Il danno da demansionamento va risarcito anche in caso di illegittima sospensione in CIG

Ilaria Leverone
30 Settembre 2020

Il danno da illegittima sospensione in cassa integrazione guadagni ed il danno da demansionamento subiti dal lavoratore nel periodo di sospensione sono concettualmente distinti poiché i piani risarcitori sono riconducibili alla violazione di precetti normativi differenti...

Massima. Il danno da illegittima sospensione in cassa integrazione guadagni ed il danno da demansionamento subiti dal lavoratore nel periodo di sospensione sono concettualmente distinti poiché i piani risarcitori sono riconducibili alla violazione di precetti normativi differenti (e, cioè, quelli attinenti all'osservanza dei criteri di rotazione e quelli posti a tutela della professionalità e della personalità del lavoratore consacrati dall'art. 2103 c.c.), oltre che risarcibili alla stregua di diversi parametri.

Dunque, non è corretto concludere che l'accertamento del diritto risarcitorio scaturito dalla violazione delle norme in tema di rotazione, cui consegue il diritto a percepire le differenze tra la retribuzione mensile dovuta e l'indennità di cassa integrazione percepita, possa assorbire anche il diritto derivante dalla violazione dell'art. 2103 c.c., da cui consegue, invece, il diritto al risarcimento di danni non patrimoniali cagionati dall'illegittima lesione della professionalità del lavoratore (Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza depositata il 28 settembre 2020, n. 20466).

Il caso. Il Tribunale di Milano dichiarava l'illegittimità della collocazione di una lavoratrice in cassa integrazione guadagni, condannando il datore di lavoro al pagamento di somme corrispondenti alla differenza tra quanto spettante a titoli di retribuzione per il periodo di sospensione e quanto percepito a titolo di indennità di cassa integrazione. Il Giudice accertava altresì il demansionamento subito dalla lavoratrice durante i periodi di illegittima sospensione in cassa integrazione, condannando la società al risarcimento del danno alla professionalità, quantificato nella misura del 100%. La Corte d'Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda di risarcimento del danno da demansionamento, condannando la lavoratrice alla restituzione di quanto percepito in seguito all'esecuzione della sentenza di primo grado. La lavoratrice ha chiesto la cassazione della sentenza di secondo grado, di cui stigmatizza la contraddittorietà, per aver la Corte territoriale accertato, da un lato, che nei periodi di rotazione la stessa non aveva ricevuto l'assegnazione di alcuna mansione, ponendo tale accertamento a fondamento della pronuncia di illegittimità della collocazione in CIG, salvo poi negare il diritto al risarcimento del danno da demansionamento, ritenendo tale danno assorbito dall'indennità liquidata per mancata rotazione.

La tutela differenziata dei crediti in ragione del loro rilievo socioeconomico. La Suprema Corte ha accolto la domanda della lavoratrice, ritenendo non sovrapponibili il risarcimento del danno da illegittima sospensione in cassa integrazione e quello derivante dalla lesione alla professionalità conseguente al demansionamento. Richiamando le note sentenze a Sezioni Unite del 2008 in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, la Corte di Cassazione ha precisato che l'assegnazione a mansioni inferiori (o, come in questo caso, la totale privazione di mansioni) rappresenta un fatto idoneo a produrre conseguenze dannose sia di natura patrimoniale (mancata acquisizione di un maggior sapere e/o pregiudizio da perdita di chances) sia di natura non patrimoniale, sotto l'aspetto del diritto del lavoratore all'effettivo dispiegamento della sua professionalità mediante l'espletamento delle mansioni che gli competono.

Non si possono sovrapporre i diversi piani risarcitori. Nello specifico, la Corte d'Appello di Milano aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno da demansionamento, sul rilievo che la privazione delle mansioni era circoscritta a limitati periodi di rotazione e risultava comunque inserita nello specifico contesto dell'illegittima collocazione della lavoratrice in cassa integrazione, già sanzionata mediante la condanna al pagamento delle differenze retributive. Invero, qualora il datore di lavoro lasci il dipendente in condizioni di inattività, non solo viola l'art. 2103 c.c. ma ne lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza. Tale condotta comporta la lesione della dignità professionale del lavoratore e produce un danno suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa.

(Fonte: Diritto e Giustizia)

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