Per costituire una servitù non servono formule particolari, è sufficiente la manifestazione di volontà delle parti

Edoardo Valentino
21 Settembre 2020

Per la validità della costituzione di una servitù di non edificare non servono forme sacramentali o espressioni formali particolari, è sufficiente che dal contratto si possa desumere la chiara intenzioni delle parti a costituire una servitù.

Secondo la sentenza Cassazione Sezione Seconda Civile, n. 18465/2020, per la validità della costituzione di una servitù di non edificare non servono forme sacramentali o espressioni formali particolari, è sufficiente che dal contratto si possa desumere la chiara intenzioni delle parti a costituire una servitù, intendendo a tal fine la creazione di un vantaggio a favore di un fondo mediante la nascita di un peso imposto sul fondo adiacente.

Il caso. Una condomina di un caseggiato costituito da tre unità abitative realizzava alcuni lavori edili sul proprio fondo, trasformando il giardino posto sul retro della propria abitazione in un patio piastrellato con piscina. La vicina dell'abitazione adiacente contestava tali opere, lamentando come negli atti di vendita di tutte e tre le unità immobiliari costituenti il caseggiato il costruttore/venditore avesse ricompreso una clausola con la quale i proprietari delle aree private si impegnavano a lasciare i propri terreni a “verde” e con destinazione di giardino, senza che nessun manufatto definitivo o provvisorio potesse mai essere edificato. I giardini stessi, poi, non potevano essere modificati se non con l'apposizione di piante di altezza massima di due metri. Alla luce di tale clausola la vicina agiva in giudizio con ricorso di nunciazione per nuova opera, lamentando la violazione della servitù di non edificare da parte della vicina. All'esito del processo il Tribunale accoglieva il ricorso, ordinando l'immediata cessazione dei lavori. Nel successivo giudizio di merito, poi, l'attrice chiedeva e otteneva un ordine giudiziale di divieto di costruzione o manomissione del giardino della vicina, oltre al risarcimento del danno patito. Il Tribunale, quindi, condannava la convenuta alla riduzione in pristino delle opere realizzate, accertando in favore dell'immobile attoreo una servitù attributiva del diritto di pretendere che la proprietà adiacente venisse adibita a giardino, senza realizzazione di alcuna opera edile. Il giudizio approdava quindi in grado di appello, ma la Corte confermava l'esito del primo giudizio.

La Corte di Cassazione precisa i requisiti necessari per la nascita di una servitù. A seguito della duplice soccombenza la convenuta adiva la Corte di Cassazione con un ricorso incentrato su tre doglianze. In prima battuta ella contestava la valutazione della Corte d'Appello nella misura in cui aveva considerato valida ed efficace la servitù di non edificare prevista nell'originario contratto di compravendita immobiliare. A detta della ricorrente, tale atto sarebbe posto in maniera generica e non contenente elementi utili a individuare il presupposto oggettivo del diritto. Non vi sarebbe stata, poi, una “utilità”, ossia un beneficio conseguito dal fondo dominante grazie al peso imposto sul fondo servente e – conseguentemente – la clausola non sarebbe stata valida. In secondo luogo, per la ricorrente, anche a volere considerare la clausola come valida ed efficace, questa non sarebbe stata utile alla costituzione di una servitù prediale, in quanto l'atto non sarebbe stato corrispondente ai requisiti minimi stabiliti dalla legge. Come ultimo motivo di ricorso, invece, la parte affermava l'invalidità del giudizio d'appello nella parte in cui la Corte avrebbe riconosciuto erroneamente la legittimazione attiva dell'attrice ad agire in giudizio per ottenere il riconoscimento del diritto. Per la ricorrente, infatti, la controparte non aveva fornito prova di avere un diritto azionabile in giudizio e di conseguenza la sua domanda avrebbe dovuto essere rigettata. Con la sentenza in commento la Cassazione rigettava integralmente il ricorso. A detta della Corte l'azione della ricorrente era del tutto inconferente in quanto basata su un presupposto giuridico errato, ossia la presunta invalidità della clausola di non edificare prevista nell'originario contratto di compravendita immobiliare. Detta clausola, secondo gli Ermellini, era sufficientemente specifica e diretta da essere valida per la costituzione di una servitù di non edificare. Citando un precedente arresto della giurisprudenza di legittimità, infatti, la Cassazione ricordava che «ai fini della costituzione convenzionale di una servitù prediale non si richiede l'uso di formule sacramentali, di espressioni formali particolari, ma basta che dall'atto scritto si desuma la volontà delle parti di costituire un vantaggio a favore di un fondo mediante l'imposizione di un peso o di una limitazione su un altro fondo appartenente a diverso proprietario, sempre che l'atto abbia natura contrattuale, che rivesta la forma stabilita dalla legge ad substantiam e che da esso la volontà delle parti di costituire la servitù risulti in modo inequivoco, anche se il contratto dia diretto ad altro fine» (Cass. sez. II, ord. 10169/2018; Cass. civ., sez. II, sent. n. 9475/2011). L'atto di compravendita in questione, quindi, anche se diretto alla cessione dell'immobile, aveva tutti gli elementi necessari a far sorgere la servitù di non edificare. In esso si poteva infatti rinvenire la natura contrattuale dell'accordo e il rispetto della forma stabilita dalla legge; da ultimo era chiara la volontà delle parti di costituire la servitù, stante la precisa pattuizione sottoscritta da venditore e acquirente. Le eccezioni della ricorrente, quindi, erano del tutto infondate in quanto in parte travisavano il valore della scrittura firmata al momento dell'acquisto dell'immobile, e in parte richiedevano alla Cassazione una revisione del giudizio dal punto di vista del merito, circostanza del tutto inammissibile in sede di legittimità. Alla luce di tale principio, stante l'inconferenza del ricorso depositato dalla parte, la Cassazione rigettava la domanda e condannava la ricorrente a sostenere le spese di lite, con maggiorazione punitiva dell'importo versato a titolo di contributo unificato, ex art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002.

Fonte: dirittoegiustizia.it

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