L'art. 627 c.p.c. e la riassunzione del processo esecutivo sospeso

Giuseppe Lauropoli
16 Settembre 2020

Pur in assenza di recenti arresti giurisprudenziali che abbiano apportato novità di rilievo sulla interpretazione dell'art. 627 c.p.c., pare utile provare a fare il punto sulla applicazione di tale disposizione, individuandone l'ambito applicativo e chiarendo alcuni profili interpretativi che appaiono piuttosto problematici e controversi. Partendo dunque dal dato normativo, ci si soffermerà dapprima sull'ambito applicativo della norma, per poi venire al procedimento di riassunzione disegnato dal legislatore, soffermandosi su alcuni passaggi interpretativi che appaiono piuttosto controversi.
Il quadro normativo

Può essere utile prendere le mosse, nel trattare della riassunzione del processo esecutivo disegnata dall'art. 627 c.p.c., proprio dal dato normativo.

Viene in rilievo una disposizione, rubricata come “Riassunzione”, che si colloca all'interno del Titolo sesto (“della sospensione e dell'estinzione del processo”) del terzo libro del Codice di Procedura Civile.

Già da una rapida lettura del sintetico contenuto della norma si evince immediatamente che la stessa non trova applicazione con riguardo a tutte le ipotesi di sospensione del processo esecutivo, ma con riguardo ad un circoscritto numero di casi: il testo della norma fa infatti riferimento alla sentenza che rigetti l'opposizione.

La norma, dunque, sembra focalizzarsi, in particolare, sui casi in cui sia stata disposta la sospensione della procedura esecutiva a norma dell'art. 624 c.p.c. (a seguito cioè di ricorso in opposizione svolto ai sensi dell'art. 615, comma 2, c.p.c., o dell'art. 619 c.p.c.: come si esporrà più avanti, però, l'art. 627 c.p.c. sembra riferibile anche alla riassunzione della esecuzione che sia stata sospesa ai sensi dell'art. 618, comma 2, c.p.c.) e sia stato svolto il giudizio di merito relativo ad una tale opposizione, definito con sentenza di primo grado divenuta definitiva che abbia respinto l'opposizione, ovvero con sentenza di appello che abbia respinto l'opposizione.

Dunque sembrano restare estranei rispetto al dettato normativo una gran parte dei casi di sospensione che possono verificarsi in corso di esecuzione e che sono abbastanza numerosi: si pensi alla sospensione della procedura esecutiva disposta ai sensi dell'art. 623 c.p.c. (sulla inapplicabilità dell'art. 627 c.p.c. a tale ipotesi di sospensione si veda Cass. civ., n. 18539 del 2007), oppure alla sospensione pronunciata a norma dell'art. 624-bis c.p.c.

Oppure si pensi ad altre ipotesi di necessaria sospensione del processo esecutivo oramai non più in vigore, quali erano quella prevista in caso di contestazione della dichiarazione del terzo dall'art. 548 c.p.c. (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate per effetto della L. n. 228 del 2012), o quella prevista per il caso di controversie distributive dall'art. 512 c.p.c. nella formulazione anteriore alle modifiche apportate per effetto del d.l. n. 35/2005 (convertito in legge n. 80/2005): sulla inapplicabilità dell'art. 627 c.p.c. a tali ipotesi di sospensione si esprimeva Cass. civ., n. 26889/2014.

Del resto, l'art. 627 c.p.c. non trova applicazione neppure con riguardo a tutte le ipotesi di sospensione dell'esecuzione disposta ai sensi dell'art. 624 c.p.c.: certamente non si applica nel caso di mancata introduzione (o riassunzione) del merito della opposizione (dal momento che una tale ipotesi viene sommariamente tratteggiata dal terzo comma dell'art. 624 medesimo); ma neppure si applica al caso in cui un giudizio di merito della opposizione abbia avuto inizio ma non sia giunto a definizione per essersi estinto in precedenza.

Una previsione normativa, dunque, destinata a trovare applicazione in un numero tutto sommato abbastanza circoscritto di casi. E, tuttavia, non priva di rilevanza e di profili interpretativi problematici, come accennato in precedenza.

Il dato normativo, indubbiamente piuttosto asciutto, a dispetto dell'apparente chiarezza presenta alcuni profili di non semplice lettura.

La norma si limita a prevedere che il processo esecutivo che sia stato sospeso a seguito di opposizione di parte (sospeso, dunque, all'esito di fase a cognizione sommaria svoltasi dinanzi al giudice dell'esecuzione, il quale abbia ravvisato “gravi motivi” per sospendere l'esecuzione ai sensi dell'art. 624 c.p.c. o, come si dirà più avanti, ai sensi dell'art. 618, comma 2, c.p.c.) debba essere riassunto mediante ricorso entro il termine perentorio indicato dal giudice dell'esecuzione nel provvedimento di sospensione, ovvero, in mancanza di fissazione di un tale termine, entro sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado che abbia rigettato l'opposizione oppure, ove tale sentenza sia stata appellata, entro sei mesi dalla comunicazione della sentenza di appello che abbia respinto l'opposizione.

Gli aspetti controversi sono numerosi, come si esporrà più approfonditamente nel prossimo paragrafo: ad esempio, ci si è domandati che rilievo debba attribuirsi alla pronuncia, emessa dal giudice dell'esecuzione, che indichi per la riassunzione del processo esecutivo un termine superiore a quello previsto dalla norma come termine ultimo per la riassunzione (a questo quesito la giurisprudenza di legittimità, in un caso in cui il giudice dell'esecuzione aveva previsto che la riassunzione dovesse avvenire successivamente al passaggio in giudicato della sentenza che avesse respinto l'opposizione, ha sancito che il termine indicato dal giudice dell'esecuzione non può comunque essere superiore a quello previsto nella seconda parte dell'art. 627 c.p.c.: si veda Cass. civ., n. 13571/2004).

Ma come accennato in precedenza, non mancano ulteriori nodi interpretativi che è opportuno esaminare.

Profili interpretativi controversi

L'art. 627 c.p.c. prevede che il processo esecutivo venga riassunto entro il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado che respinge l'opposizione, ovvero dalla comunicazione della sentenza di appello che rigetti l'opposizione.

Una previsione, questa, che reca con sé, a ben vedere, numerosi nodi davvero difficili da sbrogliare: alcuni autori, tanto per cominciare, hanno messo in discussione la stessa opportunità di prevedere che la riattivazione del processo esecutivo sospeso avvenga mediante un atto di riassunzione, tenuto conto della profonda diversità fra il processo di cognizione (che sottintende la presenza di un contraddittorio tra le parti) e quello di esecuzione (nel quale la presenza del contraddittorio è quanto meno attenuata).

Ma i profili più problematici della interpretazione della norma sono almeno altri due.

Per illustrarli, ritorniamo nuovamente al dato normativo: la norma impone alla parte di depositare il ricorso per la riassunzione del processo esecutivo entro sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado che rigetti l'opposizione, ovvero dalla comunicazione della sentenza di appello avente anch'essa contenuto di rigetto dell'opposizione.

Nella interpretazione più risalente della disposizione in questione, la stessa aveva la finalità di individuare tanto il termine iniziale entro il quale era possibile riassumere il processo esecutivo sospeso, quanto il termine finale entro il quale effettuare validamente tale riassunzione.

Tale riassunzione, per soffermarsi sul momento in cui veniva in essere il potere di riassumere il processo sospeso, poteva essere effettuata, stando al dato evincibile dal testo normativo, solo dal momento in cui fosse passata in giudicato la sentenza di primo grado oppure, in caso di impugnazione di tale sentenza, dalla comunicazione della sentenza d'appello che avesse rigettato l'opposizione (una traccia di tale impostazione può trovarsi, nella giurisprudenza di legittimità più risalente, in Cass. civ., n. 8251/1991, nonché in Cass. civ., n. 8764/1998): il fatto che non occorresse necessariamente attendere il passaggio in giudicato della sentenza di appello, si giustificava, nella cennata prevalente interpretazione, con le esigenze di celerità del processo esecutivo e anche con il dato prognostico di tendenziale stabilità della statuizione resa dal giudice d'appello.

Ma cominciò a farsi largo, propugnata da alcuni autori, una diversa interpretazione della norma, stando alla quale doveva ritenersi del tutto ingiustificato attendere il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, oppure persino l'emissione della pronuncia di appello, per poter riattivare l'esecuzione sospesa: se era stata sufficiente a sospendere l'esecuzione una statuizione avente natura cautelare resa dal giudice dell'esecuzione, a maggior ragione doveva reputarsi sufficiente a pervenire ad una sua riattivazione la pronuncia del giudice del merito che avesse deciso, rigettandola, sia pur con decisione non definitiva, una tale opposizione.

In tal senso, in particolare, deponeva una applicazione delle disposizioni dettate in tema di rito cautelare uniforme alla sospensione disposta ai sensi dell'art. 624 c.p.c.

Del resto, affermavano i medesimi interpreti, l'art. 627 c.p.c. non si premurava affatto di specificare da quale momento il processo esecutivo avrebbe potuto essere validamente riassunto, avendo tale norma l'unica funzione di individuare il termine finale entro il quale poteva ritenersi consentita una tale riassunzione.

Tale posizione è stata quindi fatta propria dalla più recente giurisprudenza di legittimità che ha esplicitato la propria posizione nella sentenza n. 24447/2011, la quale ha chiarito come l'art. 627 c.p.c. abbia unicamente la funzione di individuare il dies a quo per poter effettuare validamente la riassunzione del processo sospeso a seguito di opposizione (il quale può dunque essere riassunto non oltre sei mesi dalla definitività della sentenza di primo grado che abbia rigettato l'opposizione, ovvero, in caso di impugnazione della sentenza di primo grado, non oltre sei mesi dalla comunicazione della sentenza di appello che rigetti l'opposizione), fermo restando che il potere di riassumere il processo esecutivo sospeso viene in essere già dal momento del deposito della sentenza di primo grado che rigetti l'opposizione, dovendo ritenersi una tale sentenza come provvisoriamente esecutiva ai sensi dell'art. 282 c.p.c.

Tale posizione è stata criticata da parte della dottrina che ha evidenziato come l'interpretazione fornita dalla Cassazione in tale pronuncia finisca per integrare una tacita abrogazione dell'art. 627 c.p.c., la quale tuttavia, non pare giustificata né dalla applicazione delle disposizioni in tema di rito cautelare uniforme (atteggiandosi l'art. 627 c.p.c. come una disposizione speciale rispetto a tali norme dettate in tema di procedimento cautelare), né dalla prevalente interpretazione attribuita all'art. 282 c.p.c. (non essendo affatto pacifica la applicabilità di tale previsione normativa anche alle sentenze di accertamento e costitutive).

Una posizione, quella espressa nella menzionata sentenza della Cassazione, che è stata tuttavia recentemente ribadita dalla Cassazione e che sembra pertanto consolidarsi nel corso del tempo (Cass. civ., n. 8683/2017).

Altra questione interpretativa controversa è quella che concerne l'incidenza dell'art. 627 c.p.c. sul giudizio avente ad oggetto la opposizione agli atti esecutivi.

Innanzi tutto, deve ritenersi, stando alla lettera dell'art. 627 c.p.c., che lo stesso possa trovare applicazione, in ipotesi di giudizio di merito avente ad oggetto una opposizione agli atti esecutivi, nel solo caso in cui il giudice dell'esecuzione abbia disposto, ai sensi dell'art. 618, comma 2, c.p.c., la sospensione della procedura esecutiva e non anche quando lo stesso si sia limitato ad adottare provvedimenti indilazionabili.

Ma la questione più controversa, trattando del rapporto fra l'art. 627 c.p.c. e l'opposizione agli atti esecutivi, è quella concernente l'individuazione del termine per la riassunzione del processo esecutivo nel caso di rigetto dell'opposizione.

A riguardo, deve ricordarsi come la sentenza resa dal giudice di primo grado in tema di opposizione agli atti esecutivi sia, per espressa previsione normativa, non impugnabile (art. 618, comma 2, c.p.c.), con l'effetto che il dato normativo offerto dall'art. 627 c.p.c. finisce per male attagliarsi ad un tale tipo di opposizione: ci si potrebbe, infatti, chiedere quale sia il dies a quo per effettuare la riassunzione del processo esecutivo allorché la sentenza di primo grado che abbia rigettato la opposizione agli atti esecutivi sia stata respinta ma la stessa sia stata successivamente impugnata in Cassazione.

L'art. 627 c.p.c. non offre risposta a questo quesito, disciplinando, con riguardo al caso di impugnazione della sentenza di primo grado, la sola ipotesi di appello proposto contro tale sentenza.

Sul punto si sono fronteggiate, nella dottrina, due posizioni differenti: l'una propensa a ritenere che la riassunzione possa essere validamente effettuata solo successivamente al passaggio in giudicato della sentenza che rigetti l'opposizione agli atti esecutivi (posizione che veniva peraltro fatta propria dalla già citata Cass. civ., n. 8764 del 1998) e l'altra orientata nel senso di ritenere che il termine semestrale debba invece decorrere dalla comunicazione della sentenza di primo grado che rigetti la opposizione agli atti esecutivi.

Il cennato recente orientamento della giurisprudenza di legittimità che attribuisce all'art. 627 c.p.c. l'unico scopo di individuare il dies a quo per effettuare la riassunzione del processo esecutivo, rimuove in buona parte l'interesse per tale questione, suggerendo (sempre che si voglia aderire ad un tale orientamento, il quale presta il fianco, come esposto in precedenza, ad alcune critiche) che la riassunzione del processo esecutivo possa senz'altro essere effettuata dal momento della comunicazione della sentenza di primo grado che rigetti l'opposizione agli atti esecutivi.

Il procedimento

Il procedimento delineato dall'art. 627 c.p.c. è piuttosto snello.

Una volta che sia intervenuta una pronuncia di rigetto, nel merito, della opposizione (sia essa all'esecuzione, ovvero agli atti esecutivi, ovvero di terzo) sarà onere della parte che vi abbia interesse (potrà trattarsi tanto del creditore procedente, quanto di creditori intervenuti che abbiano il potere di compiere atti di impulso della procedura) depositare nel fascicolo dell'esecuzione un ricorso per la riassunzione del processo esecutivo.

Non pare dubbio che ove il processo esecutivo venga riassunto successivamente allo spirare del termine indicato nell'art. 627 c.p.c. lo stesso debba essere dichiarato estinto (art. 630, comma 1, c.p.c.).

L'art. 627 c.p.c. non contiene indicazioni in merito al contenuto di tale ricorso: certamente, tale ricorso dovrà contenere la chiara indicazione delle parti del processo esecutivo, degli elementi identificativi della stessa (come l'indicazione del giudice dell'esecuzione e del numero identificativo della procedura), dell'evento che giustifica la riassunzione della procedura (in particolare, degli estremi della sentenza che abbia respinto l'opposizione) e la richiesta di fissazione di udienza per la prosecuzione dell'attività esecutiva.

Ad ogni modo, venendo in rilievo un mero atto di impulso procedimentale, ciò che maggiormente rileva è che dal ricorso emerga la chiara manifestazione formale della volontà della parte di riattivare il processo esecutivo sospeso.

Sebbene la norma nulla dica in proposito, si ritiene che al ricorso debba essere allegata anche copia della sentenza che abbia rigettato l'opposizione.

Il giudice dell'esecuzione, esaminato il ricorso, fisserà con decreto la data di comparizione delle parti, assegnando termine alla parte istante per la sua notifica alle altre parti.

All'esito della comparizione delle parti, la procedura potrà quindi proseguire il suo corso.