Funzioni e compiti conciliativi del CTU tra preclusioni normative, prassi consolidate ed esigenze di qualità

Paolo Frediani
07 Ottobre 2020

Da sempre la funzione di CTU ha portato con sé, oltre al compito di esperto per il magistrato, anche un valore conciliativo per le parti in contesa. Ma è con l'introduzione della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite di cui all'art. 696-bis c.p.c. che al CTU si è conferito per la prima volta in modo così chiaro e pieno il riconoscimento di conciliatore. Tuttavia ancor oggi gran parte degli incarichi di conciliare la controversia rimangono sprovvisti del riconoscimento di legge poiché i consulenti li ricevono nell'ambito del processo di cognizione dove tale attività è limitata agli incarichi di cui all'art. 198 c.p.c. Ma nelle prassi oramai in uso negli uffici giudiziari tale limitazione risulta superata con l'assegnazione nell'incarico al CTU di tentare la lite anche nei processi ordinari.
La conciliazione endoperitale nel quadro normativo

Con la riforma del processo civile, entrata in vigore il 1° marzo 2006, il legislatore introdusse nel codice di procedura l'art. 696-bis (Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite). L'articolo recepiva, nella sostanza, il contenuto dell'art. 49 della relazione della Commissione ministeriale presieduta dal prof. Romano Vaccarella nel 2001 e dislocato nella Sezione IV (Dei procedimenti di istruzione preventiva) del Capo III (Dei procedimenti cautelari), del Libro IV del Codice di rito, oltre a riconoscere al CTU funzioni conciliative in un campo amplissimo, prevede il tentativo di conciliazione in una procedura che risiede fuori dalla causa.

L'istituto contiene sostanzialmente due profili: l'uno di finalità conciliativa, originato dalla volontà di creare uno strumento deflattivo del contenzioso, consentendo alle parti di addivenire alla conciliazione sul nascere della controversia, l'altro con pura finalità cognitiva. Il contenuto di quest'ultimo non ha niente in comune con gli strumenti di natura cautelare, trattandosi di strumento più simile alla consulenza in corso di causa. Al consulente, infatti, non è demandata alcuna cognizione diretta sulla situazione controversa, cognizione dedotta dal giudice competente nella successiva controversia di merito. La dizione generica della norma, dall'inadempimento o inesatto adempimento sia di obbligazioni contrattuali che di generiche obbligazioni risarcitorie extracontrattuali, conferisce allo strumento un campo applicativo molto ampio. In tal senso non può sfuggire la versatilità che il legislatore ha voluto offrire alla prassi applicativa in relazione alla tutela giurisdizionale dei diritti. Pensiamo allora alle numerose controversie in materia contrattuale del settore edilizio – immobiliare di responsabilità civile professionale od altro ancora che affollano le aule dei nostri tribunali e dove assume un rilievo centrale, per la decisione giurisdizionale, il mezzo della consulenza tecnica.

Ecco quindi che la consulenza tecnica preventiva offre alle parti, in tempi che evidentemente sfuggono alla durata di un procedimento ordinario, lo spunto per una intesa oppure la possibilità di vedere ridimensionate o annullate le proprie pretese facendole quindi astenere dal ricorso ad un processo di cognizione, a quel punto, forse poco utile ed oneroso. Nel caso che la conciliazione riesca, il consulente deve formare un processo verbale di conciliazione che, depositato in cancelleria, viene inserito nel fascicolo di ufficio cui il giudice mediante proprio decreto, attraverso un controllo meramente formale sulla regolarità delle sottoscrizioni e sull'oggetto, attribuisce forma di efficacia esecutiva.

In tale senso si rafforzano gli effetti della conciliazione, non limitati a offrire titolo per una espropriazione, ma anche, ampliando l'ambito della tutela ed eliminando l'ulteriore ricorso al giudice di merito, per una esecuzione in forma specifica o per una iscrizione ipotecaria. È altresì da evidenziarsi l'esenzione, del processo verbale di conciliazione, dall'imposta di registro.

Nella ipotesi che invece la conciliazione abbia esiti negativi, il consulente deve provvedere al deposito della relazione peritale. Inoltre – è da osservare - come la norma non richiami l'applicazione dell'art. 200 c.p.c., come invece accade nel tentativo di conciliazione previsto dall'art. 198 c.p.c., cosicché il CTU non è tenuto a riportare le dichiarazioni delle parti che il giudice, in questi ultimi casi, può valutare a norma dell'art. 116 c.p.c. (valutazione delle prove), liberando quindi queste dal peso non trascurabile che le proprie dichiarazioni, atteggiamenti o condotte possano sfociare in valutazioni da parte dell'organo giudicante ampliando, così, le reali potenzialità dello strumento conciliativo.

In ordine al tentativo di conciliazione la norma prevede che «il consulente, prima di provvedere al deposito della relazione, tenta, ove possibile, la conciliazione delle parti», rimettendo quindi, nella sostanza, l'esercizio dell'esperimento ad una certa discrezionalità del consulente e all'accettazione delle parti.

Di lunga data è invece la presenza nel codice di procedura civile dell'esperimento di conciliazione in materia contabile previsto dall'art.198 c.p.c.

L'articolo, inserito nel Libro II – Del processo di cognizione – dell'istruzione probatoria, prevede la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione da parte del CTU, con espresso incarico attribuitogli dal giudice istruttore, nella consulenza che abbia ad oggetto esame di documenti contabili e registri e quindi in ambiti piuttosto ristretti.

Nel caso la controversia si esaurisca nell'accordo, il consulente, in conformità all'art.199 c.p.c. sottoscrive il processo verbale di conciliazione unitamente alle parti; il verbale deve essere depositato in cancelleria per dar modo al giudice di munirlo di efficacia di titolo esecutivo mediante decreto

Nell'ipotesi che invece il tentativo di conciliazione non riesca, il consulente, a norma dell'art.200 c.p.c., riporta i risultati delle indagini compiute, unitamente al suo parere, in una relazione depositata in cancelleria nel termine fissato dal giudice istruttore. Occorre osservare che, a norma dell'art. 116, comma 2, c.p.c., le dichiarazioni delle parti possono essere valutate dal giudice, nella propria autonomia, per contribuire a formare il proprio convincimento.

L'incarico conciliativo nelle prassi e le funzioni del consulente

Ma al di là delle previsioni normative, occorre osservare – come noto a tutti gli operatori –, che la realtà della prassi e delle pratiche diffusesi da tempo negli uffici giudiziari è ben diversa.

Oramai, anche complici l'endemica crisi di funzionamento della giustizia civile e la mole di fascicoli che i magistrati si trovano a dover gestire, i giudici affidano costantemente al proprio consulente il compito di conciliare la lite inserendo l'indicazione nel quesito, in un certo senso quindi “ritualizzando” l'attività; insomma, il diritto sostanziale riconosce ciò che il diritto formale non ha ancora previsto. Il riconoscimento quindi – pur privo di una “copertura” normativa – è un invito formale rivolto all'ausiliario ad esperire la conciliazione, da un lato recuperando quella “mission” storica del consulente ma dall'altro mutandone sostanzialmente gli approcci, gli strumenti e le modalità operative che il consulente moderno deve utilizzare.

Infatti l'obiettivo della conciliazione è di individuare non una soluzione “giusta” – questo è compito del giudice – quanto una soluzione “conveniente” per gli interessati. E ciò è possibile solo se dal piano dei diritti si passa al piano degli interessi, a questi sottostanti. La funzione del mediatore è in verità, – come osservato dal raffinato studioso Francesco Paolo Luiso – perfettamente equivalente a quella del catalizzatore nelle reazioni chimiche: i due elementi, che da soli non interagiscono, in presenza del terzo elemento (il catalizzatore) sviluppano la reazione, che porta alla formazione di un risultato, composto soltanto dai due elementi originari e non dal terzo (Francesco Paolo Luiso in presentazione volume “La Conciliazione nella CTU” – Frediani, Giuffrè, 2004). Così l'accordo delle parti trova fondamento esclusivamente nella loro volontà contrattuale, senza che il terzo, che pure ha determinato le condizioni per la realizzazione di quell'accordo, assuma alcun ruolo nella validità ed efficacia del contratto. Il fondamento contrattuale della conciliazione consente anche di cogliere il vantaggio più rilevante della risoluzione autonoma (negoziale) della controversia rispetto alla risoluzione eteronoma (arbitrale o giurisdizionale): il potere dispositivo, che solo le parti hanno e che non possono ovviamente avere né il giudice né l'arbitro, consente di dare un contenuto atipico al contratto, finanche facendo sì che oggetto dello stesso siano diritti diversi da quello controverso. La soluzione negoziale della controversia non sempre è possibile, ma, quando lo è, essa ha un valore tangibilmente superiore alla soluzione giurisdizionale o arbitrale.

Con il citato riconoscimento delle funzioni conciliative del consulente si attua nei fatti la volontà giurisdizionale di stimolare le parti verso la soluzione negoziata e, per il consulente, ad assumere quel delicato compito che come abbiamo già evidenziato e come ricorderemo è connotato da caratteri e riflessi operativi diversi rispetto a quelli tipicamente conosciuti dell'ausiliario del giudice.

Ma tutto questo – come già osservato – non può non passare dalla qualità del consulente.

Il CTU, anzitutto, deve considerare l'esperimento conciliativo come parte sostanziale del proprio incarico a cui dedicarsi con una formazione professionale adeguata e non come “compito estraneo”. Occorre comprendere che questa fase ha come obiettivo primario (tutt'altro che scontato e semplice) quello di far passare i confliggenti dall'ordine imposto a quello negoziato. L'obiettivo sarà infatti raggiunto se questi avranno abbandonato le dinamiche tipiche delle procedure avversariali a vantaggio di quelle non avversariali. Infatti impegnati a confrontarsi nella sede giurisdizionale, spogliandosi da qualsiasi responsabilità, i contendenti hanno demandato la propria volontà e le loro decisioni ad un terzo che deciderà sulla base delle norme; nell'ordine negoziato invece le parti debbono confrontarsi in termini cooperativi cercando in piena autonomia una soluzione basata sugli interessi e sulle reciproche convenienze piuttosto che sui diritti. Gli approcci sono totalmente diversi e se vogliamo contrapposti: si tratta di delineare per le parti regole comportamentali per il futuro piuttosto che stabilire e decidere su condotte del passato. In buona sostanza uno sguardo in avanti piuttosto che indietro.

Da queste poche regole che contraddistinguono le basi dell'intervento del consulente – conciliatore, si comprende benissimo come per chi impegnato nella causa questo percorso sia tutt'altro che semplice; deve essere il consulente tecnico di ufficio ad aiutare ad accedere a questa possibilità, offrendo conoscenze delle procedure, tempo per maturare consapevolezza accettando il mutamento di scenario ed i più efficaci ambiti di confronto e di discussione.

È importante allora per il consulente tecnico conoscere adeguatamente tutte le dinamiche e le metodologie; diventa indispensabile lavorare in modo cooperativo con i consulenti tecnici e soprattutto con i legali, sia sul piano normativo che su quello sostanziale, senza i quali alcuna attività conciliativa potrebbe avere luogo; tutto ciò nel precipuo indirizzo di connotare dell'indispensabile grado di condivisione, credibilità e concretezza tutta questa opera. Poi coinvolgere le parti in lite, che debbono partecipare direttamente agli incontri dedicati; queste, per quanto già osservato, impegnate in anni di causa giudiziaria assoggettate al tipico confronto avversariale hanno probabilmente perso la familiarità nel confrontarsi direttamente con la controparte.

Inoltre è molto importante costruire intorno all'opera conciliativa un clima di fiducia e serenità per far sentire i confliggenti nella migliore condizione per dare corso al confronto non permettendo, altresì, lo spostamento del dialogo sul piano personale (soggettivo) rispetto a quello del problema (oggettivo). Infatti le controversie quando si articolano intorno alle posizioni (su quello che le parti dicono di volere) rispetto agli interessi (quello che vogliono in realtà), è molto frequente che ci si limiti a considerare il piano personale poiché le parti hanno in questa l'unica visione della materia negoziabile. Dobbiamo inoltre valutare che il confronto sul piano delle posizioni non offre alcuna possibilità se non quella della transazione (dividere le quantità disponibili); quando anche si trovasse una soluzione dobbiamo tenere conto che questa intesa non produrrà mai un accordo soddisfacente perchè vi sarà sempre una parte che ha guadagnato a spese dell'altra. Per questo motivo è indispensabile per il CTU operare l'alveo della possibile intesa sulla base degli interessi e delle necessità delle parti e ciò attraverso una indagine capillare con domande, studi dei linguaggi non verbali e paraverbali, delle condotte delle parti, per identificare gli interessi all'origine della disputa ricercando anche quelli più nascosti ed impliciti; sapendo bene che in ogni conflitto esistono uno o più interessi che lo hanno originato e che, frequentemente, non sono quelli dichiarati dalle parti nei loro atti giudiziari.

In ultimo il CTU non deve cadere nella trappola (molto facile ed invitante) di sostituirsi nelle decisioni alle parti, rispettando invece la loro capacità di autodeterminazione. Occorre ricordare infatti che il consulente non deve mirare al raggiungimento di un accordo qualsiasi ma ad una intesa dal carattere duraturo, concreto, rispettato e condiviso, capace non solo di risolvere la lite ma di estinguere il conflitto.

L'impostazione operativa del tentativo di conciliazione del consulente tecnico di ufficio: le fasi di cognizione e di negoziazione

Per parlare in modo serio della conciliazione del consulente tecnico di ufficio non si può non trattare il tema di quale sia il momento migliore nel corso dell'incarico per collocare l'esperimento conciliativo.

Vi è una vasta casistica nella comunità dei consulenti tecnici che ritiene di collocare il tentativo di conciliazione della vertenza all'inizio delle proprie attività peritali. A far propendere verso questa impostazione vi è la questione del risparmio dei tempi e dei costi della procedura giudiziaria che cesserebbe immediatamente a seguito dell'accordo.

Questa impostazione invece – a parere di chi scrive – è sbagliata.

Nell'incarico peritale che voglia mirare ad un possibile accordo – secondo questo autore –, due sono le fasi nelle quali suddividere l'incarico giurisdizionale.

La prima, da definirsi fase di cognizione, consta in tutte le attivitàdemandate dal giudice che coincidono con il compimento delle operazioni connesse intimamente al ruolo di CTU., che potremmo sinteticamente inquadrare in quellepreviste dagli articoli 62 e 194 c.p.c.

La seconda, che potremmo definire fase di negoziazione, è quella del tentativo di conciliazione che si realizza mediante due indirizzi di attività:

- analisi e gestione del conflitto;

- gestione dei soggetti coinvolti;

La prima attività è quella di operare un'attenta e dettagliata analisi per poter valutare gli aspetti espliciti e impliciti della lite. Ciò viene dapprima operato sulla base degli elementi e dati che il consulente ha raccolto ed esaminato nella prima fase e successivamente mediante il dialogo, il confronto con i diversi attori del procedimento e la loro gestione. La seconda attività è invece indirizzata al rapporto con i legali, i consulenti tecnici e le parti al fine, da un lato, di stabilire la migliore forma di cooperazione e, dall'altro – nelle gestioni delle fasi dell'incontro di conciliazione di individuare gli aspetti più intimamente connessi e implicitamente legati alla genesi e allo sviluppo della lite.

Precisato questo, l'impegno indirizzato a ricercare la possibile soluzione della controversia è pertanto da attuarsi dal consulente solo dopo aver completato l'incarico nella fase di cognizione; ciò per tutta una serie di ragioni funzionali.

Una delle prime è legata senza dubbio alla possibilità per il consulente di avere piena cognizione delle questioni tecnico – giuridiche alla base della vertenza e quindi di disporre degli elementi di comprensione e conoscenza che sono funzionali anche alla successiva azione. Non dobbiamo dimenticare che pur svolgendo un'attività nella specie indirizzata alla conciliazione, per il CTU, sarà essenziale possedere tutti gli elementi di conoscenza e padronanza delle questioni anche nell'ottica di favorire una prospettiva diversa ed un “cambio di rotta” della lite alle parti.

L'altro motivo è connesso alle necessità per il CTU di preparare un terreno “fertile” all'esperimento. Invero il consulente può sfruttare i momenti sia della prima fas sia di quella successiva per stabilire una base di cooperazione con i professionisti delle parti e con le parti stesse. Questo elemento è decisamente richiesto dalla difficoltà che il consulente solitamente incontra nell'operare il tentativo di conciliazione in questo particolare ambito e connesse – sostanzialmente –, come già segnalato dal fare passare le parti dall'ordine imposto, all'ordine negoziato. È perciò da sconsigliarsi vivamente dare impulso al tentativo di conciliazione nella prima sessione peritale dove le parti non hanno in alcun modo né la preparazione né la consapevolezza piena dell'azione che il consulente sta stimolando.

Ulteriore ragione che fa propendere la scelta di collocare l'esperimento indirizzato all'intesa nella fase finale delle attività del consulente e prima della redazione della relazione peritale preliminare, è la necessità per questi, in un certo senso, di “dissociare” agli occhi delle parti il ruolo di CTU. da quello del conciliatore. Difatti, poter concentrare nella fase di cognizione lo svolgimento di ogni attività utile all'elaborazione della relazione peritale, comprendendo in essa lo sviluppo del confronto tecnico con i consulenti tecnici di parte e quello dell'assunzione delle motivazioni per la risposta al quesito, consente al consulente, non solo di poter completare rapidamente il proprio mandato con il deposito della relazione peritale nel caso di insuccesso del tentativo, quanto piuttosto, - nel momento successivo – di poter “svestire” (agli occhi dei contendenti nel procedimento) i panni del consulente tecnico per indossare quelli, certo assai meno confortevoli, del conciliatore. Tale dissociazione è finalizzata a rassicurare le parti che ogni attività compiuta dal consulente da quel momento non condizionerà né muterà gli esiti peritali e ad evitare che la discussione in quella sede possa spostarsi sulle conclusioni della consulenza tecnica e quindi sui torti e sulle ragioni, determinando condotte di difesa e di chiusura delle parti Esclusivamente con queste modalità operative, – crediamo – il consulente tecnico di ufficio possa presentarsi credibile di fronte agli occhi dei soggetti coinvolti e soddisfare presupposti che si configurano essenziali per lo sviluppo di un esperimento serio, professionale ed efficace.

Il modello di conciliazione

In relazione a quanto enunciato è importante dedicare le riflessioni conclusive di questo contributo al modello proposto per lo svolgimento dell'esperimento conciliativo da parte del consulente tecnico di ufficio. Sul tema – per la verità – non si segnalano studi o trattazioni specialistiche e molto è rinviato a prassi legate a comportamenti del tutto personali, frequentemente maturate da esperienze disancorate dal rispetto di metodologie efficaci nel contesto conflittuale.

D'altra parte – come abbiamo osservato – lo stesso CTU al pari di altri attori coinvolti soffre di una carenza culturale nelle procedure alternative e complementari compositive del conflitto. E d'altronde vi è una variegata casistica degli approcci e delle metodologie che accompagnano l'intervento dell'ausiliario giudiziario nell'azione conciliativa molte delle quali connotate da scarsa conoscenza delle dinamiche tipiche del conflitto e delle sue specifiche modalità di gestione.

Il modello qui proposto prende lo spunto dall'alveo delle metodologie facilitative di risoluzione delle liti. Queste considerano un conciliatore che supporta e stimola la comunicazione tra le parti favorendo lo scambio e la ricerca degli interessi alla base del conflitto, il tutto per consentire alle stesse non solo un dialogo costruttivo ma anche una introspezione guidata dei propri interessi e delle proprie necessità al fine di far individuare una soluzione di intesa soddisfacente. Insomma una soluzione sulle necessità e sugli interessi e non sulle pretese e sulle posizioni della lite

Il modello aggiudicativo (detto anche valutativo), invece, indirizza il conciliatore a valutare la fondatezza delle pretese delle parti, al fine di formulare una proposta il cui contenuto, ovviamente, viene parametrato sull'opinione che questi si è fatto circa le posizioni delle parti. Ciò determina il modo di atteggiarsi delle parti nel procedimento: ciascuna di esse porterà gli argomenti utili ad incidere sul giudizio, in modo da ottenere la proposta a lei più favorevole, e, correlativamente, il conciliatore ricercherà la soluzione giusta della controversia; la sua proposta si baserà sull'opinione, che egli si è fatto della fondatezza delle contrapposte posizioni delle parti.

Come ben si comprende il primo modello si pone in antitesi al secondo. Nel primo non è rilevante la fondatezza delle pretese, ma la soddisfazione degli interessi e delle necessità dei contendenti. I vantaggi fondamentali del modello di mediazione facilitativa sono proprio quelli di esaltare la atipicità propria della soluzione autonoma della controversia e nel far divenire l'accordo “frutto” ed elaborazione delle due parti. Per questo diviene rispettato e duraturo poiché la forza di quella intesa è data dalle parti stesse che vi riconoscono il migliore degli accordi possibili.

Non vi è dubbio che invece – come si osservava – molto diverse sono le idee di conciliazione legate all'intervento del consulente tecnico di ufficio, tuttavia tutte accomunate dall'idea che, in buona sostanza, questi debba suggerire (od in alcuni casi, peggio, imporre) gli elementi dell'accordo sulla base di una sua idea dell'accordo stesso.

Queste di fondo trovano proprio ispirazione nel modello aggiudicativo dove in definitiva – come già osservato – il conciliatore formula la “sua” proposta di accordo. D'altra parte, non si può fare a meno di osservare come a tale modello, pare volersi riferire anche il legislatore nel contenuto dell'art.696-bis c.p.c. Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite quando indica «prima del deposito della relazione peritale il consulente tenta – ove possibile – la conciliazione tra le parti» così lascando intendere come il consulente dovrebbe ispirarsi nell'azione conciliativa alle risultanze peritali. In tal senso la decisione sull'intesa verrebbe quindi a collocarsi nell'ambito delle decisioni tecniche assunte dal consulente e non tanto nella volontà delle parti, sempreché il CTU non sia così abile e preparato da condurre, in ogni caso, le parti a confrontarsi su tale piano a seguito di una completa indagine sui loro interessi e sulle loro necessità.

Anche se in linea generale il modello si allontana da quello più filosofico (forse integralista) della conciliazione, per chi fonda la propria esperienza quotidianamente nelle vicende giudiziarie, non può non osservare come nella pratica tale approccio, in diversi casi, presenti una propria utilità e debba perciò essere seguito.

Ciò in particolare nelle circostanze dove al consulente si richieda la determinazione o l'espressione di un dato puntuale. Non si può infatti non riconoscere che vi siano incarichi peritali dove il “dato”, il “numero” diventa essenziale per fornire l'elemento “terzo” ed il termine di riferimento alle parti che, altrimenti, rimarrebbero inesorabilmente ancorate alle proprie idee e pretese. Si pensi alla determinazione del confine tra due proprietà: come potrebbero le parti in contesa prendere in considerazione vantaggi e svantaggi o piuttosto studiare soluzioni alternative ed opzioni migliorative della propria idea, se prima il terzo non si esprimesse delineando i risultati delle indagini e precisando l'effettiva posizione del loro limite di proprietà?

Ma detto questo, pensare al consulente – conciliatore che fornisce il “numero”, non significa pensare necessariamente al modello di transazione: invero quell'elemento rappresenta nella sostanza la misura dalla quale si parte (potremmo dire il mezzo) ma, attenzione, non quella alla quale si arriva (il risultato)!

Ed è proprio questa la discriminante operativa che il consulente tecnico di ufficio deve comprendere pienamente: pur nel caso che egli sia costretto a (o desideri) formulare il “dato”, deve, immediatamente dopo spostare l'attenzione dei protagonisti ed il loro confronto sugli aspetti impliciti e nascosti, sulle questioni più intime della lite costituiti dagli interessi, dalle aspettative, dai timori e dai bisogni delle parti ampliando il dialogo ed offrendo una prospettazione diversa del conflitto. Il dato serve insomma quale elemento di partenza, (potremmo dire quale pretesto) per il conciliatore, ma non è quello (e non può essere quello) di arrivo. Si può anche iniziare con un “numero” ma il segreto del conciliatore non è “dividerlo” diminuendone la misura, ma “moltiplicarlo” per aumentarne la quantità. Diversamente il risultato raggiunto sarebbe una transazione (divisione delle quantità) e non una conciliazione (soddisfazione degli interessi): ci saremmo, in buona sostanza, limitati a risolvere la lite invece che estinguere il conflitto.

D'altra parte l'esperimento del consulente è da lui condotto e regolato, sia nella modulazione dei tempi che nella conduzione attraverso le migliori tecniche capaci di proporre un ambito operativo di efficacia e serenità ai soggetti coinvolti, avendo sempre cura di mettere al centro dell'attenzione quello che non si vede del conflitto piuttosto quello che è evidente agli occhi dei contendenti. In questo senso concludendo potremmo quindi dire principalmente la conciliazione del consulente tecnico di ufficio deve essere proposta e tentata in un ambito “neutro” ossia non condizionato in alcun modo dalle risultanze peritali, (giacché su di esso e sul suo operato conciliativo incombono proprio queste). Ma anche quando il consulente sia nelle condizioni ovvero ritenga di non poter evitare l'espressione del “dato” la condotta da tenere poi è quella che abbiamo esaminato.

Per tali motivi è quindi indispensabile affidare gli incarichi con finalità conciliative a soggetti formati e qualificati che siano in grado di mettere in atto un approccio privo di approssimazione o peggio ancora di superficialità e consentire alle parti di avere a disposizione lo svolgimento di un esperimento serio e professionale. D'altra parte, pur non avendo una propria struttura rituale, il tentativo di conciliazione nel corso di una consulenza tecnica deve rispondere a requisiti di funzionalità, efficacia e professionalità, condizioni di cui è garante il consulente tecnico.

In conclusione

Il consulente tecnico di ufficio svolge una funzione importante per il giudice fornendo la conoscenza specialistica indispensabile per consentire a questi di pervenire ad una decisione. Ma oggi l'opera dell'ausiliario si arricchisce di un valore ulteriore che potremmo definire sostanziale negli obiettivi che la giurisdizione assegna, sia nell'alveo della procedura art. 696-bis c,p.c. sia attraverso le prassi affermatisi negli uffici giudiziari.

Tutto questo comporta per il consulente di essere preparato a proporre e gestire una fase particolare e complessa per condurre le parti dall'ordine imposto all'ordine negoziato, dal piano dei diritti al piano degli interessi, per conseguire un risultato conciliativo condiviso, duraturo e rispettato. Facendo così non solo gli interessi dei contendenti ma anche quello della pubblica giurisdizione che da tempo ha posto la deflazione del carico giudiziario al centro di tutte le iniziative di riforma del processo degli ultimi decenni.

Riferimenti

Frediani, La conciliazione del consulente tecnico di ufficio, Giuffrè, 2015.

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