Causalità ed a-causalità nel contratto a termine: effetti collaterali dei revirément normativi
17 Settembre 2020
Massima
Al fine di verificare l'obbligatorietà o meno dell'indicazione della causale per la proroga oltre i dodici mesi del termine originariamente apposto al contratto, in applicazione della disciplina transitoria di cui all'art. 2, comma 1, d.l. n. 87 del 2018, convertito con modificazioni in l. n. 96 del 2018, occorre aver riferimento al momento in cui detta proroga prende efficacia e non a quello, antecedente, in cui sia stata eventualmente pattuita. Il caso
A partire dal 2015, un lavoratore aveva prestato la propria attività in forza di diversi contratti a tempo determinato non successivi, di durate diverse e distribuiti in un arco temporale di circa quattro anni, sempre per lo svolgimento delle medesime mansioni. L'ultimo contratto, della durata iniziale di sei mesi e con termine fissato al 31 dicembre 2017, veniva prorogato una prima volta fino al 31 ottobre 2018 e, prima di tale ultima scadenza, veniva prorogato una seconda volta, fino al 31 marzo 2018. Alla scadenza del termine il rapporto cessava. Il lavoratore contestava l'estromissione dal posto di lavoro, sostenendo l'illegittimità dell'ultima proroga del termine di scadenza del contratto, in quanto priva di qualsiasi motivazione, così come invece richiesto dalla normativa vigente. Chiedeva quindi la conversione a tempo indeterminato del contratto di lavoro, con conseguente ripristino del rapporto e l'indennizzo ex art. 28, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2015. Le questioni giuridiche
La vicenda rappresenta, per così dire, un caso esemplificativo delle conseguenze che la successione di norme, di segno ed ispirazione opposta, può determinare sul contenzioso giudiziario e, ancor di più, guardando cioè i fatti in una prospettiva più ampia, sulle scelte delle imprese e sulla stessa occupazione. Il contratto a tempo determinato, da sempre assunto a paradigma del “precariato” occupazionale, ha visto più volte, nel corso degli ultimi decenni, mutare il proprio quadro normativo di riferimento, con alti e bassi, si potrebbe dire, rappresentati dalle tendenze più o meno liberistiche del Legislatore di turno. Storicamente può certamente affermarsi – come oggi recepito espressamente dai “principi generali” – che l'apposizione del termine al contratto di lavoro sia sempre stata considerata una sorta di eccezione alle regola del tempo indeterminato. Ciò che nel tempo è mutato è il perimetro di tale eccezione, con evoluzioni ed involuzioni che hanno portato ad estensioni e restrizioni, sovente dettate da strategie di politica del diritto di breve orizzonte. Il punto più elevato della deregulation è stato per certi versi raggiunto con il d.l. 20 marzo 2014, n. 34 (cosiddetto Decreto Poletti), il quale, con un anno di anticipo sul complessivo riordino della contrattualistica del lavoro compreso nel progetto Jobs Act, eliminava l'allora vigente “causalone”, ossia la condizione motivazionale per l'apposizione del termine al contratto di lavoro, rappresentata dalle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, da specificarsi nel testo contrattuale. Il contemperamento di tale soluzione (in qualche modo, regressiva, rispetto alle precedenti condizioni di accesso al contratto a tempo determinato) con i vincoli derivanti dalla normativa europea (direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES), veniva ottenuto con l'introduzione di una durata massima del contratto e, soprattutto, con una limitazione numerica di rinnovi e proroghe e con un contingentamento percentuale dei rapporti a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato in forza all'impresa
La descritta impostazione trovava conferma nel quadro regolatorio del cosiddetto Jobs Act, che, con il capo III del d.lgs. n. 81/2015 (cosiddetto Codice dei contratti), dettava una disciplina sostitutiva di tutta quella precedentemente vigente. Veniva ribadita la non necessità di causali, si confermava la durata massima del termine in trentasei mesi e veniva fissato il medesimo limite, per sommatoria dei rapporti a termine con il medesimo datore di lavoro (per mansioni equivalenti). Il numero massimo di proroghe del termine apposto al contratto (o anche a più contratti successivi), sempre nel limite temporale massimo dei trentasei mesi, veniva fissato in cinque, con trasformazione del contratto a tempo indeterminato in caso di sesta proroga.
L'ultima sterzata la si deve al cosiddetto “decreto Dignità” (d.l. 12 luglio 2018, n. 87), con il quale trova realizzazione un'impostazione fortemente restrittiva nell'utilizzo del contratto a termine. In primo luogo per la drastica riduzione della durata del contratto a tempo determinato privo di causale, portata a dodici mesi. La possibilità di una durata superiore, al massimo fino a ventiquattro mesi, anche per effetto di proroghe (massimo quattro), viene consentita solo in presenza di determinate e stringenti condizioni: esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività; esigenze di sostituzione di altri lavoratori; esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell'attività ordinaria. Alle medesime condizioni è sottoposto l'eventuale rinnovo del contratto a termine. In caso di violazione il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato.
Il comma 2 dell'art. 1 del “decreto Dignità” dettava quindi la seguente norma transitoria: “Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonche' ai rinnovi e alle proroghe dei contratti in corso alla medesima data”.
La citata disposizione suscitava fin da subito numerose critiche, per avere, in qualche modo, cambiato le regole del gioco a partita in corso. Con la legge di conversione (l. 9 agosto 2018, n. 96) si corre così ai ripari, stabilendo che le nuove norme sul contratto a termine trovano applicazione ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente all'entrata in vigore del decreto legge (d.l. 14 luglio 2018, n. 87), “nonché ai rinnovi ed alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018”. Viene così concesso alle parti – ed alle imprese, in particolare – un congruo termine per “adattarsi” alla sopravvenuta situazione normativa e ponderare le proprie scelte sulle future eventuali proroghe o rinnovi. La conseguenza pratica che ne derivava era che eventuali proroghe ultra-annuali precedenti il termine fissato dalla legge avrebbero “goduto” del favorevole regime della “acausalità”, oltre che della durata massima triennale dei rapporti, “benefici” non concessi alle proroghe successive al 31 ottobre 2018, prospettandosi in questo caso – in mancanza di valide causali – la cessazione del contratto alla scadenza naturale o la trasformazione a tempo indeterminato. Le soluzioni giuridiche
Proprio la norma di diritto intertemporale e l'incertezza che ne è evidentemente derivata sono al centro della contesa giudiziaria risolta dal tribunale meneghino. Il termine apposto al contratto (la cui durata complessiva aveva già superato i dodici mesi), scadente in coincidenza con il termine finale di efficacia della disposizione transitoria (31 ottobre 2018), veniva consensualmente differito – come richiesto per legge – qualche giorno prima, determinando così l'effetto di prorogatio. Per dare soluzione al caso il Tribunale valorizza il dato dell'efficacia della pattuizione di proroga del termine (ossia della produzione dei suoi effetti), a scapito del momento genetico della modifica contrattuale, osservando come l'istituto della proroga rilevi solo nel suo momento funzionale, essendo priva di utilità giuridica prima di esso. Poiché infatti la funzione del negozio di proroga è quella di spostare in avanti il termine finale di efficacia del contratto, è solo dopo la scadenza del termine originariamente apposto che detto negozio può spiegare i propri effetti, quelli cioè di continuazione del rapporto in corso. Una diversa interpretazione, si legge nella sentenza in commento, che prendesse a riferimento il momento costitutivo della modifica contrattuale, “legittimerebbe un uso distorto della disciplina transitoria”, a scapito del solo lavoratore. Poiché dunque, nel caso sottoposto alla valutazione del Tribunale, la proroga avrebbe spiegato i propri effetti a partire dal 1 novembre 2018, doveva ritenersi soggetta alla disciplina del “decreto Dignità”, ovvero alla necessaria indicazione di una specifica causale. Causale che l'impresa datrice di lavoro, evidentemente convinta che facesse fede la data di stipulazione dell'accordo di proroga, con conseguente assoggettamento al regime previgente, non aveva indicato. Dal che la conversione del rapporto a tempo indeterminato. L'opinione del Tribunale appare condivisibile, più però sul piano della logica che su quello della motivazione giuridica che, infatti, appare piuttosto scarna, se non evanescente. Il difetto, a parere di chi scrive, e la conseguente difficoltà del Giudice di offrire una chiara soluzione di diritto positivo è, come sempre più spesso accade, nella formulazione della norma. Quest'ultima, infatti, da una parte dispone l'applicazione della novella normativa ai nuovi contratti, stipulati dopo la sua entrata in vigore. In questo caso, il Legislatore valorizza il momento costitutivo del rapporto, a prescindere dagli effetti del contratto che, in ipotesi, potrebbero anche essere assoggettati ad un termine iniziale e, perciò, differiti rispetto alla stipulazione, scindendo così il momento genetico da quello funzionale (per quanto teorico, potrebbe così prospettarsi il caso di un contratto sottoscritto prima del 12 agosto 2018, ma la cui efficacia iniziale fosse sottoposta a termine successivo a quella data). Nessun riferimento viene invece utilizzato per i rinnovi e le proroghe, se non quello temporale del 31 ottobre 2018. E' tuttavia evidente – logico, come si diceva – che l'intenzione del legislatore fosse quella di determinare un dies a quo, a partire dal quale la nuova disciplina si applicasse anche ai contratti in corso, termine spostato in avanti, rispetto alla versione del decreto legge, proprio per concedere uno spatium deliberandi sufficiente a verificare la possibilità di motivate proroghe ultrannuali o rinnovi. Coglie nel segno il Magistrato quando afferma che una diversa interpretazione avrebbe potuto portare ad abusive applicazioni della norma: l'accordo di proroga del termine avrebbe potuto infatti precedere anche di parecchi mesi la sua scadenza. In altre parole, se si fosse presa a riferimento la data dell'accordo di proroga, un contratto scandente anche nel 2019, ma con termine prorogato entro l'ottobre 2018, avrebbe potuto surrettiziamente godere di un regime favorevole di acausalità. Che poi detto meccanismo possa considerarsi penalizzante per il lavoratore ha poco rilievo sotto il profilo strettamente giuridico, ma è peraltro tutto da dimostrare, posto che all'impossibilità di prorogare il contratto, per insussistenza di una causale di legge, ben poteva seguire la cessazione definitiva – senza cioè neppure la possibilità di successivi rinnovi – del rapporto di lavoro. Ad ogni modo, l'interpretazione seguita dal Tribunale, che il sottoscritto riporterebbe più alla ratio legis che alla irragionevolezza di quella contraria, può prestare il fianco ad obiezioni di matrice strettamente civilistica, laddove si tenga presente che il negozio modificativo del termine produce immediatamente i suoi effetti sostitutivi, eliminando l'originaria pattuizione. In altre parole, il contratto non vede, sotto il profilo dell'efficacia, una scansione temporale in due distinti momenti: fino all'originario termine di scadenza e successivamente ad esso. L'operatività funzionale del nuovo termine, in altre parole, potrebbe ben ritenersi coincidente con il perfezionamento dell'accordo di proroga, che rimuove un “ostacolo” temporale all'efficacia del contratto prima ancora di incontrarlo, facendo si che, nel momento della transizione, detto ostacolo non sia mai esistito. Un punto di vista, quest'ultimo, che potrebbe portare a soluzioni diverse da quella adottata nella sentenza in commento, seppure con gli effetti “discorsivi” dalla stessa ipotizzati. Un problema che si sarebbe potuto evitare se il Legislatore avesse utilizzato una formula meno involuta, semplicemente stabilendo l'applicabilità della nuova disciplina ai contratti stipulati dopo l'entrata in vigore del decreto legge, “nonché a quelli in corso con scadenza successiva al 31 ottobre 2018, ove prorogati”. A ben vedere, infatti, il “rinnovo” del contratto a termine altro non è che un nuovo contratto, stipulato – dopo il necessario intervallo temporale – tra le medesime parti, assoggettabile quindi alla regola fissata dalla prima parte della norma transitoria. Certo è che, se il testo della norma fosse stato quello innanzi ipotizzato, la soluzione del caso oggetto della sentenza sarebbe stata diversa. |