Memorie ex art. 183 comma 6 c.p.c.: interrogativi e ambito operativo di ciascuno dei tre termini
02 Settembre 2020
Il quadro normativo
I tre termini di cui all'art. 183 comma 6 n. 1, 2 e 3 c.p.c., indicati nella misura fissa e con cadenza immodificabile e predeterminata di trenta, trenta e venti giorni, hanno natura perentoria e sanciscono lo spirare delle preclusioni assertive e probatorie. In particolare, il primo termine riguarda le preclusioni assertive, essendo deputato alla «precisazione o modificazione delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte», con la conseguenza che rappresenta il momento ultimo per la formulazione delle domande e la deduzione di fatti; il secondo termine ha natura mista ed ambivalente assertiva-probatoria, in quanto finalizzato sia a «replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime», sia alla «indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali», con la conseguenza che rappresenta a livello assertivo il momento ultimo per contestare domande e ricostruzioni ex adverso, ed a livello probatorio il momento ultimo per proporre le prove dirette; il terzo termine concerne le preclusioni probatorie, perché relativo alle «indicazioni di prova contraria», con la conseguenza che rappresenta appunto il momento ultimo per proporre le prove contrarie. In ragione del diverso momento perfezionativo delle preclusioni assertive e probatorie, è allora inammissibile una richiesta probatoria diretta o contraria, pur se rispettosa dei termini di cui all'art. 183 comma 6 n. 2 e 3, c.p.c. se finalizzata a supportare domande o fatti non tempestivamente dedotti prima dello spirare delle preclusioni assertive ex art. 183 comma 6 n. 1 e 2 (cfr. Cass. civ., sez. III, 17 maggio 2013 n. 12119, per una nitida distinzione tra attività di deduzione dei fatti e deduzione probatoria). In particolare, deve ritenersi inammissibile una prova per testi capitolata nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 2 c.p.c., in relazione ad un fatto non dedotto prima dello spirare delle preclusioni assertive ex art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c. Nelle pagine che seguono, ovviamente con i limiti derivanti dalla natura del presente studio, si cercherà di affrontare alcuni degli interrogativi che sono stati formulati con riferimento al tema che qui occupa delle memorie istruttorie ed all'ambito operativo di ciascuno dei tre termini ex art. 183, comma 6, c.p.c. Un primo problema che si pone è quello di verificare se la concessione dei termini sia o meno obbligatoria da parte del Giudice, laddove venga formulata la relativa istanza ad opera di una parte. La tesi maggioritaria aveva inizialmente offerto al quesito risposta positiva, valorizzando il dato letterale per il quale «se richiesto, il giudice concede»,con la conseguenza che la concessione dei termini va ritenuta atto dovuto da parte del Giudice a seguito di semplice richiesta di una parte. Per un'opposta ricostruzione, invece, sulla base del combinato disposto dagli artt. 187, comma 1, c.p.c. e 80-bis disp. att. c.p.c., secondo cui la rimessione a decisione può essere effettuata in ogni momento ed anche all'udienza di prima comparizione, il Giudice ben potrebbe rifiutare la concessione dei termini richiesti; ed in particolare, tale evenienza dovrebbe verificarsi, appalesandosi del tutto inutile la concessione dei termini, laddove si tratti di decidere questioni pregiudiziali quali, tra le altre, il difetto di giurisdizione o di competenza, ovvero l'improponibilità, improcedibilità od inammissibilità della domanda. La Suprema Corte ha aderito a tale ultima tesi, e lo ha fatto proprio muovendo dall'esigenza di non accogliere richieste strumentali in contrasto con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo (Cass. civ., sez. I, 23 marzo 2017, n. 7474 e Cass. civ., sez. III, 11 marzo 2016, n. 4767); e tale ancoraggio ai princìpi costituzionali ha consentito di superare il rilievo, oggettivamente forte, relativo al fatto che il disposto dell'articolo 183, comma 6, c.p.c. in ordine alla obbligatorietà della concessione, dovrebbe prevalere rispetto a quello dell'articolo 80 bis disp. att. c.p.c., trattandosi di norma sia successiva, sia speciale.
In ogni caso, va osservato che l'appendice scritta dei termini dell'art. 183, comma 6, c.p.c., pur se diffusissima ed utilizzata in quasi ogni controversia, è in teoria solo eventuale, ben potendo le parti, in astratto, precisare domande-eccezioni-conclusioni e formulare le istanze istruttorie, già in udienza di trattazione (cfr. ultima parte art. 183, comma 5, c.p.c.). Se quindi precisazione delle domande e formulazione delle istanze istruttorie possono essere alternativamente effettuate sia in udienza ex art. 183 c.p.c., sia nei termini concessi ex art. 183 comma 6 c.p.c., così non è per la possibilità di chiamata del terzo ad opera dell'attore e per la reconventio reconventionis: infatti, l'attore è onerato di richiedere la chiamata del terzo e di operare la reconventio reconventionis direttamente in udienza ex art. 183 c.p.c. (cfr. art. 183, comma 5, c.p.c. prima parte), con la conseguenza che sarebbe tardiva l'effettuazione di tali attività nei termini concessi ex art. 183 comma 6 c.p.c.
I termini ex art. 183, comma 6, c.p.c. decorrono immediatamente dal momento della loro concessione, e cioè dall'udienza ove l'ordinanza ammissiva sia resa all'udienza stessa, o dalla comunicazione del provvedimento ove l'ordinanza sia resa a seguito di scioglimento di riserva. Consegue che deve ritenersi tecnicamente errata la prassi, talvolta utilizzata, di prevedere espressamente la decorrenza dei termini da un momento successivo a quello dell'ordinanza resa in udienza o riservata: pur se ciò si spiega con il ragionevole obiettivo di non costringere le parti all'immediata redazione delle memorie istruttorie laddove l'udienza di ammissione sia fissata in un periodo notevolmente successivo rispetto agli ottanta giorni derivanti dalla sommatoria dei tre termini ex art. 183, comma 6, c.p.c., non vi è chi non veda che così facendo vengono prorogati termini ex lege perentori, ciò che il giudice non può fare neppure sull'accordo delle parti, stante l'inequivoco disposto di cui all'art. 153,comma 1,c.p.c. Né, ovviamente, i termini possono essere concessi in misura diversa, maggiore o minore, di quella predeterminata ex lege nella sequenza di trenta, trenta e venti. Secondo poi il chiaro dato testuale dell'articolo 183, comma 7, c.p.c., è possibile per il giudice sia riservare direttamente la decisione al momento della concessione dei termini, con scioglimento della riserva nei trenta giorni successivi alla decorrenza dei termini stessi, sia fissare udienza successiva per la decisione. Nella prassi, la seconda opzione è condivisibilmente risultata quella di gran lunga più utilizzata, e ciò al fine per un verso di evitare alla Cancelleria il peso derivante dalle notifiche alle parti di tutti i provvedimenti istruttori riservati, per altro verso di valorizzare il contraddittorio orale con le parti al momento della decisione.
Con una sentenza profondamente innovativa, Cass. civ., Sez. Un., 15 giugno 2015, n. 12310 ha completamente rimodulato l'ambito applicativo dell'articolo 183, comma 6, n. 1 c.p.c., ampliandone significativamente la portata operativa rispetto agli angusti limiti in cui era stata ristretta dalla giurisprudenza precedente. Infatti, le Sezioni Unite hanno affermato che la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa, id est petitum e causa petendi, sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e cioè non sia realmente nuova, e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali (conforme tutta la successiva giurisprudenza: cfr., ex pluribus e tre le ultime, Cass. civ., sez. III, 21 novembre 2019, n. 31078). Ne consegue, diversamente da quanto ritenuto da Cass. civ., Sez. Un., 5 marzo 1996, n. 1731, l'ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c., dell'originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c., con quella di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo. E più in generale, consegue un superamento della consolidata giurisprudenza precedente che considerava inammissibile mutatio libelli la formulazione di una domanda avente petitum o causa petendi diversa. Infatti, la possibilità prevista dall'art. 183 c.p.c. non solo di ‘precisare', ma anche di ‘modificare' la domanda (al contrario di quanto previsto in appello dall'art. 345 c.p.c., ove vige l'esplicito divieto di ogni domanda nuova, e conformemente a quanto previsto dall'art. 189 c.p.c., che consente la precisazione delle conclusioni nei limiti di quella iniziale o quella di cui all'art. 183 c.p.c., in tal modo ribadendo che le conclusioni possono ivi essere sostanzialmente cambiate), comprova che è possibile proporre domande diverse, pur se collegate all'originaria domanda dalla medesimezza della vicenda sostanziale dedotta; mentre la domanda nuova inammissibile è solo quella priva di collegamento con l'originaria. Solo il fatto che la modifica della domanda possa riguardare causa petendi e petitum, spiega poi perché si hanno termini scritti di trenta più trenta giorni, termini altrimenti non necessari. Né tale possibilità può allungare la durata della causa, posto che ancora devono essere formulati i mezzi istruttori, o violare il diritto di difesa, posto che i termini sono all'uopo concessi e comunque la domanda modificata deve essere collegata all'originaria. Anzi, detta possibilità consente alle parti, a seguito dei chiarimenti che possono emergere nell'udienza ex art. 183 c.p.c. grazie ai poteri di indirizzo e direzione del giudice, di perseguire il bene della vita realmente voluto; e consente altresì di concentrare davanti allo stesso giudice e nello stesso processo tutte le questioni aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale, così perseguendo obiettivi di ragionevole durata del processo e di economia processuale, evitando anche rischi di giudicati contrastanti.
Proprio sulla scorta di tale nuova posizione, è stata successivamente ritenuta l'ammissibilità della domanda di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. proposta, in via subordinata, con la prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., nel corso del processo introdotto con domanda di adempimento contrattuale, qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa a quella inizialmente formulata (Cass. civ., Sez. Un.,13 settembre 2018, n. 22404, che supera la precedente giurisprudenza, la quale riteneva si avesse una inammissibile mutatio libelli nella sostituzione della domanda di adempimento contrattuale con quella di indennizzo per arricchimento senza causa). È approdo da anni consolidato, fondato su esigenze di logica giuridica e sul chiaro dato letterale della norma, quello per cui, con riferimento ai termini istruttori di primo grado, le prove precostituite soggiacciono alle medesime preclusioni previste per le prove costituende (principio espresso sin da Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2003, n. 15646 e mai più disatteso, che trova conforto anche nell'insegnamento di Corte cost., 28 luglio 2000, n. 401, la quale ha dichiarato manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 184 c.p.c. allora vigente, laddove considera inammissibile la produzione di documenti dopo lo spirare dei termini istruttori). Residua però concettualmente una differenza di disciplina tra prove costituende e prove precostituite, nel primo grado del rito ordinario, atteso che solo per le prime si ha tecnicamente un preventivo giudizio di ammissibilità e rilevanza ai fini della loro ammissione da parte del giudice; mentre i documenti potranno trovare comunque ingresso nel fascicolo, se prodotti ritualmente ex artt. 74 o 87 disp. att. c.p.c., fatta ovviamente salva ogni valutazione da parte del giudice ai fini della loro utilizzabilità, ma senza possibilità di espunzione o di divieto di produzione (cfr. la datata ma mai contraddetta Cass. civ., sez. I, 7 marzo 1995, n. 2652), e ciò sia perché il giudizio preventivo di ammissibilità e rilevanza riguarda dal punto di vista logico le sole prove costituende, sia perché è comunque utile che il documento rimanga acquisito al processo al fine di rivalutare la questione in sede di eventuale gravame. Infine e con specifico riferimento al tema dell'opposizione a decreto ingiuntivo, stante la mancanza di autonomia tra il procedimento che si apre con il deposito del ricorso monitorio e quello originato dall'opposizione ex art. 645 c.p.c., i documenti allegati al ricorso, in quanto rimasti a disposizione della controparte ed in forza del principio di non dispersione della prova, rimangono nella sfera di cognizione del giudice dell'opposizione seppur non prodotti nuovamente in tale fase (così Cass. civ., Sez. Un.10 luglio 2015, n. 14475, nonché la successiva Cass. civ., sez. II, 4 aprile 2017, n. 8693). Una tematica di rilevante spessore giuridico è quella relativa alla questione se i termini istruttori, nel caso di richiesta di prova testimoniale, riguardino solo la formulazione del capitolo di prova, od anche l'indicazione del teste. In altre parole, ci si è chiesti se, ferma restando la necessaria indicazione, prima dello spirare dei termini istruttori, dei capitoli testimoniali, sia possibile indicare, in un momento successivo alla scadenza dei termini istruttori, i nominativi dei testi da escutere. La tesi largamente prevalente in dottrina e giurisprudenza di merito ha sempre fornito una risposta negativa al quesito, sancendo la necessità di indicare comunque, nel rispetto dei termini, sia il capitolo probatorio, sia il nominativo del teste. In proposito, si è infatti evidenziato che nessun elemento letterale della norma codicistica autorizza l'illazione che vi possa essere una scissione tra il momento temporale in cui deve essere indicato il capitolo di prova ed il momento temporale in cui deve essere indicato il nominativo del teste. Anzi, l'avvenuta abrogazione, ad opera dell'art. 89, comma 1,l. n. 353/1990, del terzo comma dell'art. 244 c.p.c., che consentiva al giudice la possibilità di assegnare un termine alle parti per formulare o comunque integrare l'indicazione delle persone da interrogare, evidenzia inequivocabilmente la voluntas legis di non rendere possibile un'indicazione dei testimoni successiva allo spirare delle preclusioni istruttorie; e di intendere la nozione di “mezzo di prova” come integrata sia da un requisito oggettivo (il capitolo), sia da un requisito soggettivo (il teste chiamato alla conferma), atteso che l'art. 244, comma 1, c.p.c. prevede che «la prova per testimoni deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata». La questione è stata affrontata per la prima volta dalla Suprema Corte nel 1999, in un laconico quanto non motivato obiter dictum, sancendo che il sistema prevede «il carattere perentorio del termine per indicare nuovi mezzi di prova e non per indicare il nome dei testimoni relativamente ad una prova ammessa»(Cass. civ., sez. II, 19 luglio 1999, n. 7682). Con un netto revirement, successivamente, la stessa Cassazione ha però condivisibilmente mutato orientamento, aderendo alla tesi che sopra si è detto essere sempre stata nettamente prevalente a livello di giurisprudenza di merito, e statuendo che il termine assegnato dal Giudice riguarda non solo la formulazione dei capitoli, ma anche l'indicazione dei testi (Cass. civ., sez. III, 9 giugno 2016, n. 11790; Cass. civ., sez. II, 20 novembre 2013, n. 26058; Cass. civ., sez. III; 31 maggio 2010, n. 13250; Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2010, n. 5072; Cass. civ., sez. III, 16 aprile 2009, n. 9015; Cass. civ., sez. III, 18 aprile 2006, n. 8957; Cass. civ., sez. III, 7 dicembre 2005, n. 27007; Cass. civ., sez. III, 16 giugno 2005, n. 12959). Peraltro, la regola che prescrive l'indicazione nominativa va coordinata con il principio della nullità a rilevanza variabile posto dall'art. 156, comma 3, c.p.c., di talché non può essere pronunciata la nullità, stante il raggiungimento dello scopo, se il teste, pur se indicato con dati erronei od incompleti, è comunque identificabile (così le già citate Cass. civ., sez. II, 20 novembre 2013, n. 26058 e Cass. civ., sez. III, 16 giugno 2005, n. 12959). Per comunanza di tematica merita un cenno anche il rito del lavoro, ove la giurisprudenza, sulla scia di Cass. civ., Sez. Un., 13 gennaio 1997, n. 262 (tra le più recenti, cfr. Cass. civ., sez. Lav., 30 maggio 2014, n. 12210), si è orientata nel ritenere ammissibile l'indicazione successiva dei nominativi dei testimoni rispetto a capitoli probatori tempestivamente indicati, ciò però nei termini concessi dal giudice ex art. 421, comma 1, c.p.c., norma tipica del rito del lavoro e come tale non estensibile al rito ordinario. Tuttavia, in motivato dissenso da tale indirizzo si è posta la più recente (e più convincente, ad avviso di chi scrive), Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2014, n. 5950, in una fattispecie in cui s'applicava il rito del lavoro ex art. 447-bis c.p.c. in materia non lavoristica: in tale arresto si è infatti ritenuto che l'omessa indicazione del nominativo del teste non costituisce una mera irregolarità sanabile ex art. 421 c.p.c., ma incide sulla stessa configurabilità di una prova per testi, che ex art. 244 c.p.c. è integrata dall'indicazione “delle persone… e dei fatti”, con la conseguenza che un capitolo privo dell'indicazione nominativa del teste non assurge al rango di prova testimoniale.
Ulteriore questione interpretativa è quella relativa al terzo termine concesso dal giudice per l'indicazione della prova contraria. Sul punto, è stato convincentemente osservato che, pur non avendo il legislatore riprodotto l'espressione “produzioni documentali”, già utilizzata per il precedente termine relativo alla prova diretta, l'espressione “prova contraria” utilizzata per il successivo termine si riferisce comunque a qualunque prova, costituenda o costituita che sia. Conseguentemente, nell'ultimo termine è possibile fornire la prova contraria sia con testimoni, sia con documenti (in questi termini, cfr. già Cass. civ., sez. III, 9 febbraio 2005, n. 2656). Ovviamente, poi, è ben possibile instare per la prova contraria diretta, cd. controprova, avente cioè un contenuto specularmene opposto alla prova indicata da controparte e relativa agli stessi fatti ex adverso indicati, normalmente consistente nell'indicazione, anche sui capi avversari, dei propri testi dedotti in prova diretta; ovvero instare per la prova contraria indiretta, avente cioè ad oggetto fatti diversi pur se incompatibili con i fatti dedotti da controparte, e finalizzata quindi a negare in tal modo gli assunti avversari dando prova di circostanze logicamente contrarie. Per quanto concerne l'oggetto della possibile prova contraria, deve ritenersi condivisibile la tesi, fatta propria anche dalla già citata Cass. civ., sez. III, 9 febbraio 2005, n. 2656, che ammette la possibilità di formulare prova contraria relativamente a qualunque prova ex adverso dedotta ed in ogni momento indicata, ad esempio anche nell'atto introduttivo o in un momento precedente alla memoria ex art. 183, comma 6, n. 2 c.p.c., non solo alle prove indicate per la prima volta in tale ultima memoria. La diversa soluzione, che postula la possibilità di utilizzare il termine ex art. 183, comma 6, n. 3 c.p.c. solo per formulare prova contraria rispetto a quanto ex adverso capitolato nella memoria ex art 183, comma 6, n. 2, c.p.c., appare incongrua sia perché non fondata su alcun dato normativo; sia perché, nella prima memoria istruttoria, la controparte potrebbe abbandonare o comunque riformulare le istanze in precedenza rassegnate, e quindi rendere inutile la formulazione di prova contraria rispetto a tali prove. |