registrandosi alcuna variazione del contenuto, delle modalità, delle condizioni di espletamento delle mansioni), si impone con forza la medesima esigenza di tutela che si registra nell'ipotesi di esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro.
La sentenza della Corte d'appello di Milano n. 1974/2019 dà – condivisibilmente – corso a questa interpretazione estensiva del principio di irriducibilità della retribuzione, che la giurisprudenza di legittimità ha sostanzialmente elaborato in riferimento alla precedente formulazione dell'art. 2103 c.c., che (almeno graficamente) legava il divieto di riduzione della retribuzione al mutamento di mansioni.
Occorre ricordare che il Legislatore del 2015, nel riformulare l'art. 2103 c.c. sin dalla rubrica, pur continuando ad enunciare il diritto alla conservazione del trattamento retributivo in godimento all'ipotesi di mutamento di mansioni, recepisce proprio quegli orientamenti giurisprudenziali che pongono la retribuzione in stretta correlazione alla professionalità del lavoratore (escludendo dal divieto di riduzione gli “elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”).
La pronuncia in esame espone altresì il passaggio logico immediatamente successivo: se il diritto ad un trattamento retributivo proporzionato alle caratteristiche professionali del lavoratore non ha una semplice matrice contrattuale, ma trova la sua fonte in norme inderogabili di legge, lo stesso si configura quale diritto indisponibile e, in quanto tale, risulta assoggettato alla stringente disciplina di cui all'art. 2113 c.c.
Pertanto, “la formazione dell'accordo deve avvenire nell'ambito di contesti in cui la volontà negoziale del lavoratore si presuma tutelata da illegittime pressioni da parte del datore di lavoro. In particolare, l'accordo deve essere posto in essere in fronte alle commissioni di certificazione, ovvero nelle sedi enunciate dall'art. 2113, 4° comma, cioè durante il tentativo di conciliazione provocato dal giudice ai sensi dell'art. 185 c.p.c., di quello svolto di fronte alla commissione di conciliazione ai sensi dell'art. 410 c.p.c.; di quello condotto nell'ambito di un arbitrato o conciliazione regolati dai contratti collettivi ai sensi dell'art. 412 ter c.p.c.; di quello regolato dall'art. 412 quater c.p.c.”.
Evidentemente, la lettura estensiva del divieto di riduzione della retribuzione di cui all'art. 2103 c.c., così come riformulato dal d.lgs. 81 del 2015, porta con sé un'ulteriore implicazione, soltanto accennata dalla Corte d'Appello di Milano: per procedere validamente ad una variazione in peius del trattamento retributivo non occorre soltanto che la relativa pattuizione si attenga alle forme di cui all'art. 2113, IV comma, c.c., è necessario altresì che sussista l'interesse del lavoratore così come descritto al sesto comma dell'art. 2103 c.c. (interesse alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita ). La Corte distrettuale non si è spinta, nel caso di specie, ad indagare questo ulteriore profilo, non sussistendo più a monte la corretta formalizzazione dell'accordo derogativo.
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