La prescrizione dei crediti retributivi dopo le modifiche dell'art. 18, St. lav.: un ritorno al passato?
28 Agosto 2020
Massima
Le modifiche dell'art. 18 l. n. 300/1970, successive all'entrata in vigore della l. n. 92/2012, non incidono sulla stabilità del rapporto di lavoro, sicché, ove siano state svolte mansioni di livello superiore, la prescrizione del diritto del lavoratore alle conseguenti differenze retributive decorre sin dal momento in cui suddetto diritto può essere giuridicamente fatto valere, escludendosi la sospensione della decorrenza sino alla cessazione del rapporto di lavoro. Il caso
La lavoratrice, con ricorso proposto innanzi al Tribunale di Napoli, rappresentava di essere inquadrata nel 4° livello del CCNL di categoria applicato dalla società datrice convenuta, e che, in conseguenza della rapida evoluzione del settore, veniva apportata una modifica al suddetto Contratto Collettivo nella parte afferente la classificazione del personale, introducendo il profilo di “specialista di attività tecniche integrate” tra quelli rientranti nel 5° livello. Tanto premesso, descritte le mansioni svolte e riportate le declaratorie contrattuali di riferimento, la ricorrente chiedeva, ai sensi dell'art. 2103 c.c., il riconoscimento del diritto all'inquadramento nel superiore 5° livello a partire dall' 1° dicembre 2009, con conseguente condanna della convenuta al pagamento delle differenze retributive a decorrere dalla medesima data. La società, nel resistere alla domanda, eccepiva preliminarmente l'intervenuta prescrizione quinquennale, avuto riguardo alla data di notifica del ricorso (8 agosto 2018), deducendo nel merito l'infondatezza delle richieste di controparte. La questione giuridica
La prescrizione dei crediti retributivi del dipendente decorre in costanza di rapporto o solo dalla sua cessazione? La soluzione giuridica
Premesso che il lavoratore, il quale agisca in giudizio per ottenere l'inquadramento in una qualifica superiore, ha l'onere di allegare e di provare gli elementi fondanti la domanda, indicando i profili caratterizzanti le mansioni di detta qualifica sulla base della declaratoria contrattuale di riferimento, e raffrontando gli stessi con quelli concernenti l'attività svolta in concreto, il Tribunale di Napoli ha rilevato come dall'istruttoria sia emerso - con un adeguato livello di certezza - che la ricorrente svolga un'attività più articolata e specialistica di quella richiesta dal 4° livello, sicché l'inquadramento attribuito dalla società convenuta risultava inadeguato alle mansioni concretamente svolte dalla lavoratrice, sussumibili invece nel superiore 5° livello del CCNL applicato. Conseguentemente è stato riconosciuto il diritto della ricorrente al superiore inquadramento ai sensi dell'art. 2103 c.c., nella formulazione precedente alla modifica apportata dal d.lgs. n. 81/2015.
Il giudice partenopeo, tuttavia, con riferimento alle differenze retributive, ha accolto l'eccezione di prescrizione sollevata dalla società datrice con riferimento ai crediti maturati prima del quinquennio precedente alla notifica del ricorso introduttivo, costituente il primo atto di messa in mora.
Il Tribunale, infatti, ha dichiarato di non condividere la tesi avanzata dalla ricorrente secondo cui, nel caso in esame, avrebbe dovuto operare il principio espresso dalla Corte costituzionale 10 giugno 1966, n. 63, ed in base al quale gli artt. 2955, comma 1 n. 2, e 2965 comma 1 n. 1, c.c. debbono ritenersi non conformi a Costituzione limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro, il che può avvenire solo ove il rapporto stesso sia caratterizzato da “stabilità”. Ad avviso del giudice di Napoli, deve ritenersi adeguata la stabilità assicurata dall'art. 18 l. n. 300/70, tenuto conto che le modifiche introdotte con la l. n. 92/2012 hanno solo delimitato la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, e la tutela reale resterebbe assicurata proprio nelle ipotesi più gravi di recesso esercitato dal contraente che si avvalga della propria superiorità economica. Le differenze retributive, pertanto, sono state dichiarate spettanti soltanto da agosto 2013, essendo il credito anteriore a detta data estinto per intervenuta prescrizione. Osservazioni
Nel 1965 il Tribunale di Ancona sottopose al Giudice delle Leggi una questione di legittimità costituzionale, dubitando della compatibilità della prescrizione, come disciplinata agli artt. 2948, nn. 4 e 5, 2955, n. 2, e 2956, n. 1 c.c. con la natura del diritto alla retribuzione alla luce dei principi sanciti nella Carta fondamentale (artt. 3, 4 3 36 Cost.).
Con la sentenza n. 63/1966, la Corte costituzionale diede una risposta che, secondo una parte della dottrina, si presentava alquanto “creativa”, andando oltre i confini definiti dalla normativa al tempo vigente. Sebbene, infatti, non sia stata dichiarata l'imprescrittibilità dei diritti retributivi vantati dal lavoratore, la Corte – tenuto conto della minore tutela garantita nell'ambito del lavoro privato dall'art. 2118 c.c. – ritenne che il regime della prescrizione non fosse compatibile con l'art. 36 Cost. In un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizzava invece il rapporto d'impiego pubblico, il timore del licenziamento avrebbe potuto spingere il dipendente a rinunciare a suddetti diritti, sicché la stessa non si configurerebbe come una libera espressione di volontà negoziale. Ad avviso della Corte, nonostante non fossero rinvenibili impedimenti giuridici all'esercizio del diritto, si rinverrebbero degli “ostacoli materiali”, rectius il metus del lavoratore rispetto al recesso datoriale. Ne conseguirebbe che, ove si ammettesse la decorrenza della prescrizione durante il rapporto di lavoro, ciò produrrebbe un effetto che l'art. 36 Cost. è diretto ad escludere, vietando qualunque tipo di “rinuncia”, anche quella che, in particolari situazioni, può essere implicita nel mancato esercizio del proprio diritto.
Con l'entrata in vigore delle leggi n. 604/1966 e n. 300/1970, con particolare riferimento all'espressa previsione dell'invalidità del licenziamento illegittimo e conseguente tutela reintegratoria (art. 18 St. Lav.), ci si chiese se la sopravvenuta legislazione avesse o meno inciso sul principio espresso nella soprarichiamata sentenza, rilevandosi come la garanzia “forte” assicurata al dipendente mediante la reintegra fosse idonea ad attenuare, se non addirittura eliminare, quella situazione psicologica di timore rispetto ad un eventuale licenziamento.
Già con la sentenza n. 143/1969, anche se in merito ai rapporti di pubblico impiego, la Consulta precisò che il principio affermato nel 1966 non trovava applicazione per quei rapporti di lavoro subordinato caratterizzati da una particolare forza di resistenza, quale quella derivante da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto stesso, garantendo appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione.
Il Giudice delle Leggi – interpellato dalla Corte di appello di Napoli –con la sentenza n. 174/1972 delineò i confini applicativi dell'eccezione espressa nel proprio precedente, precisando che, alla luce delle leggi n. 604/1996 e n. 300/1970, anche nel settore privato avrebbe dovuto trovare applicazione la regola generale (recte decorrenza della prescrizione durante il rapporto di lavoro) in tutti quei casi nei quali fosse garantita la tutela reintegratoria, con conseguente stabilità del rapporto. Il principio che vieta, per le impugnative in materia di crediti da lavoro dipendente, di far decorrere il termine di prescrizione nel periodo di durata del rapporto, avrebbe trovato applicazione solo ove una “vera stabilità” non fosse assicurata, non seguendo all'annullamento del licenziamento la reintegrazione del lavoratore nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare.
Venne, pertanto, delineato un “doppio binario”, incentrato sostanzialmente sul carattere della stabilità del contratto di lavoro, da intendersi come garanzia della rimozione degli effetti scaturenti da un illegittimo recesso datoriale. Tuttavia è il "concreto atteggiarsi del rapporto" ad aver costituito la cartina di tornasole per nell'individuazione del regime di prescrizione applicabile.
In casi di “lavoro in nero”, ad esempio, nonostante l'applicabilità dell'art. 18 St. Lav., la giurisprudenza (Cass., sez. lav., 20 giugno 1997, n. 5494), facendo leva sulla concreta conformazione del rapporto, ha riscontrato la sussistenza della condizione di debolezza psicologica del lavoratore, così facendo prevalere la situazione di fatto su quella di diritto.
La definizione di "stabilità" elaborata dalla giurisprudenza ha determinato un acceso dibattito in ordine alla disciplina da applicare a seguito delle modifiche apportate all'art. 18 St. Lav. dalla l. n. 92/2012 (e, più recentemente, dal d.lgs. n. 23/2015): la garanzia della reintegrazione, infatti, ha subito una sostanziale rimodulazione, divenendo oggi un'eccezione alla regola della tutela indennitaria, sicché una parte della dottrina ha rilevato come, venuta meno la “stabilità” garantita dalla precedente formulazione dell'art. 18, la posizione psicologica del lavoratore verrebbe de facto privata della precedente sicurezza condizionante la decorrente della prescrizione in costanza di rapporto. Ne conseguirebbe il necessario ritorno al principio espresso dalla Consulta nel 1966.
Secondo altra parte della dottrina – e così il Tribunale di Napoli nella sentenza in commento - sebbene la tutela derivante dalle modifiche introdotte dalla l. n. 92/2012 risulti essere “affievolita”, essa sarebbe comunque adeguata, e dunque idonea a consentire al lavoratore di esercitare i propri diritti, di talché la prescrizione dovrebbe decorre in costanza di rapporto.
Il nuovo regime di tutela previsto dal d.lgs. n. 23/2015 sembrerebbe condurre verso il primo orientamento: la stabilità del rapporto, intesa come rimozione di tutti gli effetti dell'eventuale licenziamento, e connessa eliminazione del metus, verrebbe meno per tutti gli assunti in un momento successivo all'entrata in vigore della novella legislativa, essendo divenuta la regula la monetizzazione del posto di lavoro.
Dovrebbe pertanto di nuovo porsi il quesito circa il contenuto sostanziale del concetto di “stabilità”, ed in particolare se esso debba necessariamente essere riferito alla tutela di tipo reintegratorio, ovvero sia sufficiente l'esistenza di un regime vincolistico del licenziamento, tale che, in caso di recesso non giustificato, sia prevista dall'ordinamento una sanzione per il datore, a prescindere dal suo carattere meramente risarcitorio o meno.
L'orientamento espresso dal giudice di legittimità sembrerebbe superare i possibili dubbi sul punto: in una recentissima sentenza (n. 1866 del 10/12/2019) la Corte di Cassazione ha limitato la decorrenza della prescrizione dal momento dell'insorgenza del diritto ai soli rapporti assistiti, in caso di licenziamento illegittimo, da una tutela di tipo reintegratorio. Si è ritenuto, infatti, che in tali rapporti non vi sia una condizione di metus del lavoratore nei confronti del datore, a causa del quale il primo sia indotto, per timore di essere licenziato senza possibilità di recuperare il posto di lavoro perduto, a non esercitare il proprio diritto. Il Giudice di legittimità ha evidenziato come il testo attualmente vigente dell'art. 18 l. n. 300 del 1970, a differenza di quello originario, prevede la tutela reintegratoria solo per specifiche ipotesi di illegittimità del licenziamento, fissando invece quale regola generale quella di una tutela indennitaria. Pertanto, in costanza di rapporto, il prestatore di lavoro verrebbe a trovarsi in una condizione soggettiva di incertezza circa la tutela (reale o meno) applicabile in caso di licenziamento illegittimo, accertabile solo ex post a seguito di una contestazione giudiziale del recesso datoriale.
Tale soluzione sembrerebbe coerente con l'evoluzione della posizione assunta sul punto dalla Consulta, la quale si è mostrata sensibile ai mutamenti legislativi allorquando nell'ordinamento è stata introdotta una tutela di tipo reintegratorio a favore del lavoratore illegittimamente licenziato. Allo stesso modo, dunque, a fronte degli interventi normativi che hanno notevolmente ridotto i confini di suddetta tutela, si potrebbe sostenere un ritorno alle posizioni più rigoristiche (e per taluni “creative”) della sentenza n. 63/1966.
Ad ogni modo, la mancanza di una posizione univoca, sia in dottrina che in giurisprudenza, sembra manifestare maggiormente l'opportunità di un intervento, espresso e chiaro, del legislatore, al fine di poter in concreto garantire il fondamento stesso della disciplina in materia di prescrizione, ossia l'esigenza di assicurare la certezza nei rapporti giuridici.
Per approfondire: Mattia Persiani, Situazione psicologica di timore, stabilità e prescrizione dei crediti di lavoro psychological situation of fear, stability in employment and limitation period for employment entitlements, in Argomenti Dir. Lav., 2018, 1, pp. 3 ss. Francesco Gadaleta, La prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore subordinato e gli “equivoci” della giurisprudenza, in Dir. Rel. Ind. i, 2017, 3, pp. 851ss. Sandro Mainardi, Prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore tra vecchi e nuovi concetti di stabilità del rapporto di lavoro, in Giur. It., 2013, 4, pp. 884 ss. Edoardo Ghera, La prescrizione dei diritti del lavoratore e la giurisprudenza creativa della corte costituzionale, in Riv. It. Dir. Lav., 2008, pp. 3 ss. |