Il contagio da COVID come infortunio e i possibili riflessi sulla responsabilità del datore di lavoro

15 Settembre 2020

Prosegue l'analisi di impatto del “fenomeno COVID” da parte degli autori Filippo Martini e Marco Rodolfi con un contributo dedicato alle criticità interpretative indotte dalla nozione, di fonte normativa, di “infortunio” esteso anche alla causa virulenta da contagio da Covid-19.
Introduzione

L'art. 42 del d.l. n.18 del 17 marzo 2020 ha dettato una normativa di ispirazione previdenziale che ha di fatto modificato il perimetro della definizione di “infortunio” professionale stressando il concetto fino ad includervi in modo tralatizio la malattia da contagio da CIVID-19.

Anche i profili di accertamento causale tra esposizione (reale o supposta) e contagio, appaiono assai dilatati in un'ottica protettiva verso il prestatore d'opera che, pur tuttavia, si smarcano dai canoni civilistici della colpa e del nesso e quindi con potenziale effetto derogativo ai canoni del diritto.

Il II comma della norma prevede, infatti, che:

“Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all'INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell'infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell'oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti dell'allegato 2 al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 27 febbraio 2019, recante "Modalità per l'applicazione delle tariffe 2019". La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.

Si pone ora come necessaria l'analisi di impatto del testo normativo primariamente sui seguenti profili interpretativi e pratici:

  1. Inquadramento del contagio COVID-19 in ambito infortunio sul lavoro, margini normativi e operativi;
  2. Impatto della novella in termini civilistici di responsabilità del datore di lavoro;
  3. Impatto della disciplina cosi inquadrata sulle coperture assicurative RCO e INFORTUNI (rinvio alla terza sezione).

Di seguito la nostra analisi, basata sulla disamina dei profili giuridici / normativi e previdenziali in ottica anche di perimetrazione dei rischi assicurativi.

Inquadramento normativo

La questione posta deve essere considerata alla luce degli effetti della disposizione normativa (factum principis) contenuta nell'art. 42 comma 2 d.l. n. 18 del 17 marzo 2020 (convertito ormai nella Legge n. 27 del 24 aprile 2020) il quale stabilisce, come abbiamo visto, che "nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2), in occasione di lavoro” l'Inail “assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato".

Tale disposizione si inserisce in un contesto di decretazione emergenziale che pone altresì numerose deroghe alla stessa disciplina INAIL, come, ad esempio, i termini di prescrizione e decadenza per il conseguimento delle prestazioni

A causa dell'emergenza da COVID-19, dal 23 febbraio 2020 e sino al 1° giugno 2020, sono infatti sospesi:

- il decorso dei termini di decadenza relativi alle richieste di prestazioni erogate dall'INAIL;

- i termini di decadenza e prescrizione delle prestazioni INAIL;

- i termini di revisione della rendita su domanda del titolare, nonché su disposizione dell'INAIL, che scadano nel periodo indicato (art. 83 D.P.R. n. 1124/1965).

Detti termini riprendono a decorrere dalla fine del periodo di sospensione.

Tra le norme di natura "eccezionale" è previsto dunque che nei casi accertati di infezione da coronavirus in occasione di lavoro, l'INAIL eroghi le prestazioni previste per l'infortunio sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta.

La disposizione di cui al comma 2 dell'art. 42: “si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.

Le prestazioni Inail dunque spettano ai lavoratori:

- dipendenti;

- parasubordinati;

- sportivi professionisti dipendenti;

- appartenenti all'area dirigenziale.

Inoltre, per le seguenti categorie di lavoratori vige la presunzione semplice di origine professionale, considerata la elevatissima probabilità che gli stessi, per la natura del loro lavoro, vengano a contatto con il Coronavirus:

- operatori sanitari;

- lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti;

- personale non sanitario operante all'interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi.

Infine, gli eventi lesivi derivanti da infezioni da Coronavirus - in occasione di lavoro - non sono computati ai fini della determinazione dell'oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico (artt. 19 e s. d.l. 27 febbraio 2019).

Questo quadro normativo emergenziale ed eccezionale deve essere così interpretato, come noto, alla luce anche dei documenti dell'Inail: la "nota di chiarimento" del 17 marzo 2020, la Circolare n. 13 del 3 aprile 2020 e la Circolare n. 22 del 20 maggio 2020.

*****

Il quadro normativo così delineato va dunque ad incidere sul corpo interpretativo e disciplinare regolato dal d.P.R. n. 1124/65 e dal d.lgs. n. 38/2000.

In particolare, si rammenta per quanto qui consta, che lo stesso TU n. 1124/1965 definisce "infortunio" l'evento "avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro" e "malattia" professionale quella contratta "nell'esercizio e a causa delle lavorazioni specificate" in apposita tabella.

Come si sa, già in passato l'INAIL ebbe a modificare questo quadro indennitario in materia di "malattie infettive e parassitarie" disponendo la loro equiparazione ad infortunio, in un'ottica di accentuazione della tutela del lavoratore non altrimenti garantito per malattie non inserite nella tabella di legge (lettera INAIL 1 luglio 1993 e Circolare INAIL n. 74 del 23 novembre 1995).

Tuttavia, proprio con quest'ultima circolare, l'INAIL stesso rilevava che alla luce del processo di accelerato perfezionamento delle metodologie specialistiche di accertamento delle patologie professionali, sussisterebbero già "le condizioni per garantire la protezione assicurativa delle malattie infettive e parassitarie anche senza ricorso alla suddetta nozione di "malattia - infortunio".

E' vero che il ricorso alla accezione estensiva di infortunio (causa violenta = causa virulenta) vede la sua ragione nell'impulso ricevuto negli anni ottanta dalla magistratura (si veda la Corte Costituzionale n. 179 del 1988) che era volto ad ampliare la tutela del lavoratore.

In quegli anni, infatti, la normativa INAIL prevedeva una tutela economica più vantaggiosa e più facilmente accessibile per gli infortuni professionali, rispetto a quella prevista per le malattie contratte a causa o in occasione di lavoro.

L'impulso giurisprudenziale, dunque, ebbe l'evidente fine di estendere il più possibile la tutela del lavoratore.

Emblematica in proposito è stata la Corte Costituzionale che ebbe così ad incidere sulla limitazione dello schematismo rigido previsto fino ad allora per le malattie professionali:

"Il sistema tabellare, attualmente in vigore per le malattie professionali, si pone in contrasto con il precetto costituzionale consacrato nell'art. 38, comma 2, Cost., in quanto, in aggiunta alla previsione delle tabelle, non consente (nell'ambito delle attività protette industriali e agricole di cui rispettiva-mente agli artt. 1, 206, 207 e 208, d.P.R. n. 1124/1965) l'indagine sull'eziologia professionale delle malattie, indipendentemente dagli elenchi stabiliti e dai tempi della manifestazione morbosa richiesti dalla legge. Il progresso delle tecnologie diagnostiche nella medicina del lavoro, che estende le ipotesi di massima probabilità di eziologia professionale delle malattie "tipiche" e aumenta il tasso di agevolezza e di attendibilità dell'indagine su tale eziologia, nonché lo sviluppo delle tecnologie produttive, che implica l'incremento dei fattori di rischio delle malattie professionali, hanno infatti alterato - a favore del primo - il rapporto di rilevanza tra l'interesse all'allargamento dell'area dell'eziologia e l'interesse all'accertamento presuntivo: sicché`, la presunzione nascente dal sistema predetto circa la causa professionale delle malattie contratte nell'esercizio di lavorazioni morbigene, è divenuta insufficiente a compensare il divieto dell'indagine aperta sulla causa di lavoro. Va pertanto dichiarata, in riferimento all'art. 38, comma 2, Cost., l'illegittimità costituzionale dell'art. 211, comma 1, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, nella parte in cui non prevede che l'assicurazione è obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle concernenti malattie professionali nell'agricoltura e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purché` si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro”.

Invero, l'opzione concessa dalla decisione appena esaminata andava nel senso di allargare lo spettro delle malattie professionali coperte dall'ente e protette dal regime speciale della prova presuntiva.

Appare, invece, chiaro che, con il passaggio della patologia virale nel contesto infortunistico, si sia privilegiata la via più “agile” di agevolare il lavoratore sul piano probatorio, consentendogli di prescindere dall'onere di individuare l'esatto momento in cui il virus sarebbe stato contratto e quindi consentendo di adeguare la tutela al rischio professionale insito nello svolgimento dell'attività esposta a rischio (sanitaria e non).

Questo è per dire che quel principio ebbe una genesi storica ben precisa; che oggi le ragioni per cui venne escogitato sono divenute superflue; che in ogni caso quelle ragioni costituiscono anche la chiave di lettura dell'odierno provvedimento, benché, come detto, con impatto pratico diverso dall'epoca in cui fu escogitato.

Eppure, non si può prescindere dal fatto che la norma esista e le osservazioni che precedono consentono, innanzitutto, l'inquadramento della norma contenuta nell'art. 42 del d.l. n. 18/2020 nel contesto pratico assistenziale proprio di tale normazione e certamente come una disposizione emergenziale ed eccezionale.

Impatto della novella nel contesto della responsabilità civile del datore di lavoro

Si pone ora il tema di come e se questa disciplina previdenziale possa incidere sui profili ordinari della responsabilità e della causalità tra possibile omissione di presidi di sicurezza e danno-contagio.

Invero, a nostro giudizio, i profili epidemiologici e causali (nonché quindi quelli probatori) presentano aspetti decisamente critici, in quanto l'accadimento stesso (contagio in ambiente lavoro) non sarà sempre(con la sola eccezione degli operatori sanitari) agevole da dimostrare per le controparti, neppure su un piano di presunzioni. Al tempo stesso, il rispetto e la predisposizione di strumenti e presidi di tutela dei lavoratori (e la tempistica della loro predisposizione) diverranno dirimenti nei possibili giudizi civili e giuslavoristici.

Un tema già al centro di altissima attenzione anche mediatica, è quello legato al possibile riflesso che tale normativa potrebbe avere sull'azione di regresso dell'INAIL verso il datore di lavoro.

Riteniamo, innanzi tutto, che appia di difficile praticabilità l'azione di responsabilità dell'INAIL contro il datore di lavoro, posto che il regresso nei confronti del datore di lavoro spetta quando l'infortunio sia dovuto a condotta astrattamente qualificabile come reato.

Ora, in teoria potrebbe anche ipotizzarsi che il datore di lavoro, colposamente trascurando di adottare il necessario distanziamento trai suoi dipendenti, oppure non dotandoli di mezzi di protezione individuale, abbia concausato il diffondersi del contagio (nel senso di non averlo impedito, pur avendo l'obbligo di farlo).

Ma il problema dell'accertamento d'un simile ipotetico reato sarebbe il nesso di causa.

L'Inail avrebbe infatti l'onere di provare in giudizio che il lavoratore indennizzato dall'istituto è stato contagiato a causa e in conseguenza della colposa omissione di strumenti di igiene e profilassi da parte del datore di lavoro. Prova alquanto ostica, dal momento che ben difficilmente potrà stabilirsi quando e per quale causa il lavoratore abbia contratto l'infezione (si veda M.Rossetti “L'assicurazione e l'emergenza COVID”, Assicurazioni 29 aprile 2020).

Analoga difficoltà potrà incontrare il lavoratore stesso nell'agire contro il proprio datore, benché agevolato dal regime più favorevole proprio dell'art. 2087 cc, stante l'oggettiva difficoltà di inquadrare comunque il momento del contagio e la relazione causale con le sue conseguenze.

Certamente, ove dall'INAIL stesso ad esempio, venisse accertata una grave violazione del datore di lavoro dei protocolli di sicurezza e fossero riscontrati numerosi casi di contagio in azienda, la presunzione di accadimento causale potrebbe trovare verso il datore di lavoro maggiori margini di approdo verso una sua declaratoria di responsabilità.

Lo stesso Inail, del resto, in data 20 maggio 2020, con la circolare N. 22 è nuovamente intervenuto affermando che: “Con la circolare Inail 3 aprile 2020, n. 13 è stato chiarito che la tutela Inail riguarda tutti i lavoratori assicurati con l'Istituto che abbiano contratto il contagio in occasione di lavoro e sono stati richiamati, inoltre, i principi che presiedono all'accertamento dell'infortunio nel caso delle malattie infettive e parassitarie, nelle quali come è noto è difficile o impossibile stabilire il momento contagiante.

In proposito si è fatto riferimento alle linee guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie di cui alla circolare Inail 23 novembre 1995, n. 74. Dette linee, adottate sulla base di un indirizzo giurisprudenziale consolidato, si basano su due principi fondamentali:

a) deve essere considerata causa violenta di infortunio sul lavoro anche l'azione di fattori microbici e virali che penetrando nell'organismo umano ne determinano l'alterazione dell'equilibrio anatomico-fisiologico, sempre che tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell'attività lavorativa;

b) la mancata dimostrazione dell'episodio specifico di penetrazione nell'organismo del fattore patogeno non può ritenersi preclusiva della ammissione alla tutela, essendo giustificato ritenere raggiunta la prova dell'avvenuto contagio per motivi professionali quando, anche attraverso presunzioni, si giunga a stabilire che l'evento infettante si è verificato in relazione con l'attività lavorativa. E perché si abbia una presunzione correttamente applicabile non occorre che i fatti su cui essa si fonda siano tali da far apparire l'esistenza del fatto ignoto come l'unica conseguenza possibile del fatto noto, bastando che il primo possa essere desunto dal secondo come conseguenza ragionevole, probabile e verosimile secondo un criterio di normalità (cosiddetta “presunzione semplice”)”.

Dai richiamati principi, in forza dei quali si procede alla valutazione dei fatti allegati: “non può desumersi alcun automatismo ai fini dell'ammissione a tutela dei casi denunciati.

Occorre sempre accertare la sussistenza dei fatti noti, cioè di indizi gravi, precisi e concordanti sui quali deve fondarsi la presunzione semplice di origine professionale, ferma restando la possibilità di prova contraria a carico dell'Istituto.

In altri termini, la presunzione semplice che – si ribadisce- ammette sempre la prova contraria, presuppone comunque l'accertamento rigoroso dei fatti e delle circostanze che facciano fondatamente desumere che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro (le modalità di svolgimento dell'attività lavorativa, le indagini circa i tempi di comparsa delle infezioni, ecc.).

In tale contesto, l'Istituto valuta tutti gli elementi acquisiti d'ufficio, quelli forniti dal lavoratore nonché quelli prodotti dal datore di lavoro, in sede di invio della denuncia d'infortunio contenente tutti gli elementi utili sulle cause e circostanze dell'evento denunciato.

Il riconoscimento dell'origine professionale del contagio, si fonda in conclusione, su un giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio.

Non possono, perciò, confondersi i presupposti per l'erogazione di un indennizzo Inail (basti pensare a un infortunio in “occasione di lavoro” che è indennizzato anche se avvenuto per caso fortuito o per colpa esclusiva del lavoratore), con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative.

In questi, infatti, oltre alla già citata rigorosa prova del nesso di causalità, occorre anche quella dell'imputabilità quantomeno a titolo di colpa della condotta tenuta dal datore di lavoro.

Il riconoscimento cioè del diritto alle prestazioni da parte dell'Istituto non può assumere rilievo per sostenere l'accusa in sede penale, considerata la vigenza del principio di presunzione di innocenza nonché dell'onere della prova a carico del Pubblico Ministero.

Così come neanche in sede civile l'ammissione a tutela assicurativa di un evento di contagio potrebbe rilevare ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, tenuto conto che è sempre necessario l'accertamento della colpa di quest'ultimo nella determinazione dell'evento”.

In definitiva: “la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all'art. 1, comma 14 del d.l. 16 maggio 2020, n. 33.

Il rispetto delle misure di contenimento, se sufficiente a escludere la responsabilità civile del datore di lavoro, non è certo bastevole per invocare la mancata tutela infortunistica nei casi di contagio da Sars-Cov-2, non essendo possibile pretendere negli ambienti di lavoro il rischio zero.

Circostanza questa che ancora una volta porta a sottolineare l'indipendenza logico-giuridica del piano assicurativo da quello giudiziario”.

L'azione di regresso, tra l'altro: “non essendo più subordinata alla sentenza penale di condanna dopo l'elisione da parte della Corte Costituzionale della pregiudizialità penale, presuppone, come è noto, la configurabilità del reato perseguibile d'ufficio a carico del datore di lavoro o di altra persona del cui operato egli sia tenuto a rispondere a norma del codice civile.

Pertanto, così come il giudizio di ragionevole probabilità in tema di nesso causale, che presiede al riconoscimento delle prestazioni assicurative in caso di contagio da malattie infettive, non è utilizzabile in sede penale o civile, l'attivazione dell'azione di regresso da parte dell'Istituto non può basarsi sul semplice riconoscimento dell'infezione da SarsCov-2.

La Corte di Cassazione a SS.UU. ha affermato che nel reato colposo omissivo improprio, quale è quello ipotizzabile nella fattispecie, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo…” e che “l'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell'omissione dell'agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo comportano l'esito assolutorio del giudizio (Cass. civ., Sez. Un., 11 settembre 2002 n. 30328)”.

L'attivazione dell'azione di regresso presuppone, inoltre, anche l'imputabilità a titolo, quantomeno, di colpa, della condotta causativa del danno.

In assenza di una comprovata violazione, da parte del datore di lavoro, pertanto, delle misure di contenimento del rischio di contagio di cui ai protocolli o alle linee guida di cui all'art. 1, comma 14, del d.l. 16 maggio 2020, n.33, sarebbe molto arduo ipotizzare e dimostrare la colpa del datore di lavoro”.

Alla luce delle perplessità che le organizzazioni dei datori di lavoro (pubblici e privati) continuavano comunque a manifestare è dovuto infine intervenire il Legislatore, con un'apposita norma (art. 29 -bis introdotto in sede di conversione del D.L. Liquidità 08 aprile 2020 n. 23, convertito dalla Legge 05 giugno 2020 n. 40: “Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19”), che ha previsto che: “1. Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'art. 1, comma 14, d.l. 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

Benché su tali profili si dovrà attendere l'evoluzione e l'interpretazione giurisprudenziale che, dovrà conciliare il diritto con la realtà emergenziale, riteniamo che sussistano ampi margini di difesa nel merito, tanto verso le domande di regresso dell'istituto ed anche, con maggior carico probatorio in giudizio, per le difese del datore di lavoro.

Per altro, la considerazione che proprio per superare aspetti probatori e causali di difficile acquisizione per il lavoratore si sia optato per la soluzione estensiva e presuntiva contenuta nell'art. 42 d.l. n. 18/2020, rende chiaro ancor di più che tale ispirazione protettiva trovi fonte nel quadro indennitario e previdenziale e non nel regime “responsabilistico” che, come rammentato dallo stesso INAIL, ha parametri allegatori e probatori severi.

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