Pensione di reversibilità e sorella superstite divorziata

Antonino Sgroi
23 Settembre 2020

La sezione regionale della Corte dei conti delle Marche, nella sentenza che si annota, accerta il diritto alla pensione di reversibilità in capo a sorella di lavoratore defunto, dipendente in servizio della provincia autonoma di Trento...

La sezione regionale della Corte dei conti delle Marche, nella sentenza che si annota, accerta il diritto alla pensione di reversibilità in capo a sorella di lavoratore defunto, dipendente in servizio della provincia autonoma di Trento. Il giudice monocratico, in sede di accertamento dei requisiti legittimanti l'accesso al beneficio, ha verificato, per quel che interessa, sia la vivenza a carico, sia la circostanza che la richiedente, divorziata, aveva riacquistato lo stato libero e pertanto doveva ritenersi nubile.

Come noto la pensione di reversibilità è il beneficio previdenziale riconosciuto ai superstiti nel caso di morte del lavoratore assicurato o pensionato nell'assicurazione generale obbligatoria, con regole omologhe valevoli sia per i lavoratori privati, sia per i lavoratori pubblici, giusto il comma 41 dell'art. 1, l. 6 agosto 1995, n. 335 (sia consentito rinviare ad A. Sgroi, La pensione di reversibilità, in Diritti patrimoniali della famiglia, G. Oberto e G. Cassano (a cura di), Milano, Giuffrè, 2017, 119).

Fra i beneficiari della predetta prestazione pensionistica si annoverano anche i fratelli celibi e le sorelle nubili, sempreché al momento della morte del lavoratore o del pensionato risultino permanentemente inabili al lavoro e carico del defunto (su quest'ultimo requisito si v. l'art. 40 d.P.R. 26 aprile 1957, n. 818), qualora non vi siano né coniugi, né figli superstiti, né genitori; oppure, costoro esistendo, non abbiano diritto alla pensione di reversibilità (si v. art. 13 r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636).

Nel caso di specie il giudice, con riguardo alla vivenza a carico, ha fatto piana applicazione degli insegnamenti della Corte di cassazione, avendo fra l'altro constatato che la richiedente fruiva solo di una prestazione di invalidità civile ai sensi della legge della provincia di Trento del 15 giugno 1988, n. 7. La Corte di cassazione afferma costantemente che il requisito della vivenza a carico, se non si identifica indissolubilmente con lo stato di convivenza e neanche con una situazione di totale soggezione finanziaria del soggetto inabile, va considerato con particolare rigore, essendo necessario dimostrare da parte del richiedente che il defunto provvedeva, in via continuativa e in misura quanto meno prevalente, al proprio mantenimento (in questi termini si v. da ultimo: Cass. ord. 26 ottobre 2018, n. 27275, con riferimento a pensione di reversibilità richiesta da figlio maggiorenne; Cass.ord. 22 novembre 2018, n. 30288, con riferimento a rendita di reversibilità Inail. Per la dottrina si v. da ultimo: V. Ferrari, La “vivenza a carico” in Cassazione fra quaestio iuris e quaestio facti, nota a Cass. 17 febbraio 2014, n. 3622, in Foro it., 2014. 11, I, 3258).

L'accertamento di tale requisito si sostanzia in una valutazione del materiale probatorio da parte dei giudici di merito. Valutazione che difficilmente, a quel che consta dalla lettura delle decisioni rese dalla Corte di cassazione, non è condivisa in sede di legittimità, a meno che l'accertamento di fatto non sia adeguatamente motivato (in questi termini Cass. ord. 13 aprile 2018, n. 9237).

Si noti che il requisito della vivenza a carico è utilizzato dal legislatore anche per il riconoscimento di prestazioni assistenziali quali, a titolo esemplificativo, quelle riconosciute ai superstiti di soggetto defunto a causa di vaccinazioni o delle patologie previste dalla l. 25 febbraio 1992, n. 201 (Per l'affermazione della persistente esistenza del requisito predetto in sede di applicazione della citata disciplina si v. Cass. 11 maggio 2018, n. 11407).

La seconda questione esaminata dal giudice delle pensioni anconetano, a quel che consta, non ha precedenti.

La corte di merito era chiamata a vagliare se la richiedente la pensione di reversibilità fosse o meno nubile, dato che la stessa era stata sposata e poi vi era stato scioglimento del matrimonio, tutto antecedentemente alla morte del fratello. La soluzione accolta dal giudice monocratico è da condividere, essendo dato incontrovertibile che, una volta sciolto il matrimonio o una volta cessati gli effetti civili connessi alla trascrizione di matrimonio celebrato con rito religioso, i coniugi riacquistano la libertà di stato (in questi termini si v. M. Rossi, Gli effetti di ordine personale del divorzio riguardo ai coniugi, in Gli aspetti di separazione e divorzio nella famiglia, G. Oberto (a cura di), Padova, Cedam, 2012, 729; C. M. Bianca, Diritto civile, La famigli – Le successioni, Milano, Giuffrè, 2005, 275).

Ancorché sotto il profilo sociale e secondo l'ordinario significato che è dato alle parole “celibe” e “nubile”, non si possa affermare che gli ex coniugi non sono mai stati sposati, tale constatazione del significato generale assegnato a tali termini è del tutto irrilevante a contrastare l'opzione ermeneutica accolta dal giudice di merito, connessa all'evolversi della società e del tessuto normativo, a fronte dell'utilizzo da parte del legislatore previdenziale, in una norma che risale al 1939 degli aggettivi “celibe” e “nubile”. Parole queste che, all'interno del quadro legislativo del 1939 riguardante il diritto di famiglia, si inserivano in un contesto che non prevedeva né la separazione, né lo scioglimento del matrimonio e che, ovviamente, ora non possono condurre a un'applicazione letterale del significato della disposizione all'interno della quale sono utilizzate, interpretazione che sfocerebbe in una preclusione all'accesso al beneficio previdenziale del tutto irragionevole.

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