Le esimenti previste dall'ordinamento per gli operatori sanitari

Valentina Vitale
01 Ottobre 2020

Gli Autori, nella seconda parte del loro approfondimento, affrontano la tematica del rischio organizzativo e delle possibili esimenti per gli operatori sanitari post Covid-19.
Profili penali e civili della struttura e degli operatori. L'esimente dell'art. 54 c.p. in ambito penale

* di Patrizia Pancanti

L'inedita situazione di frontiera – clinica e umana – provocata dall'emergenza da COVID-19 porta a riflettere su alcuni profili di responsabilità penale dei medici e degli operatori sanitari.

L'emergenza sanitaria sta portando giorno per giorno all'evidenza un conflitto drammatico tra l'insufficienza delle risorse pubbliche per il sistema di cura e le necessità stesse di accesso alle strutture sanitarie e segnatamente ai presidi di terapia intensiva, proprio a causa del dilagare del contagio.

Negli Stati Uniti – dove la stampa sta indagando il tema molto più di quanto non avvenga in Italia – il problema è stato rinominato the last bed dilemma.

Il caso è quello del decesso di pazienti positivi al contagio e ricoverati presso le strutture sanitarie e, per l'operatore, quello dell'ipotesi di reato di omicidio colposo ai sensi degli artt. 589 e 590-sexies c.p.

In particolare, l'art. 590-sexies c.p. contempla un'ipotesi specifica di omicidio colposo, introdotta dalla legge n. 24/2017 (legge Gelli-Bianco), qualora il reato di omicidio colposo o di lesioni personali colpose sia commesso “nell'esercizio della professione sanitaria”.

Si tratta di un problema che stringe le coscienze e la governance pubblica. L'ormai palese mancanza di risorse pone ai medici un problema di governo dell'emergenza o, se si vuole, di gestione della prima linea: l'insufficienza di mezzi li costringe, infatti, a introdurre parametri di scelta anche in assenza di un chiaro intervento normativo. Il che equivale peraltro a esporre il professionista a un'ipotesi di reato per il caso del decesso di un paziente che venga escluso dall'accesso a una terapia efficace.

Nell'attuale impossibilità di superare l'insufficienza delle risorse economiche, occorre trovare un punto di equilibrio tra il diritto alla salute, garantito dall'art. 32 della Costituzione, e la tutela di chi si trova ad attuare in prima linea quel diritto.

Dal punto di vista giuridico – e, in particolare, del diritto penale – occorre chiedersi se le scelte operate dal professionista in condizioni di insufficienza delle risorse (numero di posti letto, accesso a terapie più efficaci etc.) e in ipotesi il decesso di pazienti derivante dall'impossibilità di garantire un equanime trattamento possa essere scusabile, in quanto indipendente dalla volontà dell'agente.

Per l'attività clinica di trincea, si potrebbe ipotizzare l'operatività della scusante dello stato di necessità, prevista dall'art. 54 del codice penale. La norma afferma che “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.

Lo stato di necessità sussiste quando l'agente, costretto da un pericolo imminente a operare una scelta per salvare un altro soggetto, ha agito in uno stato di turbamento motivazionale, nel quale non si poteva esigere da lui una condotta diversa da quella in concreto tenuta.

Per essere scusabile, la condotta del sanitario deve essere l'effetto di una scelta inevitabile, quasi di un aut aut della coscienza, e non già di un mero bilanciamento di interessi effettuato a tavolino: l'aver riservato a un paziente cure più incisive, in assenza di mezzi sufficienti per tutti, deve rappresentare una scelta di ultima istanza.

Un utile punto di riferimento viene dalle Raccomandazioni di etica clinica per l'ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili della SIAARTI e pubblicate lo scorso 6 marzo. Articolate in quindici punti, le Raccomandazioni sono ispirate al principio di proporzionalità delle cure e al criterio della “maggior speranza di vita”.

Il contesto di riferimento è quello della cosiddetta medicina delle catastrofi, già oggetto di un documento redatto dal Consiglio d'Europa nel 2002. Quanto alle attuali proiezioni sulla diffusione del contagio da Covid-19, le Raccomandazioni chiariscono che la disponibilità di risorse non rappresenta un metodo di selezione dei pazienti da curare (che si porrebbe in evidente contrasto con i principi etici e deontologici). Al contrario – si legge nel testo – «l'applicazione dei criteri di razionamento è giustificabile soltanto dopo che da parte di tutti i soggetti coinvolti (in particolare le “Unità di Crisi” e gli organi direttivi dei presidi ospedalieri) sono stati compiuti tutti gli sforzi possibili per aumentare la disponibilità di risorse erogabili (nella fattispecie, letti di terapia intensiva) e dopo che è stata valutata ogni possibilità di trasferimento dei pazienti verso centri con maggiore disponibilità di risorse».

Le Raccomandazioni non rispondono né a un criterio di accesso alle terapie intensive del tipo first come, first served, né a un parametro di allocazione delle risorse orientato alla razionalizzazione della spesa, viceversa, l'insufficienza strutturale delle risorse costringe i medici – in assenza di alternative – a destinare le terapie verso quei pazienti che appaiano maggiormente in grado di beneficiarne (criterio della maggior speranza di vita).

Ed ecco dunque il quesito sopra anticipato: la situazione di emergenza può rappresentare una causa di esclusione della responsabilità per il medico che si trovi indagato di omicidio colposo per il decesso di un paziente Covid-19? Si può applicare al caso di specie l'esimente dello stato di necessità?

Posto che non esiste, allo stato, un provvedimento legislativo che offra risposta definitiva a tale quesito, emerge dalle Raccomandazioni che in concreto la scelta tra due o più pazienti non dovrà mai essere una forma di selezione in ingresso dei malati (soprattutto con riferimento alle fasce più fragili della popolazione), bensì una scelta di emergenza etica.

Affinché la condotta dell'agente possa rientrare nello stato di necessità previsto dall'art. 54 del codice penale, il pericolo di “danno grave alla persona” non deve essere “altrimenti evitabile”: non deve esistere cioè una soluzione alternativa che permetta, nel caso concreto, di trovare una soluzione alternativa per evitare di sacrificare anche la vita o l'incolumità dell'altro paziente. Anche le Raccomandazioni sembrano d'altro canto ispirate a tale principio, quando affermano – come sopra riportato – che l'applicazione dei criteri di razionamento può trovare giustificazione soltanto quando i soggetti interessati abbiano in ogni modo verificato la possibilità di soluzioni alternative.

Certo un ulteriore problema viene dal fatto che, ad oggi, la situazione operativa dei medici sconta non solo la già ricordata assenza di un provvedimento legislativo (che peraltro potrebbe essere di non facile gestazione proprio dal punto di vista del diritto penale), ma anche – e forse ancora prima – dall'assenza di un chiaro apparato di linee guida e di protocolli operativi.

Infatti, se esistesse una chiara disciplina di linee guida e protocolli di terapia intensiva adatta alla situazione di eccezionalità clinica del Covid-19, un ulteriore ausilio potrebbe venire dalla stessa norma (l'art. 590-sexiesc.p.) che prevede la responsabilità colposa per morte in ambito sanitario. La norma prevede infatti, al secondo comma, che “la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

Se l'assenza di un panorama di riferimenti chiaro rappresenta sicuramente una lacuna del sistema, è pur vero che alla luce delle informazioni diffuse il problema si sta spostando proprio sulla condivisione della scelta in condizioni di una insostenibile pressione di lavoro. Le stesse Raccomandazioni affermano che anche la scelta di reindirizzare soggetti più fragili (in particolare, per ragioni di età anagrafica) verso terapie di “retroguardia” debba essere condivisa al massimo grado non solo con tutti i professionisti coinvolti, ma anche con la famiglia del paziente. Ma – ci si chiede – qual è la sorta di tali indicazioni di etica clinica nel contesto di un'emergenza sempre più affannosa?

Su questi temi non solo la stampa, ma anche la letteratura scientifica stanno tentando una riflessione quanto più ampia come emerge dal contributo scientifico di L. Rosenbaum, Facing Covid-19 in Italy. Ethics, Logistic, and Therapeutics on the Epidemic's Front Line, pubblicato in The New England Journal of Medicine, www.nejm.org, il 18 marzo 2020.

Lo stato di necessità implica che l'agente abbia agito in condizioni di turbamento psicologico talmente forte e sia stato obbligato a compiere una scelta che, di per sé, integrerebbe un comportamento penalmente rilevante: scelta, questa, per la quale però non potrà essere mosso un rimprovero di colpa in quanto essa non era in concreto evitabile. Vale a dire: non vi era alternativa.

Proprio nell'emergenza di una situazione lacerante e quindi nella direzione di un'esclusione di responsabilità, si colloca l'ipotesi di un emendamento del Governo – attualmente in fase di studio – che con una sorta di moratoria consenta di escludere fino alla fine dell'emergenza la responsabilità di tali soggetti in ambito civile e penale.

Naturalmente, l'eventuale riconoscimento dello stato di necessità dovrà collocarsi entro un contesto etico condiviso (informazioni ai familiari, vaglio di soluzioni alternative e tentativi di reperire risorse ulteriori). In un tempo in cui la medicina porta il fardello di scelte politiche che hanno sempre più sottratto risorse alla sanità pubblica, lo stato di necessità potrebbe offrire – a condizione che persista un saldo rispetto dell'etica e della deontologia – una forma di tutela per i professionisti più esposti all'esercizio in concreto del cosiddetto “governo clinico”.

Segue. L'esimente dell'art. 2236 c.c. in ambito civile

* Giovanni Pasceri

La responsabilità del professionista medico è, dunque, una responsabilità per colpa e, come tale, per il suo accertamento anche in ambito civile occorre rifarsi alle regole causali definite dagli artt. 40-43 c.p. anche per le vertenze civilistiche.

L'art. 40 c.p. stabilisce, in linea di principio, la necessità che l'evento sia conseguenza dell'azione o dell'omissione del professionista chiarendo però che il non impedirlo, quando si ha l'obbligo di farlo (come il medico che ha l'obbligo di attivarsi), equivale a cagionarlo.

Il successivo art. 41 c.p. stabilisce che, in seguito a concause, se l'evento dannoso è eziologicamente ricollegabile all'azione o all'omissione del medico non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento salvo la sussistenza di “cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l'evento” in quanto ex ante inconoscibile ed imprevedibile tanto da escludere la responsabilità del medico in quanto questi non possa modificare l'iter causale.

In questo modo il medico assume nei confronti del paziente una posizione di protezione volta a neutralizzare i possibili pericoli derivanti dalla propria prestazione e impedire la verificazione di fonti di pericolo per il paziente (in questo modo anche Caletti, Covid-19 e responsabilità penali degli operatori sanitari. Brevi riflessioni su come limitare la punibilità tra colpa professionale, stato di necessità e cure palliative in Penale Diritto e Procedura, 5.5.2020 Ed. Pacini).

In ambito civilistico per la sussistenza del nesso causale è sufficiente la causalità ordinaria secondo le leggi statistiche (teoria del più probabile che non).

Concentrandoci sulla sola colpa, intesa come evento non voluto, analizzando l'art. 43 c.p., si distinguono tre momenti necessari per la sua determinazione:

a) inosservanza della regola obiettiva conseguente a negligenza (omesso compimento di una condotta doverosa caratterizzata da superficialità), imprudenza (compimento di un'azione senza le opportune cautele o con avventatezza) o imperizia (omissione o compimento di azione realizzata in mancanza di conoscenza scientifica e di esperienza che costituisce il bagaglio professionale comune per tutti coloro che svolgono quella determinata attività professionale);

b) evitabilità dell'evento mediante l'osservanza della regola;

c) esigibilità dell'osservanza della regola obiettiva da parte dell'agente.

Sulla base di queste considerazioni appare sterile e improduttivo tentare di limitare la responsabilità del professionista sanitario in ragione della presunta sussistenza di una responsabilità ex art. 2050 c.c. connessa alla pericolosità insita nell'ambito ospedaliero o dall'evento determinato dal Covid-19 sia in ragione al fatto che, come si è detto, gli eventi pandemici non sono imprevedibili sia in relazione alle norme sanitarie e giurisprudenza formatasi su di essa in ordine alla diligenza media qualificata richiesta al singolo professionista.

In quest'ottica l'affiancamento della presunta responsabilità del medico ex art. 2050 c.c. mal si concilia con le norme sottese alla disciplina generale della responsabilità per colpa insita della responsabilità professionale sicché cercare nell'art. 2050 c.c. una esimente per il professionista determina, viceversa, una aggravante ingiustificata posto che la responsabilità e durevolmente oggettivamente pericolosa in quanto mancano (non perché assenti ma in quanto tecnologicamente ancora insufficienti) idonei presidi prevenzionistici o adeguati dispositivi di protezione individuale rispetto alla rischiosità e insicurezza oggettiva dell'attività in parola.

La peculiarità della fattispecie è data dallo stravolgimento giurisprudenziale avutosi con la sentenza della Cass. civ., Sez. III, 22 gennaio 1999 n. 589 la quale ha ricondotto, a norme invariate, il rapporto medico paziente come contrattuale secondo una costruzione dommatica che lascia perplessi in ragione al fatto che il goffo tentativo di avvicinare il risarcimento al sistema dei torts, di matrice anglosassone, mal si concilia con il nostro sistema universalistico mancando una reale corrispettività, commutatività e soprattutto sinallagmaticità della prestazione sanitaria resa.

Peraltro la teorizzazione del “contatto sociale”, ipotizzato dalla dottrina tedesca, era finalizzato a garantire il debitore da “ähnliche geschäftliche Kontakte” ovvero da fonti di obbligazioni avente natura “commerciale” (sul punto: Francesca Claris Appiani, Responsabilità da contatto sociale, in RIDARE, Risarcimento Danno e Responsabilità, 20 Aprile 2015, ed. Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A.).

e non ad incidere sul rapporto medico-paziente (rapporto, quest'ultimo, che il legislatore tedesco si è ben guardato da modificare).

Nel disorientamento generale, il riconoscimento giuridico del contatto sociale è oramai trasfuso nella legge n. 24/2017 che però ha tentato di riportare la responsabilità del professionista a quella extracontrattuale così come voluta dalla Costituzione.

In effetti, gli artt. 22 e 23 del T. U. n. 3 del 1957 “Testo Unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato”, in attuazione dell'art. 28 della Costituzione, in relazione alla responsabilità dei dipendenti verso terzi, identifica la responsabilità dei dipendenti della P.A. come aquiliana ex art. 2043 c.c. così come recentemente rinsaldata dagli artt. 2 e 55 55 del d. lgs. n. 165/2001 e successive modifiche e integrazioni.

Tale norma, peraltro, non solo appare conforme all'art. 288, comma 2 e 3 del Trattato della Unione Europea ma, altresì, alle norme riguardanti proprio l'amministrazione sanitaria come il d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 - Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali; la l. 14 gennaio 1994, n. 20 - Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti e, appunto, il richiamato D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165Testo unico pubblico impiego”, oltre CCNL della dirigenza medica, via via modificati.

Alla luce di quanto sopra è evidente che la responsabilità del medico può essere solo extracontrattuale e il “danno ingiusto” che il dipendente è chiamato a risarcire è solo quello doloso o determinato da colpa grave laddove questa venga accertata dalla Corte dei Conti. Quanto al “danno ingiusto” la Cassazione con sentenza n. 500/99 ha stabilito che il risarcimento dovuto in caso di accertamento della responsabilità del dipendente riguarda non solo il danno conseguente alla violazione di un diritto soggettivo ma anche derivante da lesione di un interesse legittimo.

Posta questa premessa, è chiaro che la chiave di lettura, per la configurabilità o meno della presunta responsabilità civile del medico, si identifica nell'art. 2236 c.c. il cui principio era stato elaborato dalla giurisprudenza (Cass. SS. UU., 08.03.1937, in Resp. civ. e prev., 1937, p. 314 ss. che “impediva” un addebito al medico sogni volta che questi si fosse trovato ad affrontare «problemi scientifici di ardua soluzione»), per poi essere trasfuso nel codice civile del 1942, proprio a garanzia del professionista.

L'art. 2236 c.c. (Responsabilità del prestatore di opera) stabilisce che: “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.

La Relazione al Re del Ministro Guardasigilli sul Codice Civile, Relazione, n. 917, riguardo l'esimente prevista dall'art. 2236 c.c. evidenzia la necessità di contemperare “due opposte esigenze, quella di non mortificare l'iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella viceversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista”.

La norma, dunque, riconduce la responsabilità del professionista all'alveo della responsabilità colposa e alla sua valutazione soggettiva che nel regime di cui all'art. 2050 c.c. e nella responsabilità oggettiva in generale è preclusa (in questo senso anche Chiara Iorio, in “Responsabilità medica e tutela del paziente ai tempi del Coronavirus” cit.).

Proprio in ragione di quanto sopra, l'applicabilità dell'art. 2236 c.c. esenta la responsabilità del medico per il caso di involontaria trasmissione del virus in quanto derivato dal richiamato difetto di organizzazione dell'Ente sanitario nonché, riguardo l'ipotesi di lesione o morte del paziente affetto da Coronavirus, per il fatto che la prestazione ipoteticamente doverosa implicava (ed implica) la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà: i) in assenza di indicazioni terapeutiche per trattare il paziente affetto da Covid-19; ii) in mancanza di uno studio scientifico, mancando la cura specifica, sulla dispensabilità di farmaci off label; iii) la mancanza di un vaccino; iv) in difetto della conoscenza della patogenesi e patomorfosi del virus, della sua virulenza e addirittura della sua “anomala” modalità di trasmissione.

In altri termini, l'esenzione opera in quanto “il caso non è stato ancora sperimentato nella pratica a sufficienza o adeguatamente studiato dalla scienza o perché non ancora dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da eseguire”.

L'assenza di responsabilità opera anche in relazione al “consenso informato” posto che il paziente affetto da Coronavirus veniva normalmente condotto in via d'emergenza in ospedale e, spesso, in condizioni di instabilità, con difficoltà a prendere contatti con i parenti più prossimi, era improbabile che allo stesso paziente poteva essere fornito ed acquisito un consenso informato la cui assenza è giustificata dalle norme deontologiche, dalla giurisprudenza formatasi in tema di consenso informato in emergenza-urgenza, e dalla stessa l. n. 219/2017.

È evidente che l'art. 91 D.L. 18/2020, pur condividendo quanto disposto dall'art. 2236 c.c., appare irragionevolmente comprensivo, nella sua genericità, di condotte omissive o commissive tipicamente gestionali che, nei limiti di quanto anzidetto, appaiono voler offrire uno scudo protettivo, principalmente, alle Regioni e alle Aziende.

La mediazione obbligatoria per il solo rapporto contrattuale e il richiamo del giudice amministrativo all'ostentazione della documentazione

* Valentina Vitale

Sulla lettura della norma volta a creare uno scudo nei confronti delle Aziende interviene la stessa Legge n. 70 del 25 giugno 2020, pubblicata in G.U. il 29 giugno 2020 n.162, la quale introduce, al comma 6-ter all'art. 3 D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 una nuova ipotesi di mediazione cosiddetta obbligatoria: “Nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l'emergenza epidemiologica da COVID-19 sulla base di disposizioni successive, può essere valutato ai sensi del comma 6-bis, il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell'articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, costituisce condizione di procedibilità della domanda”.

La “mediazione finalizzata alla conciliazione” nelle controversie civili (sebbene anche in sede penale il Giudice in siffatti casi invita, sovente, le parti a definire la questione con un accordo) a norma dell'art. 1 del predetto d. lgs. n. 28/2010, infatti, intende stimolare le parti a raggiungere un accordo conciliativo “extragiudiziale” in base a criteri basati su: i) libertà negoziale delle parti che possono o meno accettare la definizione conciliativa; ii) riservatezza delle argomentazioni che non possono essere prodotte in giudizio; iii) imparzialità nella gestione garantita dalla figura del mediatore che è terzo rispetto alle parti; iv) informalità della procedura proprio per favorire l'iter conciliativo senza gravare il procedimenti di rigide forme che rischierebbero di allontanare le parti dalla bonaria composizione della vertenza; v) competenza del conciliatore che oltre a possedere almeno la laurea triennale o iscrizione a un ordine professionale; frequentare un corso di formazione della durata di 50 ore; seguire corsi di formazione e aggiornamento con cadenza biennale e essere in possesso di specifici requisiti di onorabilità.

L'art. 5 del d. lgs. n. 28/2010 delinea le ipotesi di “mediazione obbligatoria” il cui strumento conciliativo è dalla norma ritenuto “obbligatorio”, nel senso che l'omessa instaurazione preventiva di tale istituto determina la violazione della condizione di procedibilità della azione civile e la mancata partecipazione ingiustificata allo stesso può essere valutata dal giudice ex art. 116 c.p.c. come fonte di prova. L'obbligatorietà riguarda la sola instaurazione del procedimento di mediazione e la partecipazione allo stesso ma non anche, chiaramente, quello di raggiungere l'accordo conciliativo che rimane un atto negoziale.

Con riferimento alla condizione di procedibilità prevista ex art. 8, comma 4-bis. del d.lgs. n. 28/2010, il Trib. Milano, sent. 3 maggio 2019, n. 4275, ha stabilito che se il legislatore avesse effettivamente voluto determinare l'improcedibilità della domanda “in caso di mancata partecipazione effettiva alla mediazione” non avrebbe previsto che dal mancato esperimento della mediazione il Giudicante (a seguito della novella aggiunta dal D.L. n. 69/2013), senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, desumere argomenti di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c. in quanto detta ultima ipotesi è ontologicamente inconciliabile con la mancanza della condizione di procedibilità e con quanto previsto dall''art. 5 circa la mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento che determina il versamento di una somma di importo pari al contributo unificato. In questo caso qualora il legislatore avesse voluto rendere effettiva la predetta condizione di procedibilità, avrebbe tout court stabilito la cessazione del procedimento per difetto della preventiva azione di procedibilità.

Il successivo comma 6-ter all'art. 3 D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 stabilisce che il giudice può invitare le parti a rivolgersi a un mediatore (c.d. mediazione demandata). La formulazione non deve trarre in inganno posto che il Giudice di tale norma potrebbe invitare le parti alla mediazione non solo quando questa sia “facoltativa” ma anche quando ancorché “obbligatoria”, come per le controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l'emergenza epidemiologica da COVID-19, nel caso in cuila mediazione, svolta con esito negativo, il Giudice ritenga, tuttavia, che sussistano margini per conciliare la controversia insorta.

L'elemento distonico è il richiamo al solo rapporto “contrattuale” ovvero alle sole controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l'emergenza epidemiologica da COVID-19, escludendo di fatto il rapporto contrattuale tipico del rapporto medico-paziente anche alla luce della l. n. 24/2017.

L'istituto così come formulato è stato letto da molti come un ulteriore “scudo” alle sole Aziende e Regioni e non al Professionista sanitario che pur operando, nella limitatezza delle risorse materiali e di personale, in difetto di un piano organizzativo, si trova, per dette ragioni, coinvolto in un procedimento civile o penale in modo analogo all'Azienda ospedaliera da cui dipende.

Guida all'approfondimento

Per un maggior approfondimento, si veda anche:

Pasceri, Pancante, Vitale, La responsabilità delle Strutture sanitarie e delle Regioni in materia di contagio, in Ridare.it

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