Tribunale di Roma: il criterio predominante per determinare l'indennità a seguito di licenziamento illegittimo rimane l'anzianità di servizio
04 Settembre 2020
Massima
Anche a seguito della sentenza della Corte costituzionale dell'8 novembre 2018, n. 194, il criterio cardine per determinare l'indennizzo nel caso di licenziamento illegittimo è costituito dall'anzianità di servizio. Il Giudice, quindi, deve almeno riconoscere due mensilità a titolo d'indennizzo per ogni anno maturato di anzianità di servizio.
Detto importo potrà essere ulteriormente aumentato applicando gli altri criteri indicati dall'art. 8, l. n. 604 del 1966 e dall'art. 18, comma 5, l. n. 300 del 1970. Il caso
Un dipendente, ad un mese dalla sua nomina come rappresentante sindacale aziendale e dopo molteplici trasferimenti, veniva licenziato dall'impresa presso la quale lavorava per giustificato motivo oggettivo.
Nonostante fosse stato assunto l'8 marzo 2015, domandava la reintegrazione ai sensi dell'art 18, comma 5, l. n. 604/1966, con le ulteriori conseguenze a titolo risarcitorio e contributivo stabilite dalla suddetta norma. In subordine domandava l'applicazione dell'art. 18, comma 7, l. n. 300/1970, con il versamento a suo favore di un'indennità pari a 24 mensilità.
Il Giudice, innanzitutto, rilevava l'assenza dei requisiti del licenziamento per g.m.o. evidenziando come non fosse stata fornita da parte datoriale alcuna prova che accertasse un rapporto di causalità tra la scelta organizzativa a monte del licenziamento economico e l'individuazione del ricorrente come lavoratore da licenziare. Proseguiva evidenziando come non fosse stato provato l'assolvimento dell'obbligo di repechage.
Tuttavia il Giudicante respingeva la domanda principale di applicazione della tutela prevista dall'art. 18, comma 5, l. n. 300/1970, per il semplice motivo che il rapporto di lavoro soggiaceva, essendo stato instaurato l'8 marzo 2015, al regime di tutele di cui al d.lgs. n. 23/2015.
Accoglieva, invece, la domanda subordinata di risarcimento sul presupposto della sostanziale equivalenza tra l'ipotesi di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo stabilita dall'art. 18, comma 5, l. n. 300/1970 e “mancanza degli estremi del giustificato motivo oggettivo” indicata nell'art. 3 del d.lgs. n. 23/2015.
La questione di particolare rilevanza della sentenza in commento sono le motivazioni in base alle quali il Giudice riconosceva a parte ricorrente un indennizzo pari a 12 mensilità. La questione giuridica
Come si determina l'indennità a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 che ha dichiarato illegittimo l'art. 3 del d.lgs. n. 23/2015 nella parte in cui ha previsto che l'indennizzo debba essere parametrato rigidamente ed esclusivamente all'anzianità di servizio? Le soluzioni giuridiche
Il Giudice nel dichiarare il licenziamento illegittimo condanna parte convenuta a versare al lavoratore una somma pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR. La base di partenza per determinare l'indennizzo, deve essere comunque il meccanismo di calcolo basato sull'anzianità di servizio (sul punto cfr. Tribunale di Roma 23 novembre 2018, n. 9079). Rileva che la censura della Corte costituzionale era mirata all'esclusiva applicazione del criterio dell anzianità di servizio, ma permane valido il principio stabilito dall'art'1, comma 7, lett. c) della legge delega n. 183/2014 secondo cui l'indennizzo deve essere determinato in maniera certa e crescente con l'anzianità di servizio.
Per questo motivo il Giudicante ritiene valido come punto di partenza minimo 8 mensilità di indennizzo poiché il ricorrente aveva 4 anni d'anzianità di servizio.
Tale somma viene elevata di ulteriori 4 mensilità dal momento che ha ritenuto totalmente assente una motivazione economica nel licenziamento che probabilmente poteva essere qualificato come ritorsivo se la domanda fosse stata proposta. Sul punto il Giudice in tre distinti punti della sentenza evidenzia come il ricorrente fosse un rappresentante sindacale trasferito più volte senza motivo. Egli rivaluta la possibile natura ritorsiva del licenziamento sulla base del criterio del comportamento delle parti.
Sulla base di questi presupposti e sul fatto che la parte resistente è un'impresa di notevoli dimensioni con ben 69 dipendenti, il Giudice innalza l'indennizzo minimo di 8 mensilità sino a 12 mensilità. Osservazioni
A distanza di quasi due anni dalla sentenza della Corte Costituzionale sussiste un nutrito filone giurisprudenziale che ancora oggi applica sic et simpliciter l'anzianità di servizio come unico criterio per determinare l'indennizzo in caso di licenziamento illegittimo (v., ex plurimis, Tribunale Sassari 29 gennaio 2019, Tribunale Cosenza ord. 20 febbraio 2019, Tribunale Napoli 26 gennaio 2019, n. 1366).
A parere di chi scrive la responsabilità di questo appiattimento è attribuibile da coloro che siedono da entrambi i lati delle scrivanie delle aule d'udienza: avvocati e giudici.
E' frequente leggere ricorsi, inclusi quelli redatti da codesto commentatore, che si concentrano sul fornire elementi dai quali sia desumibile l'assenza di motivazione del licenziamento per poi frettolosamente argomentare il tema della quantificazione dell'indennizzo con un semplice richiamo ai tre criteri stabiliti dal Legislatore.
Il sistema di parametrazione automatica dell'indennizzo, quindi, nonostante la pronuncia della Corte costituzionale, si annida nel subconscio degli operatori del diritto.
Tale forma mentis è giustificabile dal fatto che la stessa Corte rileva come l'anzianità di servizio debba essere il criterio principale per la determinazione dell'indennizzo, ma, giova ripeterlo ancora una volta, non l'unico. Secondo la Corte costituzionale la rigidità dell'apparato sanzionatorio previsto dal Jobs Act, che impediva al Giudice di calibrare il risarcimento al caso concreto, comportava una violazione dell'art. 3 Cost.
L'indicazione che fornisce la Corte è che il Giudice, all'interno dei limiti minimi e massimi stabiliti dal Legislatore, quindi da 6 a 36 mensilità dell'ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR, è libero di stabilire l'entità del risarcimento. Ovviamente questa discrezionalità non può scivolare nell'arbitrio e, quindi, il Giudice deve giustificare la propria quantificazione con l'utilizzo di criteri quali, oltre l'anzianità di servizio, le dimensioni dell'impresa ed il relativo organico, le capacità economiche ed il comportamento delle parti.
Ma la Corte effettua un'altra censura che pare essere passata in secondo o terzo piano: l'inadeguatezza dell'indennizzo parametrato esclusivamente sull'anzianità di servizio come sistema sanzionatorio volto a disincentivare il datore di lavoro dall'intimare licenziamenti illegittimi per quanto riguarda i lavoratori con una ridotta anzianità servizio. La Consulta non manca più volte di evidenziare che il criterio di quantificazione del risarcimento ancorato alla sola anzianità di servizio costituisce una violazione non solo del principio di ragionevolezza e uguaglianza stabilito dall'art. 3 della Costituzione, ma anche degli articoli 4 e 35 Cost. che declinano il diritto al lavoro come strumento per realizzare il pieno sviluppo della personalità di ogni singolo cittadino.
Rientra nel pieno sviluppo della personalità l'esercizio del diritto di critica, della libertà sindacale, politica e religiosa all'interno del luogo di lavoro, libertà che risulterebbero compromesse se la sanzione a carico del datore, nel caso di licenziamento illegittimo, non fosse realmente afflittiva. L'assenza di un'adeguata tutela di fronte ad eventuali comportamenti ritorsivi del datore comporterebbe una possibile rinuncia all'esercizio di tali diritti da parte dei lavoratori con conseguente compromissione dello sviluppo della personalità umana.
Secondo la Corte questo rischio sussisteva nel sistema sanzionatorio delineato dal Jobs Act, soprattutto per quei lavoratori con una limitata anzianità di servizio la cui eventuale tutela è limitata ad un risarcimento economico del valore di poche mensilità.
Dunque la tutela posta nel caso di licenziamento illegittimo deve mirare anche a riequilibrare le posizioni di forza contrattuali tra lavoratore e datore, le quali penderebbero irrimediabilmente a favore di quest'ultimo nel caso in cui le conseguenze economiche a suo sfavore non fossero tali dal dissuaderlo da comportamenti illegittimi.
E sulla base di questa censura può dirsi veramente afflittiva una condanna come quella della sentenza in commento che, a fronte di un licenziamento larvatamente ritorsivo e senza alcuna motivazione di un rappresentante sindacale, commina ad una impresa di 69 dipendenti una sanzione di poco più di € 17.000,00.
A parere di chi scrive, la sentenza in commento, pur avendo il pregio di discostarsi dalla rigida applicazione del criterio dell'anzianità di servizio, commina comunque una sanzione di limitata afflittività per il datore di lavoro. Di fatto viene ignorato il secondo profilo d'incostituzionalità delineato dalla più volte richiamata sentenza della Corte costituzionale.
Dall'altra parte è pur vero che la motivazione della sentenza lascia intendere che se fosse stata richiesto l'accertamento della natura ritorsiva/discriminatoria del licenziamento tale domanda avrebbe potuto essere accolta. Cionondimeno il Giudice, considerato che il limite massimo del risarcimento è ora a pari a 36 mensilità, nel caso di specie avrebbe potuto attestarsi su una sanzione che si avvicinasse alla metà dell'indennizzo massimo. Conclusioni
A distanza di oltre un anno e mezzo dalla sentenza della Consulta è evidente che la giurisprudenza di merito, per le motivazioni già esposte, continui ad appiattirsi al criterio dell'anzianità di servizio nella determinazione dell'indennizzo da riconoscersi nel caso di licenziamento illegittimo.
Tale criterio permetterà in futuro un adeguato ristoro a lavoratori con un'elevata anzianità di servizio, mentre per impedire che il licenziamento costituisca un semplice firing cost nei confronti dei cd neoassunti spetterà agli avvocati difensori dei lavoratori fornire argomentazioni valide al Giudice affinché possa aumentare l'indennizzo.
Sia concesso ora terminare con una riflessione.
E' indubbio che la recente pandemia stia stravolgendo anche il diritto del lavoro. Il cd. smart working è improvvisamente diventato uno degli argomenti di più animata discussione in dottrina e inevitabilmente sarà argomento di discussione, a breve, anche nelle aule dei tribunali.
La dematerializzazione della sede, della filiale, dell'unità produttiva dell'ufficio sarà ancora più accentuata. A prescindere da un‘inevitabile riorganizzazione che ciò comporterà a livello dell'attività sindacale, sarà quindi più difficile rispettare ed accertare i requisiti dimensionali di cui ai commi 8 e 9 dell'art 18 l. n. 300/1970. Il raggiungimento di tali requisiti di organico era già in alcuni casi difficile grazie a fenomeni più o meno leciti di decentramento produttivo. Ora con lo smart working il superamento dei 15 dipendenti all'interno dello stesso ufficio, filiale o comune potrebbe essere ancora più arduo. Basti pensare che già ora esistono alcune piattaforme digitali che riescono a gestire attività con un volume d'affari di diversi milioni di euro con un organico al di sotto dei noti limiti per l'applicazione della (ex) tutela reale.
Se non si vuole che il licenziamento per determinate aziende costituisca un fastidioso balzello per liberarsi di lavoratori scomodi, rendendo così lettera morta la seconda censura mossa dalla Corte costituzionale, occorrerebbe valutare nuovi criteri per determinare quali cornice indennitaria applicare che non si basi sul numero di occupati, ma ad esempio prenda in considerazione la capacità economica dell'impresa a livello di fatturato. |