Interpretazione delle clausole dei contratti collettivi. Rilevanza della regola di cui all'art. 1363 c.c. (interpretazione complessiva delle clausole)
01 Settembre 2020
Massima
In materia di interpretazione di clausole della contrattazione collettiva assume preminente rilievo il canone interpretativo dettato dall'art. 1363 c.c. (interpretazione complessiva delle clausole) atteso che - la comune volontà delle parti contrattuali non sempre è agevolmente ricostruibile attraverso il mero riferimento al senso letterale delle parole; ciò deriva dalla natura di detta contrattazione, spesso articolata in diversi livelli (nazionale, provinciale e aziendale, ecc.), dalla vastità e complessità della materia trattata in ragione della interdipendenza dei molteplici profili della posizione lavorativa, dal particolare linguaggio in uso nel settore delle relazioni industriali non necessariamente coincidente con quello comune e, da ultimo, dal carattere vincolante che non di rado assumono nell'azienda l'uso e la prassi. Il caso
Con sentenza del 2016 la Corte di appello confermava la pronuncia del Tribunale di prime cure del 2013 con la quale era stato accertato e dichiarato che due società per azioni, nelle quali era stata fusa per incorporazione una s.r.l. in liquidazione, possedevano le caratteristiche dimensionali e organizzative per essere qualificate "grande magazzino" ai fini dell'applicazione dell'art. 33 del CCNL del Settore terziario nonché era stato accertato il diritto dei lavoratori, originari ricorrenti, all'applicazione dell'orario di 38 ore settimanali con decorrenza dal gennaio 1996 e fino al gennaio 2004 nello stabilimento alle dipendenze della ditta in liquidazione e per il successivo periodo alle dipendenze di un'altra s.r.l., con condanna delle società a corrispondere le differenze retributive conseguenti all'applicazione dell'orario di 38 ore settimanali in luogo di quelle lavorate di 40 ore, con riferimento a tutti gli istituti retributivi e con decorrenza dai cinque anni precedenti il primo atto di messa in mora per ciascun ricorrente, oltre accessori.
Avverso la decisione di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione le società per azioni affidato a tre motivi, cui hanno resistito con controricorso i lavoratori. La questione giuridica
Il caso in esame consente di riflettere sulla delicata questione della dimensione ermeneutica della contrattazione collettiva, id est, di quel “diritto di negoziazione collettiva” previsto nell'art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Preliminarmente, giova osservare che nel processo di interpretazione negoziale, la comune volontà dei contraenti va ricostruita sulla scorta di due elementi principali, ovvero il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto contrattuale (Cass., n. 5102/2015; n. 12389/2003; n. 6484/1994; n. 5528/1981). Il primo elemento, relativo al senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, rappresenta il principale strumento esegetico, con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa (Cass., n. 4347/2015; n. 110/2013; n. 4176/2007; n. 28479/ 2005; n. 21888/2016).
Come ricordato anche di recente dalla Suprema Corte (Cass., n. 26461 del 17 ottobre 2019), il criterio non muta nel caso dell'interpretazione di un contratto collettivo, per cui si è affermato il principio che "ove il giudice di merito abbia ritenuto che il senso letterale delle espressioni impiegate dagli stipulanti riveli con chiarezza e univocità la loro volontà comune, cosicché non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l'intento effettivo dei contraenti, l'operazione ermeneutica deve ritenersi utilmente compiuta senza necessità di far ricorso ai criteri interpretativi sussidiari, il cui intervento si giustifica solo nel caso in cui siano insufficienti i criteri principali" (Cass., n. 19357/2013). Anche laddove l'interpretazione letterale non conduca a siffatti esiti decisivi e preclusivi, o per l'intrinseca equivocità delle espressioni utilizzate o perché incoerente con ulteriori ed esterni indici rivelatori della volontà delle parti (Cass., n. 25840/2014), non vi è dubbio che il giudice del merito non possa prescindere dall'esame del testo dell'accordo, trattandosi del passaggio "prioritario" nel processo ermeneutico (Cass., n. 5595 e n. 21243 del 2014), avendo egli il potere-dovere di stabilire se la comune intenzione delle parti risulti in modo certo ed immediato dalla dizione letterale del contratto (Cass., n. 21888/2016, n. 12360/2014,511/1984).
Dunque, secondo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di interpretazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro, l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un'indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante la specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto a precisare in che modo e con quali considerazioni il giudice di merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche o insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass., nn. 23174 del 11 ottobre 2013 e n. 9054 del 15 aprile 2013).
Al riguardo mette conto evidenziare che quando in Cassazione viene denunciata la violazione di una norma di un ccnl, il giudice di legittimità procede autonomamente alla diretta interpretazione del contenuto del contratto collettivo senza essere vincolato ad una specifica opzione interpretativa prospettata nella formulazione del motivo, ben potendo ricercare liberamente all'interno del contratto ciascuna clausola, anche non oggetto dell'esame delle parti e del primo giudice, comunque ritenuta utile all'interpretazione (Cass., n. 10559 del 7 maggio 2013). Le soluzioni giuridiche
Premesso che, come rilevato, in ordine ai criteri di interpretazione del contratto collettivo, la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che, in considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni dettate dagli artt. 1362 e ss. c.c.; sembra opportuno osservare che è stato già da tempo escluso il ricorso all'applicazione analogica (Cass. nn. 7519/1983; 5726/1985; 6524/1988), "atteso che anche nel contratto collettivo le disposizioni in esso contenute conservano pur sempre la loro originaria natura contrattuale e non consentono conseguentemente il ricorso all'analogia, che è un procedimento di integrazione ermeneutica consentito, ex art. 12 delle preleggi, con esclusivo riferimento agli atti aventi forza o valore di legge" (Cass, n. 30420/2017).
Per quanto concerne l'interpretazione estensiva, merita rilevare che la stessa è, in linea generale, consentita ai sensi dell'art. 1365 c.c. per estendere un patto relativo ad un caso ad un altro caso non espressamente contemplato dalle parti. Al riguardo i giudici di legittimità hanno precisato (Cass., n. 9560/2017) che la norma citata consente l'interpretazione estensiva di clausole contrattuali solo ove risulti l' "inadeguatezza per difetto" dell'espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, inadeguatezza tradottasi in un contenuto carente rispetto all'intenzione. In tale ipotesi, l'interprete deve tener presenti le conseguenze normali volute dalle parti stesse con l'elencazione esemplificativa dei casi menzionati e verificare se sia possibile ricomprendere nella previsione contrattuale ipotesi non contemplate nell'esemplificazione, attenendosi, nel compimento di tale operazione ermeneutica, al criterio di ragionevolezza imposto dalla medesima norma (Cass., n. 31839/2019).
Nel caso in esame la Suprema Corte osserva che, in materia di contrattazione collettiva, la comune volontà delle parti contrattuali non sempre è agevolmente ricostruibile attraverso il mero riferimento al senso letterale delle parole, atteso che la natura di detta contrattazione, spesso articolata in diversi livelli (nazionale, provinciale e aziendale, ecc.), la vastità e la complessità della materia trattata in ragione della interdipendenza dei molteplici profili della posizione lavorativa, il particolare linguaggio in uso nel settore delle relazioni industriali non necessariamente coincidente con quello comune e, da ultimo, il carattere vincolante che non di rado assumono nell'azienda l'uso e la prassi, costituiscono elementi tutti che rendono indispensabile nella materia della contrattazione collettiva una utilizzazione dei generali criteri ermeneutici che di detta specificità tenga conto, con conseguente assegnazione di un preminente rilievo al canone interpretativo dettato dall'art. 1363 c.c. (Cass., n. 6264/2006; n. 14461/2006).
In proposito merita evidenziare che l'art. 1363 c.c., richiamando alla mente il concetto di interpretazione sistematica di cui all'art. 12 delle preleggi, guarda alle clausole del contratto non già come a monadi isolate, bensì come ad un insieme unitario in cui ciascuna clausola si interpreta per mezzo dell'altra alla luce del senso che risulta complessivamente dall'intero atto negoziale.
Nel caso in esame la Cassazione rileva che la tesi della società, secondo cui il minore orario di lavoro troverebbe la sua causa "nell'impiego del lavoratore in un modello organizzativo più semplificato ed efficiente, teso ad eliminare le pause tra una vendita ed un'altra" contrasta con l'effettiva tipologia dell'attività lavorativa espletata, come regolata da tutta la contrattazione collettiva di settore, che, nella ipotesi di "grandi magazzini", in una visione globale ed effettiva: a) si concreta essenzialmente in quella di commessi, banconisti e cassieri; b) è distribuita su sette giorni lavorativi, a causa delle frequenti (se non fisse) aperture domenicali; c) è caratterizzata da una turnazione variabile, solitamente portata a conoscenza senza un congruo anticipo e che non consente una programmazione pianificata della vita privata, d) spesso si articola nelle forme anche dell'orario "spezzato" e viene resa anche in ore notturne, in considerazione del momento di apertura e di chiusura di taluni esercizi, a differenza di quanto avviene nella piccola distribuzione.
Dunque, nel caso de quo, i giudici ritengono che la Corte d'appello abbia congruamente ed adeguatamente motivato sul personale addetto alle vendite e su quello addetto alle casse, sottolineando che, tenuto conto dell'estensione dei magazzini e della suddivisione in reparti il numero dei primi sarebbe stato assolutamente inadeguato nel caso si fosse trattato di "vendita tradizionale assistita dal commesso", senza, quindi, che possano essere evidenziate carenze o lacune nelle argomentazioni ovvero elementi di illogicità. Osservazioni
Le problematiche affrontate dalla ordinanza in commento in tema di interpretazione di norme collettive appaiono di grande rilievo, specialmente sotto il profilo applicativo, con riferimento all'interpretazione delle norme contenute nei contratti collettivi concernenti le sanzioni disciplinari e, in particolare, in tema di rapporti tra previsioni disciplinari della contrattazione collettiva e licenziamento.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di osservare che riguardo alle previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari, essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale, si è più volte espresso il generale principio che tali previsioni non vincolano il giudice di merito (Cass., n. 8718/2017; n. 9223/2015; n. 13353/2011). Tuttavia "la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c." (Cass., n. 9396/2018; n. 28492/2018; n. 14062/2019; n. 14063/2019; n. 13865/2019), considerato altresì che l'art. 30, comma 3, l. n. 183/2010, ha previsto che "nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro" (Cass., n. 32500/2018; n. 25201/2016).
Al riguardo la Cassazione (Cass., n. 31839/2019) ha rilevato che il principio generale subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (art. 12 l. n. 604/1966). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti (Cass., n. 15058/2015; n. 4546/2013; n. 13353/2011; n. 1173/1996; n. 19053/1995), a meno che non si accerti che le parti stesse "non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva", dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (Cass., n. 1173/1996; n. 14555/2000; n. 6165/2016; n. 11860/2016; n. 17337/2016).
Guida all'approfondimento
G. Giugni, La funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, in AID-LASS (Associazione italiana di diritto del lavoro e della sicurezza sociale), Atti del III Congresso nazionale di diritto del lavoro sul tema “Il contratto collettivo di lavoro” Pescara -Teramo, 1-4 giugno 1967, Giuffrè, Milano 1968.
B. Caruso, A. Alaimo, Il contratto collettivo nell'ordinamento dell'Unione europea, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D'Antona” .INT – 87/2011. |