Il lavoratore studente universitario che risulta ‘fuori corso’ perde il diritto ai permessi studio

La Redazione
21 Settembre 2020

Respinta definitivamente la richiesta avanzata da un dipendente di un ente pubblico. Impossibile, secondo i Giudici, parlare di discriminazione. Decisiva la constatazione che il lavoratore è sì uno studente universitario, ma fuori corso...

Niente permessi di studio retribuiti per il lavoratore che frequenta l'Università ma è fuori corso. Respinta definitivamente la richiesta avanzata da un uomo, dipendente di un ente pubblico. Impossibile, secondo i Giudici, parlare di decisione discriminatoria e di violazione del diritto all'istruzione (CassazioA dare il ‘la' alla vicenda è la risposta negativa dell'ente pubblico alla richiesta avanzata da un dipendente e mirata al «riconoscimento del diritto a godere di permessi straordinari e retribuiti per motivi di studio, anche oltre la durata prevista del relativo corso di studi», essendo egli studente universitario fuori corso.

Il lavoratore decide di adire le vie legali per ottenere giustizia, ma, invece, i Giudici di merito ritengono sacrosanta la posizione assunta dall'azienda.

In particolare, in Appello viene chiarito che la previsione del contratto – ‘Federcasa', per la precisione – «non riconosce ‘permessi studio' retribuiti anche ai lavoratori studenti cosiddetti fuori corso». Ciò significa, secondo i giudici, che «la concessione dei permessi è limitata al solo periodo di frequenza nell'ambito degli anni di durata legale del corso di studi».

Ancora più in dettaglio, i Giudici sostengono che «la normativa contrattuale si riferisce solo agli iscritti al corso legale di studi universitari, poiché opera riferimenti all'ultimo e al penultimo anno di corso, riferimenti che non avrebbero concreto significato se non con riguardo a una fisiologica durata del corso di studi». E «tale interpretazione è la più razionale», aggiungono i Giudici, poiché «il legislatore non può aver riconosciuto al lavoratore il diritto a permessi retribuiti per seguire le lezioni senza limiti, cioè al di fuori della durata legale del corso e a prescindere dal superamento o meno degli esami sostenuti per i corsi seguiti».

Per chiudere il cerchio, infine, in Appello viene anche esclusa una presunta discriminazione, a seguito della decisione dell'ente pubblico, poiché «non rientra l'essere studente fuori corso oppure studente lavoratore tra i fattori di discriminazione oggetto di protezione normativa».

Inevitabile l'opposizione da parte del lavoratore che tramite il proprio legale presenta ricorso in Cassazione, sostenendo vi sia stata una erronea applicazione del CCNL.

Più precisamente, l'uomo sostiene che la disciplina del diritto allo studio, dettata nel contratto, «è applicabile anche ai dipendenti che siano studenti fuori corso, poiché il testo della norma, senza operare questa distinzione, specifica solamente che i permessi sono concessi per la frequenza di corsi finalizzati al conseguimento dei titoli di studio universitari, oltre che per la preparazione dei relativi esami. Tanto la frequenza ai corsi quanto la preparazione degli esami e la partecipazione agli stessi costituiscono attività didattica consentita dallo status di studente universitario a prescindere dall'essere ‘in corso' o ‘fuori corso', poiché ritenere diversamente aggiungerebbe un limite ulteriore a quelli previsti dalla norma (che pone solamente il limite di misura massima fruibile di 150 ore annue per ciascun dipendente, il limite del 3% del totale delle unità in servizio, per anno solare, oltre che la possibilità per il lavoratore che venga respinto di fruire dei suddetti permessi solamente la seconda volta perché gli esami abbiano esito positivo)».

A sostegno di questa visione, poi, il lavoratore richiama anche «il documento attestante la frequenza, sia pure fuori corso».

Dalla Cassazione prendono in esame la vicenda partendo da una constatazione: «la norma contrattuale costituisce la specificazione del diritto riconosciuto dall'art. 10, comma secondo, l. 20 maggio 1970, n. 300, che prevede il diritto dei lavoratori studenti, compresi quelli universitari, che devono sostenere prove di esami, di fruire di permessi giornalieri retribuiti» e aggiungendo poi che «quel diritto spetta a tutti i lavoratori che intendono dedicarsi allo studio per conseguire la possibilità di affrontare, senza remore di carattere economico, gli esami, per ottenere titoli riconosciuti dall'ordinamento giuridico statale, senza che la categoria dei soggetti legittimati possa essere limitata ai soli studenti iscritti e frequentanti corsi regolari di studio in scuole statali, pareggiate o comunque abilitate al rilascio di titoli di studio legali».

Per i Giudici è evidente che «la norma contrattale esaminata risulta certamente di carattere migliorativo rispetto alla previsione contenuta nello Statuto dei lavoratori, poiché attribuisce il diritto ad ottenere permessi anche per la frequenza di corsi, e non solo per sostenere gli esami». Tuttavia, tale diritto è sottoposto a «numerosi limiti», quali «il numero massimo di ore individuali per anno (150), il numero massimo di dipendenti che possano fruire dei permessi (3% del totale delle unità in servizio ogni anno, con arrotondamento all'unità superiore per eccesso), stabilendo altresì criteri di scelta tra gli studenti lavoratori ove il limite del 3% sia superato dalle richieste pervenute».

A fronte di tale quadro, i Giudici di merito, osservano dalla Cassazione, hanno compiuto «una lettura coerente e logica della norma». In particolare, «oltre a valorizzare l'argomento letterale della norma contrattuale che, per individuare i beneficiari in caso di concorso di richieste che superino il limite annuale, individua l'anno di frequenza (ultimo, penultimo, etc., postulando necessariamente il riferimento agli studenti in corso regolare)», in Appello si è posto in rilievo che «la norma si riferisce alla frequenza di corsi di studio universitari, attività chiaramente riservata ad un numero delimitato di anni, quelli coincidenti con il corso legale di studi», e ciò significa che «la norma sarebbe stata formulata diversamente, ove lo svolgimento di attività didattiche preordinate alla preparazione degli esami dovesse essere considerato fungibile alla frequentazione delle lezioni per gli anni in corso regolare».

Per i magistrati della Cassazione «tale interpretazione, che riconduce la norma contrattuale, pur se migliorativa, a limiti ragionevoli, che sorreggano il diritto allo studio senza comprimere eccessivamente il diritto del datore di lavoro alla prestazione» è assolutamente corretta, anche tenendo presente che in passato «esaminando in generale la questione del diritto allo studio, sono stati introdotti temperamenti al suo esercizio nell'ambito del rapporto di lavoro». Esemplare, a questo proposito, una decisione con cui si è stabilito che «la norma contrattuale, che prevede la possibilità per il lavoratore di usufruire di permessi studio, va interpretata nel senso che i permessi straordinari retribuiti possono essere concessi soltanto per frequentare i corsi indicati in orari coincidenti con quelli di servizio, non per le necessità connesse all'esigenza di preparazione degli esami, ovvero per altre attività complementari come, ad esempio, i colloqui con i docenti o il disbrigo di pratiche di segreteria)».

Tirando le somme, bene ha fatto l'ente pubblico a respingere la richiesta avanzata dal suo dipendente, poiché i permessi studio non sono usufruibili dai lavoratori studenti universitari fuori corso.

(Fonte: Diritto e Giustizia)

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