Licenziamento collettivo: si tiene conto anche della risoluzione concordata
07 Settembre 2020
La risoluzione concordata del rapporto, successivamente al rifiuto del lavoratore di un suo trasferimento, può essere inclusa nel numero di dipendenti rilevante ai fini dell'applicazione della disciplina di cui alla l. n. 223/1991? Secondo un precedente orientamento giurisprudenziale, l'art. 24 l. n. 223 del 1991 avrebbe dovuto essere interpretato nel senso che, nel numero minimo di cinque licenziamenti, indicato dal legislatore come sufficiente ad integrare la fattispecie di licenziamento collettivo, non avrebbero potuto essere incluse differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, anche qualora esse fossero in concreto riferibili all'iniziativa datoriale. Il termine "licenziamento", infatti, avrebbe dovuto intendersi in senso tecnico, senza potere ad esso parificare qualunque altro tipo di cessazione del rapporto determinata da una scelta, anche non esclusiva, del lavoratore (es. dimissioni, risoluzioni concordate) non rilevando il fatto che la cessazione fosse riconducibile alla medesima operazione di riduzione del personale.
Recentemente, tuttavia, facendo leva sulla posizione ermeneutica assunta dal giudice dell'UE, la Corte di cassazione ha mutato suddetto orientamento, affermando che una corretta interpretazione dell'articolo 1, par. 1, comma 1, lett. a), della direttiva 98/59/CE richiede l'inclusione nella nozione di "licenziamento" anche di ipotesi in cui la fine del rapporto sia causalmente riconducibile alla modifica sostanziale, operata unilateralmente dal datore, di elementi essenziali del contratto di lavoro, per ragioni inerenti l'organizzazione dell'attività, anche ove la risoluzione venga richiesta dal lavoratore medesimo.
Ne consegue che, sussistendo tali elementi fattuali, anche la risoluzione concordata deve essere inclusa nel numero di licenziamenti richiesto dalla l. n. 223 del 1991.
Cfr.: Cass., sez. lav., ord. 20 luglio 2020, n. 15401; C. giust. UE 11 novembre 2015, C-422/14. |