Dal modello organizzativo 231 agli adeguati assetti richiesti dal Codice della crisi e dell'insolvenza

Ciro Santoriello
Enrica Perusia
24 Settembre 2020

A prima vista il sistema della responsabilità da reato delle società di cui al D.lgs. n. 231/2001 e la nuova disciplina delle procedure concorsuali di cui al D.lgs. n. 14/2019, che contiene il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, non presentano elementi in comune né paiono esservi ragioni per una trattazione congiunta delle relative discipline.
Premessa

A prima vista il sistema della responsabilità da reato delle società di cui al D.lgs. n. 231 del 2001 e la nuova disciplina delle procedure concorsuali di cui al d.lgs. n. 14 del 2019, che contiene il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, non presentano elementi in comune né paiono esservi ragioni per una trattazione congiunta delle relative discipline.

Il d.lgs. n. 231 del 2001 ha esclusivamente un contenuto sanzionatorio punendo, a prescindere dalla natura penale o amministrativa o infine di altro genere delle società, gli enti collettivi i quali a diverso titolo risultino coinvolti in condotte delittuose tenute, nell'interesse o a vantaggio della persona giuridica, dai vertici o dipendenti dell'impresa; la normativa contenuta nel D.lgs. n. 14 del 2019 andrà a sostituire la disciplina presente nel R.D. n. 267 del 1942, regolamentando il momento in cui l'operatività della società incontra significative difficoltà a cagione di difficoltà economiche, patrimoniali o finanziarie, tanto da doversi procedere ad un'operazione di risanamento dell'impresa se non ad una liquidazione definitiva della stessa. Nonostante queste differenze, fra le due discipline corrono significativi punti di intersezione i quali operano, per così dire, in un duplice senso: da un lato, infatti, alcuni profili della disciplina presente nel CCII in qualche modo impattano sull'implementazione del decreto n. 231, mentre alcuni contenuti tipici dei modelli organizzativi richiesti dal d.lgs. n. 231 del 2001 possono ben rientrare (e rendere più idonei ed efficaci) i modelli organizzativi cui si rifanno gli artt. 3 e 14 d.lgs. n. 14/2019 e l'art. 2086, comma 2, del codice civile.

Fonte: IlFallimenatrista

Le similitudini fra modelli organizzativi ed adeguati assetti per la prevenzione della crisi d'impresa

Le ragioni per cui pare opportuno esaminare i rapporti fra il modello organizzativo 231 e gli adeguati assetti di cui fa menzione il Codice della crisi sono da rinvenire nella circostanza che entrambe le discipline si ispirano ad una concezione decisamente innovativa per il legislatore italiano giacché entrambi i testi normativi richiedono all'impresa di adottare un approccio proattivo per contrastare, o meglio ancora prevenire, il verificarsi di eventi negativi per l'impresa, eventi negativi rappresentati dalla possibile commissione di un illecito penale quanto al d.lgs. n. 231/2001 e dal sopravvenire di una irrisolvibile insolvenza dell'azienda con riferimento al d.lgs. n. 14/2019.

Quanto al Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, la riforma chiede (anzi obbliga) all'impresa di dotarsi di assetti organizzativi adeguati – in considerazione delle sue dimensioni e complessità - per la prevenzione del rischio di futura insolvenza e ciò allo scopo di far emergere tempestivamente eventuali difficoltà economiche e finanziarie, così da valutare le possibilità di superamento di tale stato di crisi transitoria con una ristrutturazione aziendale. Superando l'orientamento tradizionale, che vedeva nella società insolvente un danno grave per l'economia, da estromettere quanto prima dal sistema, il legislatore del 2019 ha ritenuto di dover introdurre una disciplina che cercasse di riportare nel circuito economico l'impresa in crisi, prevedendone (anziché la rapida espulsione) la sua ristrutturazione sul fronte finanziario e commerciale: è per questa ragione che con il Codice della Crisi si è introdotta nel sistema la necessità per l'impresa di implementare assetti organizzativi per l'individuazione dello stato di crisi prima che la stessa diventi irreversibile e sono previsti strumenti (che l'impresa è obbligata ad adottare, sia pur modulandoli a seconda delle sue caratteristiche) che permettono ai vertici aziendali una tempestiva adozione delle misure idonee ad evitarla o a superarla, recuperando la continuità aziendale.

Una delle principali novità del Codice della crisi è la previsione di strumenti di allerta che si sostanziano tanto in obblighi di segnalazione degli indizi di crisi posti a carico di soggetti qualificati, quanto in obblighi organizzativi che gravano sull'imprenditore. Gli obblighi delle misure di allerta sono finalizzati alla tempestiva rilevazione della crisi d'impresa, al fine della sollecita adozione di misure idonee alla sua composizione. In sostanza il CCII anticipa la rilevanza delle situazioni di difficoltà dell'azienda rispetto al momento dell'insolvenza (presupposto dell'attuale fallimento) e lo fa prevedendo che la società si doti di specifici programmi di monitoraggio e di valutazione dei segnali dello stato di crisi.

E' necessario dunque che l'azienda si strutturi in termini tali da garantire la sussistenza di adeguati flussi informativi, tempestivi, fedeli ed affidabili, che vadano dal titolare del potere di gestione e direzione aziendale all'organo di controllo ed al revisore, giacché la corretta, completa e tempestiva disponibilità dell'informazione è, a ben vedere, elemento imprescindibile per l'efficace esercizio di qualunque attività di controllo e quindi si può ragionevolmente affermare che un assetto organizzativo può dirsi adeguato soltanto qualora consenta un'efficace elaborazione e trasmissione delle informazioni.

Orbene, questo ridisegno della governance societaria (coinvolgente amministratori, sindaci, management, revisore) per una efficace gestione anticipata del rischio rappresentato dall'insorgenza di una crisi suscettibile di sfociare in una insolvenza non più rimediabile presenta evidenti affinità con l'approccio che caratterizza la disciplina della responsabilità da reato dell'ente prevista dal d.lgs. n. 231 del 2001.

In primo luogo, non può non sottolinearsi la vicinanza e le similitudini di sistema correnti fra il codice della crisi e la disciplina del 2001.

Come è stato detto, tanto la recente riforma che la normativa presente nel d.lgs. n. 231 hanno un comune presupposto di riferimento, rappresentato dalla gestione del rischio come paradigma ineludibile dell'attività d'impresa nella consapevolezza che la gestione della crisi e, più in generale del rischio rappresenta la modalità comportamentale attesa (e, quindi, doverosa) a cui l'ordinamento mira per anticipare, prevenire e contenere le conseguenze dannose del fare impresa. In particolare, pare evidente che la riforma delle procedure concorsuali si ispira alla tecnica manageriale del cd. risk management e risk approach, intesa quale forma organizzativa interna alle società le quali, anche in ragione della natura e dimensioni dell'impresa interessata, devono dotarsi di procedure di contenimento del rischio, destinando conseguentemente adeguate risorse alla gestione dell'incertezza.

Nel caso e con riferimento alla materia dell'insolvenza il rischio da contenere è rappresentato dall'approssimarsi della crisi economica dell'azienda senza che l'imprenditore se ne avveda, con conseguente aggravio del dissesto proprio perché l'insolvenza aziendale non è gestita adeguatamente con le più varie misure, capitalizzazioni, richiesta di procedure concorsuali ecc., mentre nel caso del d.lgs. n. 231 del 2001, la valutazione del rischio è finalizzata a prevenire la commissione di illeciti da parte degli organi apicali della società o di loro dipendenti. In entrambe le ipotesi, tuttavia, il risultato prefissato è il contenimento del rischio di volta in volta da “gestire” entro la soglia di tolleranza che ne rende lecita l'esistenza o, meglio, la coesistenza con i fattori (anche imponderabili e, per ciò solo, potenzialmente rischiosi, quantomeno nella “sfera laica” dell'osservatore medio) con cui si misura, quotidianamente, qualunque imprenditore.

La crisi, dunque, assume i connotati di un “rischio immanente” all'attività d'impresa, come la commissione di un reato contemplato dal D.Lgs. n. 231/2001, che l'imprenditore è tenuto a prevedere e a fronteggiare in modo adeguato, non solo allorché si manifesti in termini di attualità e di impellente cogenza (come stato d'insolvenza), ma, ancor prima, nell'ambito della gestione ordinaria dell'esercizio dell'impresa. Indice inequivocabile di tale dovere è il nuovo secondo comma all'art. 2086 c.c. secondo cui ogni imprenditore deve «istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale». Di tale adempimento devono farsi carico, a vario titolo, l'imprenditore – cui compete l'adozione del predetto assetto organizzativo adeguato ai sensi dell'art. 2086 c.c. ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell'assunzione di idonee iniziative» - e gli organi di controllo societari, il revisore contabile e la società di revisione, che, ciascuno nell'ambito delle proprie funzioni, hanno «l'obbligo di verificare che l'organo amministrativo valuti costantemente, assumendo le conseguenti idonee iniziative, se l'assetto organizzativo dell'impresa è adeguato, se sussiste l'equilibrio economico finanziario e quale è il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l'esistenza di fondati indizi della crisi»; anche in questo caso, sono evidenti le assonanze con il modello organizzativo ex d.lgs.n. 231 del 2001 dove si prevede che lo stesso venga elaborato ed adottato dall'imprenditore, ma vagliato e controllato, specie nella sua effettiva adozione, da altri soggetti come i componenti dell'organismo di vigilanza.

Sul punto, tuttavia, si tornerà più avanti.

Ora, invece, evidenziate le assonanze e similitudini che intercorrono fra la disciplina in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche e Codice della crisi (analogie rilevabili, quanto meno, a livello di tecnica di gestione del rischio che il legislatore richiede all'imprenditore), è il caso di soffermarsi sulle modalità con cui si articolano i rapporti fra le due normative evidenziando dapprima come l'assenza degli adeguati assetti richiesti dal codice della crisi possa determinare l'idoneità del modello organizzativo richiesto dal d.lgs. n. 231 del 2001; successivamente, in un prossimo contributo, esamineremo il tema delle connessioni fra d.lgs. n. 14 del 2019 e d.lgs. n. 231 del 2001 dal punto di vista opposto ovvero verificando in che modo la scelta della società di strutturarsi adeguatamente per la prevenzione degli illeciti penali finisca per incidere anche sulle sue capacità di prevedere e prevenire momenti di crisi economica e sia in grado di gestire gli stessi nell'ottica del loro superamento.

L'inadeguatezza dell'assetto organizzativo per la rilevazione della crisi e le ipotesi di responsabilità da reato delle società

E' possibile rinvenire una pluralità di ipotesi in cui la mancata osservanza delle prescrizioni in tema di adozione di un efficace assetto organizzativo per la rilevazione della crisi può determinare una responsabilità da reato della persona giuridica. Ovviamente, quando si afferma che la mancata adozione dell'assetto richiesto dal Codice della crisi o l'adozione di un sistema inefficace ed incompleto può essere fonte di responsabilità da reato ex d.lgs. n. 231/2001 non si intende sostenere che la mancata osservanza dei precetti del d.lgs. n. 14/2019 sia direttamente produttiva di effetti sanzionatori per la società, bensì che sembrano facilmente enucleabili alcune circostanze in cui la intenzionale e consapevole scelta dell'imprenditore di rinunciare alla mappatura dello stato finanziario, economico e patrimoniale della propria azienda determina l'insorgenza di una fattispecie di reato, reato commesso a vantaggio o nell'interesse dell'ente collettivo nonché rientrante fra i delitti presupposto di cui all'art. 24 d.lgs. n. 231/2001.

Prima di approfondire l'argomento, va fatta una precisazione.

Infatti, la mancata osservanza delle prescrizioni contenute nel Codice della crisi può presentarsi secondo due diverse modalità. In primo luogo, la mancata rilevazione della crisi o, meglio, la mancata emersione dello stato di tensione economica o finanziaria dell'azienda, può dipendere da una intenzionale volontà dell'imprenditore di occultare i relativi dati che attestano la crisi dell'azienda, di cui tuttavia lo stesso risulti comunque in possesso. In sostanza, la violazione della disciplina in tema di liquidazione giudiziale può derivare dalla circostanza che l'imprenditore ha sì adottato un adeguato assetto organizzativo in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa ma poi, acquisita la consapevolezza delle difficoltà in cui la stessa versa, ha taciuto, non presentandoli ai revisori dei conti, predisponendo un bilancio falso che non riporta i dati in modo corretto, ecc.. In questi casi, evidentemente, i reati che possono ipotizzarsi sono molteplici, a partire, chiaramente, dalla violazione degli artt. 2621 e 2622 c.c., ma si tratta di vicende che non ineriscono al tema di questo contributo, in quanto in tali casi il problema, l'origine della possibile responsabilità dell'imprenditore prima, e dell'ente dopo, risiede non nell'inadeguatezza del sistema organizzativo – il quale anzi ha consentito l'emersione degli indici di insolvenza -, ma nella circostanza che l'amministrazione societario non comunica, occulta, tace tali dati, e proprio perché l'imprenditore volontariamente occulta le reali condizioni economiche della sua azienda e quindi è pienamente consapevole della possibile rilevanza penale della sua condotta di mendacio.

Le ipotesi di maggior interesse sono invece quelle in cui la mancata circolazione o emersione delle informazioni relative allo stato di crisi dell'azienda è determinata da una cattiva strutturazione della stessa ovvero dalla circostanza che l'imprenditore, consapevole di quanto pretende il d.lgs. n. 14 del 2019 e delle carenze della sua impresa, non ha voluto introdurre nella stessa quell'assetto organizzativo previsto dalla nuova disciplina sullo stato di insolenza. Volendo esemplificare, si pensi ad un'impresa che dispone di strumenti informatici che le consentono di trarre le informazioni necessarie in ordine alla sostenibilità economica della propria attività, ma non prevede il trattamento e l'utilizzo in ordine alle esigenze di cui all'art. 2086 c.c. ed all'emersione del relativo stato di allerta oppure l'imprenditore, pur potendo, non si attiva per procedere alla chiusura trimestrale dei conti disinteressandosi così di conoscere e valutare l'andamento corrente dell'azienda: tali scelte possono essere determinate dalla necessità di contenere i costi o dall'intento di trasferire sui creditori il rischio dell'insolvenza dell'impresa evitando sistematicamente di segnalare lo stato di crisi agli organi di controllo che imporrebbero determinate modalità di attivazione.

In questi casi sono rinvenibili fattispecie di reato che rientrano nei delitti presupposto di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 per cui il delitto realizzato dall'imprenditore omettendo l'adeguamento sistema aziendale rispetto alle prescrizioni contenute nel d.lgs. n. 14 del 2019 può rappresentare un reato commesso nell'interesse o a vantaggio della società e dare così luogo ad una responsabilità della stessa. Ovviamente, si ribadisce che deve trattarsi di situazioni in cui la violazione del disposto del codice civile e di quanto previsto dal codice della crisi sia intenzionale e deliberata da parte dell'imprenditore, mentre non rileva ai fini del nostro discorso l'ipotesi in cui i presidi di cui al d.lgs. n. 14 del 2019 non vengono attivati in ragione del principio della proporzionalità di cui al comma 5 dell'art. 2381 c.c. ovvero nel caso in cui la mancata piena adozione degli assetti è giustificata – sia pur in maniera erronea – richiamando la necessità di evitare una eccessiva complessità nell'organizzazione aziendale, che non sarebbe proporzionale rispetto alla complessità ed alle dimensioni dell'impresa: in tale ipotesi, l'imprenditore sarebbe chiamato a rispondere civilmente delle sue scelte ma le stesse non integrerebbero alcuno dei reati che si vanno ad esaminare.

Il reato di impedito controllo

Una prima ipotesi delittuosa che potrebbe configurarsi nel caso esemplificato è quella di impedito controllo di cui all'art. 2625 c.c., ai sensi del quale “1. Gli amministratori che, occultando documenti o con altri idonei artifici, impediscono o comunque ostacolano lo svolgimento della attività di controllo o di revisione legalmente attribuite ai soci, ad altri organi sociali o alle società di revisione, sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10.329 euro. 2. Se la condotta ha cagionato un danno patrimoniale ai soci, si applica la reclusione fino ad un anno e si procede a querela della persona offesa. 3. La pena è raddoppiata se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'art. 116 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58”.

Che la mancata adozione di un adeguato assetto organizzativo possa, sia pure in alcuni particolari casi, integrare la fattispecie delittuosa in parola pare evidente.

Infatti, fra le condotte illecite ritenute penalmente rilevanti dalla disposizioni rientra in primo luogo l'occultamento di documenti che in questo modo vengono sottratti alla disponibilità dei soci o dei sindaci nonché della società di revisione: orbene, se il nascondimento di documenti può concretarsi nell'adozione di comportamenti attivi – si pensi all'amministratore che, notte tempo, si rechi in azienda e sottragga la contabilità simulando un furto -, nulla esclude che al medesimo risultato possa pervenirsi per il tramite della semplice mancata predisposizione dei documenti necessari perché i soci, i sindaci e la società di revisione possano esercitare il loro potere di controllo. Ecco quindi che, richiamando il disposto dell'art. 2086 del codice civile, l'amministratore il quale, in maniera intenzionale e volontaria, non introduce nell'impresa un adeguato assetto organizzativo ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell'assunzione di idonee iniziative, impendendo così agli organi di controllo societari ed alla società di revisione la possibilità “di verificare che l'organo amministrativo valuti costantemente, assumendo le conseguenti idonee iniziative, se l'assetto organizzativo dell'impresa è adeguato, se sussiste l'equilibrio economico finanziario e quale è il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l'esistenza di fondati indizi della crisi”, nulla impedisce di formulare una contestazione di violazione dell'art. 2625 c.c., anche in ragione del fatto che l'ipotesi di “occultamento di documenti” non ricorre solo in caso di integrale distruzione delle scritture contabili, ma anche nel caso in cui l'acquisizione delle stesse risulti più difficoltosa – così come il reato sussiste in caso (non di alterazione e falsificazione, bensì) di cattiva ed irregolare tenuta della contabilità.

Quanto alla possibilità che le condotte descritte dall'art. 2625 c.c. possano essere assunte nell'interesse o nel vantaggio dell'impresa, indubbiamente in alcune circostanze ciò non si verifica, come quando l'azione criminosa sia rivolta contro i sindaci (da ritenere, al pari degli amministratori, espressione della maggioranza assembleare) o nei confronti dei singoli soci: in questi casi si può ritenere che la condotta di impedito controllo anziché essere diretta a soddisfare interessi della società è diretta ad avvantaggiare terzi soggetti – si pensi all'amministratore che cerca di impedire verifiche sul suo operato per evitare che emergano sue manchevolezze.

A conclusione diversa però deve pervenirsi quando la condotta delittuosa sia intesa ad arginare in maniera illecita i poteri spettanti alla società di revisione, il cui intervento si pone proprio in un'ottica di tutela di interessi facenti capo alla collettività e più in particolare ineriscono a quei soggetti intenzionati ad intrattenere traffici giuridici con la persona giuridica soggetta a revisione e controllo. Con riferimento a tale ultima ipotesi, infatti, è facilmente ipotizzabile una condotta di impedito controllo assunta a vantaggio della società; si pensi, ad esempio, agli amministratori di un'impresa collettiva che, proprio mediante l'inosservanza dell'art. 2086 c.c., impediscano alla società di revisione di cogliere i segni di crisi finanziaria dell'azienda, consentendo così alla stessa di proseguire nella propria dissennata attività: in tale ipotesi, nulla sembra precludere l'applicazione dell'art. 25-terd.lgs. n. 231 del 2001.

Il reato di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza

Considerazioni analoghe possono essere formulate con riferimento ad un altro illecito ovvero il delitto di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza.

Tale illecito è previsto dall'art. 2638 c.c., il quale prevede che “1. gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società o enti e gli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza, o tenuti ad obblighi nei loro confronti, i quali nelle comunicazioni alle predette autorità previste in base alla legge, al fine di ostacolare l'esercizio delle funzioni di vigilanza, espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorchè oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza ovvero, allo stesso fine, occultano con altri mezzi fraudolenti, in tutto o in parte fatti che avrebbero dovuto comunicare, concernenti la situazione medesima, sono puniti con la reclusione da uno a quattro anni. La punibilità è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi. 2. Sono puniti con la stessa pena gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società, o enti e gli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza o tenuti ad obblighi nei loro confronti, i quali, in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute alle predette autorità, consapevolmente ne ostacolano le funzioni. 3. La pena è raddoppiata se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58”.

Risulta evidente che la violazione del dettato di cui all'art. 2638 c.c. può essere senz'altro posta in essere nell'interesse o a vantaggio della società interessata.

L'attività delle autorità di vigilanza, infatti, è funzionale all'accertamento di eventuali irregolarità nell'ambito della gestione e contabilità della persona giuridica, attività delle autorità di vigilanza, infatti, è funzionale all'accertamento di eventuali irregolarità nell'ambito della gestione e contabilità della persona giuridica il cui rilievo espone quest'ultima all'applicazione di significative sanzioni: chiaramente, dunque, ogni comportamento inteso ad impedire l'emergenza delle manchevolezze nell'ambito del funzionamento dell'azienda si traduce nella ricerca di un beneficio per l'ente collettivo – il quale, per l'appunto, può così sperare di non essere sanzionato dall'autorità di vigilanza ingannata dagli amministratori societari.

Conferma questa conclusione l'individuazione dell'oggetto giuridico del reato di ostacolo alle autorità di vigilanza, che da sempre è rinvenuto nella tutela delle funzioni di controllo attribuite a diverse autorità pubbliche. La scelta di tutelare penalmente le competenze di un organo amministrativo – quali per l'appunto le diverse autorità pubbliche di vigilanza - è giustificata considerando come la protezione delle funzioni (meglio delle possibilità di esercizio dei relativi poteri) attribuite a tali enti rappresenti una modalità di difesa di interessi ulteriori: in particolare, mentre la garanzia della veridicità delle informazioni rese alla CONSOB ed alla Banca d'Italia si traduce nel presidio degli interessi economici dei singoli soggetti che operano nel medesimo settore economico, il corretto svolgimento delle funzioni di controllo sull'attività delle società commerciali rappresenta invece un requisito indispensabile per la piena protezione dei diversi interessi connessi e correlati al corretto e trasparente funzionamento del mercato mobiliare.

Quanto poi alla possibilità che il reato di ostacolo alle autorità di vigilanza venga realizzato mediante la intenzionale e consapevole violazione dell'art. 2086 c.c. ci sembra che una tale condotta possa sicuramente rientrare in alcune delle ipotesi considerate dall'art. 2638 c.c. In particolare, la mancata adozione di un adeguato assetto organizzativo può senz'altro integrare la fattispecie di cui al secondo comma del citato art. 2638: una tale omissione da parte degli amministratori della società, infatti, può rappresentare la principale modalità con cui tale particolare modalità di violazione può essere posta in essere. D'altronde, il comma secondo dell'art. 2638 in parola richiama un delitto a forma libera, realizzabile in qualsiasi forma, che può essere integrato anche omettendo di fornire all'autorità di vigilanza le notizie che questa richiede impedendo così a quest'ultima di esercitare le proprie funzioni: uno dei modi più agevoli con cui l'amministratore della società può giustificare la mancata comunicazione dei dati richiesti dalle autorità pubbliche è proprio evidenziare la non presenza nell'azienda di un'adeguata organizzazione atta a procurare i dati la cui comunicazione è richiesta ovvero la mancata adozione di quell'assetto previsto dall'art. 2086 c.c.

Ecco quindi che la mancata osservanza di tale norma civilistica, se non è direttamente punita in ambito penalistico, può comunque integrare un illecito penale e se tale reato rientra fra quelli previsti dal d.lgs. n. 231/2001 – come si verifica per i due illeciti su cui ci siamo soffermati in queste pagine che sono commessi nell'interesse o a vantaggio della società -, ecco che quest'ultima può senz'altro essere chiamata a risponderne.

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