Acquisto di un bene da parte del socio di impresa familiare

30 Settembre 2020

Nel caso sia stata costituita un'impresa familiare con scopo agricolo e uno dei partecipanti acquisti un bene in nome proprio, deve ritenersi in via presuntiva che l'acquisto sia stato compiuto con gli utili comuni dell'impresa?

Nel caso sia stata costituita un'impresa familiare con scopo agricolo e uno dei partecipanti acquisti un bene in nome proprio, deve ritenersi in via presuntiva che l'acquisto sia stato compiuto con gli utili comuni dell'impresa?

Al quesito deve darsi risposta negativa. La conseguenza processuale immediata di una simile considerazione è che l'onere della prova - specificamente di provare che l'acquisto de quo sia avvenuto con denaro coincidente con gli utili - spetta al soggetto che ha effettuato l'operazione.

Nelle fattispecie che concretamente hanno dato adito a problemi di siffatta natura, entra in gioco l'interpretazione dell'art. 230-bis del codice civile, ai sensi del quale - giova ricordarlo - “il familiare che presta la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”.

Nello specifico caso proposto, lo scopo agricolo dell'impresa impone di considerare - seppur brevemente - le vicende storiche che sottostanno all'introduzione dell'art. 230-bis c.c. in seguito alla riforma del diritto di famiglia del 1975, nonché le rationes che regolano la normativa. L'articolo sopra riportato, infatti, ha sostituito quello che era il dettato dell'art. 2140 c.c., dedicato all'antica figura della comunione tacita familiare. La volontà del legislatore era stata quella di codificare quell'affectio che regola normalmente i rapporti familiari anche laddove essi si traducano in forme di collaborazione d'impresa: oggi la species dell'impresa familiare coltivatrice è transitata entro la più ampia categoria dell'art. 230-bis codice civile e alla prima devono ritenersi applicabili i principi relativi alla seconda, almeno fintantoché siano compatibili. Siffatta impresa familiare dedita all'agricoltura rappresenta “un organismo collettivo formato dai familiari dei consorziati, il cui fine è l'esercizio in comune dell'impresa agricola” (così si esprime Cass. civ., n. 12643 del 26 giugno 2020). Dunque, nelle fattispecie in cui si verta in materia di impresa familiare agricola, pur dovendosi sottolineare la specialità della situazione, valgono le regole consuete dell'impresa familiare, la cui natura collettiva impone che, obbligati in relazione al credito per gli utili, se ed in quanto esistenti, spettanti a ciascuno dei familiari che abbia prestato la propria attività lavorativa nella famiglia, siano l'impresa familiare e gli altri familiari consorziati. Essi rispondono di tale obbligazione con i beni comuni, come ha avuto modo di sottolineare nel 2013 la Suprema Corte di Cassazione, laddove ha precisato, altresì - in un arresto dai notevoli risvolti pratici - come la domanda volta alla liquidazione della quota di partecipazione agli utili dell'impresa familiare coltivatrice, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro in essa prestato, deve rivolgersi nei confronti di costoro e non invece nei riguardi degli eredi del capofamiglia defunto (si tratta di Cass. Civ., 8 maggio 2013, n. 10777).

Passando al cuore del quesito pratico specificamente posto, occorre ricordare come la partecipazione del familiare ai beni acquistati presupponga che i beni stessi siano stati acquistati dopo la costituzione dell'impresa e con i relativi utili. Tuttavia, sovente nella prassi si può osservare come non sussista alcuna presunzione che il denaro per l'acquisto, ad esempio, di un immobile compiuto da un partecipante “in nome proprio” in costanza di comunione provenga esattamente dagli utili tratti dall'attività economica comune: come anticipato, colui che afferma che l'acquisto è stato effettuato con denaro comune è tenuto a fornire la prova del proprio assunto come la giurisprudenza di legittimità ha più volte avuto modo di sostenere (si pensi a Cass. 30 agosto 1999 n. 9119; Cass. 6 giugno 1988 n. 3812). Tale assenza di presunzione riguarda, naturalmente, anche i beni acquistati da uno dei coniugi, a poco rilevando nulla rilevando a chi siano stati intestati i beni, in particolare a quale dei due coniugi costituenti l'impresa familiare. Vero è che l'antico art. 2140 prevedeva una disciplina speciale per la comunione tacita familiare, tuttavia oggi il dettato dell'art. 230-bis c.c. deve intendersi esaustivo, seppur arricchito - nella prassi - dalle consuetudini ancora esistenti per il settore agricolo. Dal combinato disposto dell'art. 2140 c.c. e art. 230-bis c.c., si deve fare coincidere la comunione tacita familiare con l'esercizio in forma necessariamente collettiva, di un'impresa agricola con comunione di beni. Perché si possa ritenere esistente una comunione tacita familiare occorre che si venga a costituire un patrimonio indiviso (alla stregua delle antiche forme di comproprietà romana stigmatizzate dalla figura del consortium ercto non cito); tale patrimonio deve intendersi come il prodotto della comune attività di lavoro, residuale rispetto al soddisfacimento dei bisogni della famiglia o, più precisamente, delle diverse famiglie mononucleari sotto cui si raccolgono i componenti.

Si verifica, dunque, una comproprietà di utili e di perdite, che consente, altresì, la formazione di un vero e proprio ‘peculio', gestito dai singoli membri della comunione senza alcuna necessaria formalità, senza obblighi di rendicontazione e avente la specifica finalità di raccogliere i mezzi necessari al sostentamento della comunità raccolta. Tuttavia, siffatta speciale regolamentazione non La comunione tacita familiare è quindi caratterizzata, oltre che dalla comunanza di lucri e di perdite, dalla formazione di un unico peculio, gestito senza particolari formalità ed obblighi di rendiconto, destinato indivisibilmente a fornire i mezzi economici necessari ai bisogni della comunità familiare ed al sostentamento dei suoi partecipanti.

Il regime di comunione sui beni comuni non comporta però, ove un bene sia acquistato in proprio dal singolo partecipante con i proventi comuni, l'acquisto automatico da parte della collettività, bensì un obbligo di trasferimento dal singolo acquirente agli altri membri della comunione, salvo che non risulti uno specifico uso che consideri fatti per la comunione anche gli acquisti nomine proprio dei singoli partecipanti.

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