Diritto di recesso nella s.p.a.

Cristina Papadimitriu
Cristina Papadimitriu
07 Ottobre 2020

La definizione dei “confini” del recesso appare fondamentale per comprendere il ruolo dell'istituto. La ricostruzione del ruolo del diritto di recesso nell'ambito degli strumenti di tutela attribuiti al socio richiede che vengano definiti il perimetro dell'istituto e la portata dei diritti patrimoniali del recedente, i quali hanno un rilievo fondamentale nella sistemazione della materia e costituiscono gli aspetti più rilevanti per valutarne la funzione nella dinamica delle società azionarie.
Inquadramento

La definizione dei “confini” del recesso appare fondamentale per comprendere il ruolo dell'istituto. È evidente che i ristretti margini del diritto di exit nella disciplina originaria del codice civile ridimensionavano il ruolo dello stesso nell'ambito degli strumenti di tutela dell'azionista e la possibilità che il recesso consentisse al socio di monetizzare il proprio investimento assumeva un ruolo estremamente limitato, circoscritto ad ipotesi eccezionali.

Diversamente, l'ampio novero di fattispecie di recesso previste dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 rende indispensabile definire i confini dell'istituto, allo scopo di verificare la nuova portata che lo stesso assume in relazione all'alienazione quale strumento per ottenere il valore della partecipazione.

Pertanto, la ricostruzione del ruolo del diritto di recesso nell'ambito degli strumenti di tutela attribuiti al socio richiede che vengano definiti il perimetro dell'istituto e la portata dei diritti patrimoniali del recedente, i quali hanno un rilievo fondamentale nella sistemazione della materia e costituiscono gli aspetti più rilevanti per valutarne la funzione nella dinamica delle società azionarie.

Al riguardo, continuano a sussistere dubbi sul significato delle fattispecie legali di exit nonché sull'autonomia statutaria alla quale la nuova disciplina, innovando rispetto alla regolamentazione precedente (Belviso, Le modificazioni dell'atto costitutivo nelle società per azioni, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, 17, Torino, 1985, 86 e ss..), attribuisce espressamente il potere di individuare ulteriori cause in cui è consentito uscire dalla compagine sociale (Di Cataldo, Società a responsabilità limitata e autonomia statutaria. Un regalo poco utilizzato e forse poco utile. Il diritto delle società oggi. Innovazioni e persistenze. Studi in onore di Giuseppe Zanarone, diretto da Benazzo, Cera e Patriarca, Milanofiori, Assago, 2011, 295 e ss..).

Per altro verso, vi sono ancora molti punti oscuri sulla portata della nuova regolamentazione dei diritti patrimoniali del recedente, che dovrebbero garantire al socio di percepire il valore reale della propria partecipazione, modificando la disciplina del codice civile, che ancorava la quota di liquidazione ai valori di bilancio, quasi sempre penalizzanti per l'azionista (Paciello, Commento all'art. 437 ter c.c., in Società di capitali, Commentario, a cura di Niccolini e Stagno d'Alcontres, Napoli, 2004, 1129).

Si tratta di questioni, ancora incerte, relative ad aspetti centrali e che contribuiscono ad incrementare i conflitti in relazione a vicende estremamente delicate sia per la sistemazione dei rapporti tra i soci, sia per la stessa sopravvivenza dell'impresa.

In considerazione di ciò, è necessario precisare come l'indagine debba essere condotta seguendo due direttrici fondamentali, che presentano tra l'altro diversi punti di contatto.

La prima è quella della precisazione del significato delle ipotesi di recesso ex lege e dei confini dell'autonomia statutaria nella disciplina comune a tutte le società azionarie. In primo luogo, si tratta di evidenziare le problematiche che riguardano le fattispecie legali, le quali sollevano ancora non pochi dubbi (Ghionni Crivelli Visconti, Modifica statutaria dei quozienti assembleari di s.p.a. ed insussistenza del recesso per mutamento dei diritti di voto o di partecipazione, in Banca, borsa, tit. cred., 2018, II, 157).

Sotto altro profilo, l'esplicito riconoscimento della possibilità di ulteriori cause di exit nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, rende necessario precisare i confini dell'autonomia statutaria. In particolare, quest'ultimo aspetto appare fondamentale se si considera che l'attribuzione di ampi margini nella predisposizione di ulteriori fattispecie può consentire di liquidare il proprio investimento anche in situazioni in cui non sia reperibile un acquirente delle partecipazioni sociali.

In questa prospettiva, soprattutto in società chiuse, in cui i soci preesistenti non siano disposti ad aumentare il proprio investimento, il recesso potrebbe rappresentare una forma molto frequente di monetizzazione del valore delle azioni, in presenza del verificarsi di determinate circostanze.

Ma è anche vero che, mediante l'esercizio del diritto di exit, può essere messa a rischio la continuità di piccole realtà produttive in cui, da una parte, la capitalizzazione è minore, dall'altra, la percentuale di partecipazione di singoli soci al capitale è più elevata.

La seconda direttiva che bisogna percorrere riguarda il recesso nelle società sottoposte a direzione e coordinamento, in relazione al quale continuano a sussistere questioni non ancora risolte sulla portata delle fattispecie legittimanti, la cui soluzione è spesso difficile a causa del fatto che non sempre il presupposto del diritto di exit deriva da una delibera assembleare ma, in alcuni casi, è ancorato a decisioni dell'autorità giudiziaria, oppure si verifica all'esisto di operazioni economiche poste in essere da terzi.

Sempre nella stessa direzione, risulta fondamentale valutare il ruolo ed i limiti dell'autonomia statutaria nella previsione di ulteriori fattispecie di recesso del socio di società eterodiretta, atteso che la regola dell'applicazione delle disposizioni previste per il recesso del socio nelle s.p.a. in quanto compatibili non sembra escludere un intervento volto alla predisposizione di altre fattispecie. È facile comprendere come solo in seguito ad una ricostruzione complessiva di tali categorie di ipotesi di recesso si possa valutare l'efficacia dell'istituto, quale strumento di tutela dei soci.

Infatti, bisogna sottolineare che, nella realtà economica, le intersezioni tra la disciplina generale del recesso dell'azionista e quella relativa alle società eterodirette sono molteplici.

Ad esempio, in occasione di operazioni di ristrutturazione, possono essere decise modifiche statutarie riguardanti sia la società al vertice del gruppo, che quella dominante, verificandosi in tal modo più vicende legittimanti l'exit.

Le fattispecie legali ex art. 2437, comma 1, c.c.

Acquisito che la ricostruzione del diritto di recesso richiede l'analisi della funzione dell'istituto, risulta necessario e imprescindibile precisare le norme da prendere in considerazione. Infatti, la ricostruzione del socio uscente richiede di precisare l'estensione delle fattispecie in cui è consentita l'uscita dalla compagine sociale.

La normativa introdotta con la riforma, con radicale mutamento di prospettiva rispetto alla disciplina previgente, prevede sette ipotesi di exit comuni a tutte le società per azioni, che non possono essere escluse da una diversa previsione dello statuto (art. 2437, comma 1, c.c.).

A queste si aggiungono il recesso ad nutum, attribuito nelle ipotesi delle società a tempo indeterminato (art. 2437, comma 3, c.c.), nonché due casi in cui il diritto di recedere sussiste a meno di una diversa disposizione dell'atto costitutivo: proroga del termine della società ed introduzione e rimozione dei vincoli alla circolazione dei titoli azionari (art. 2437, comma 2, c.c.). Di fronte a tale quadro normativo, non risulta semplice individuare un fondamento comune delle diverse cause.

In primo luogo, appare opportuno esaminare le cause previste dal testo originario dell'art. 2437 c.c. Al riguardo, è facile constatare che la nuova regolamentazione precisa i relativi presupposti in caso di cambiamento dell'oggetto sociale e di trasformazione, mentre conferma l'ipotesi di trasferimento della sede della società all'estero. Sotto il primo profilo, è stabilito che la modifica dell'oggetto sociale legittima il disinvestimento solo qualora consenta un cambiamento significativo dell'attività della società (Callegari, Commento all'art. 2437 c.c., in Il nuovo diritto societario, diretto da Cottino, Bonfante, Cagnasso e Montalenti, II, Bologna, 2004); mutamento che non deve comportare necessariamente un aggravamento, ma può consistere anche in una diminuzione dello stesso (Di Cataldo, Il recesso del socio di società per azioni, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, III, Torino, 2007, 227).

In continuità con la disciplina previgente, è riconosciuto il diritto di exit nell'ipotesi di trasformazione e di trasferimento della sede all'estero che, determinando l'applicazione di una diversa disciplina, vengono considerate modifiche importanti delle condizioni di investimento. È agevole rilevare come, in tali fattispecie, la funzione dell'istituto continui ad essere quella di necessario contrappeso al potere della maggioranza. Il riconoscimento della facoltà di uscire dalla compagine sociale rappresenta, infatti, il rimedio attribuito ai soci di minoranza di fronte ad operazioni che incidono in modo consistente sulla loro posizione; né si evidenziano nel dibattito precedente la riforma delle società di capitali elementi che conducano a sostenere una modifica della funzione del recesso rispetto alla disciplina precedente.

Detto ciò, è d'obbligo verificare se tale finalità possa essere intravista anche nelle ulteriori fattispecie introdotte nel 2003. In questa prospettiva, si rileva che pure l'attribuzione del diritto di recesso in seguito alla revoca dello stato di liquidazione può essere ricondotta nell'alveo dei contrappesi ai poteri della maggioranza.

Le considerazioni sin qui svolte sono confermate dall'analisi di altre fattispecie previste dall'art. 2437 c.c., quali l'eliminazione di una o più ipotesi di recesso e la modifica dei criteri di determinazione del valore delle azioni. Il diritto di exit nel caso di soppressione di una o più cause previste dall'art. 2437, comma 2, c.c., oppure di cause statutarie di recesso, costituisce un necessario completamento della disciplina, allo scopo di proteggere il socio di minoranza di fronte ad una decisione della maggioranza capace di incidere sull'estensione degli strumenti di tutela predisposti in suo favore. Invece, l'attribuzione del diritto di recesso nel caso di modifica dei criteri di determinazione del valore delle azioni (art. 2437, comma 1, lett.f, c.c.) rappresenta un presidio fondamentale a tutela del socio che, in caso contrario, potrebbe veder leso il contenuto economico del proprio diritto.

In definitiva, le previsioni che consentono l'uscita nel caso di eliminazione di una o più cause di exit [art. 2437, comma 1, lett. e), c.c.] e di modifica dei criteri di determinazione del valore delle azioni in caso di recesso [art. 2437, comma 1, lett.f), c.c.] non assumono un autonomo rilievo nella determinazione della funzione dell'istituto. Esse rappresentano infatti tecniche poste a tutela del recedente, al fine di evitare i riflessi di decisioni lesive della sua posizione.

La modificazione dei diritti di voto e di partecipazione

L'individuazione della funzione della fattispecie indicata dall'art. 2437, comma 1, lett. g), c.c. si presenta non agevole, attesa la poca chiarezza della formulazione della disposizione, che si presta a molteplici interpretazioni.

Innanzitutto, che alla base di questa ipotesi di recesso vi sia un obiettivo di tutela della minoranza depone la considerazione che la possibilità di uscire dalla compagine sociale è attribuita in seguito a modifiche dei diritti di voto, vale a dire del principale strumento concesso all'azionista per esprimere la propria volontà in ambito societario (Angelici, La società per azione, Principi e problemi, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2012).

Pertanto, prescindendo dalle problematiche riguardanti il significato dell'espressione “diritti di partecipazione” ed, in particolare, dalla questione se la facoltà di exit debba essere riconosciuta solo nel caso di modifiche statutarie con cui si incide sulla partecipazione ai risultati economici, oppure possa essere ammessa anche nell'ipotesi di introduzione di una nuova regolamentazione dei diritti amministrativi diversi dal voto, risulta evidente come, alla base di tale causa, vi sia la finalità di tutelare i soci di minoranza che non hanno concorso ad una determinata decisione.

Ciò che innanzitutto conta, ai fini dell'analisi del fondamento, è che, in tale fattispecie, il recesso risulta attribuito in seguito ad un deliberato cui non segue una variazione del rischio di impresa, quanto una diversa disciplina delle facoltà con cui l'azionista tutela la sua posizione; dunque, sembra essere confermato, anche in questo caso, il fine di tutela della minoranza. Acquisito che tale finalità è alla base anche dell'ipotesi di cui alla lettera g dell'art. 2437, comma 1, c.c., è necessario precisare l'estensione di tale funzione.

In questa direzione, è, in primo luogo, utile verificare se questo scopo acquisti rilievo anche in presenza di delibere che incidano solo indirettamente sulla posizione del socio o sia limitata alla circostanza in cui la decisione assembleare determini in modo specifico una differente regolamentazione dei diritti dell'azionista (Piscitello, Recesso organizzativo e diritti patrimoniali del socio uscente nelle s.p.a., Torino, 2018, 74 e ss.).

Sotto altro aspetto, va precisato che il contenuto precettivo della norma non permette di ravvisare la funzione di tutela della minoranza anche nelle ipotesi di modifiche dei diritti di voto e partecipazione relative ad altre categorie di azioni, che solo indirettamente incidono sulla posizione del recedente, come avviene nell'eventualità in cui venga deciso un aumento del dividendo privilegiato spettante solo ai possessori di azioni speciali.

In considerazione di quanto appena rilevato, la funzione di tutela della minoranza alla base di tale ipotesi di recesso non sembra trovare riconoscimento di fronte a cambiamenti che incidono solo indirettamente sulla posizione del singolo. È vero che una nuova regolamentazione dei diritti incorporati nelle azioni speciali può pregiudicare gli altri soci, ma, in questo caso, si è davanti ad una circostanza comune ad altre modifiche statutarie in presenza delle quali, in considerazione degli effetti solo indiretti sui diritti di partecipazione, non sembrano verificarsi le ragioni di tutela della minoranza alla base dell'art. 2437, comma 1, lett. g) c.c..

Non si può nemmeno trascurare che all'eventuale attribuzione del diritto di exit nelle ipotesi di modifiche indirette conseguirebbe una' ingiustificata moltiplicazione delle ipotesi in cui è consentita l'uscita dalla società, in contraddizione con il principio di tassatività delle cause di recesso e con l'esigenza di evitare che qualunque modifica statutaria idonea a produrre effetti sulla posizione del socio possa costituirne presupposto (Stella Richter jr., Parere sul punto g) dell'art. 2437 cod. civ. (e su altre questioni meno misteriose), Riv. Not., 2017, 394).

Inoltre, anche l'interpretazione teleologica della disposizione induce a circoscrivere il diritto di uscire dalla compagine societaria alle sole modifiche che riguardano strictu sensu la posizione dei soci, escludendo le decisioni con cui si procede ad una diversa regolamentazione degli assetti organizzativi della società (Cariello, Il sistema dualistico, Torino, 2012).

Da un altro punto di vista, bisogna sottolineare che, qualora si adottasse un'interpretazione volta a ricomprendere le modifiche indirette della posizione dell'azionista, si introdurrebbero ulteriori margini di incertezza nell'individuazione dei presupposti del recesso (Angelici, Sull'art. 2437, primo comma, lettera g) del c.c., Riv. Not., 2014, 870), con un conseguente aumento del contenzioso sull'esistenza delle fattispecie legittimanti l'exit.

Pertanto, appare ragionevole ritenere che la funzione di tutela della minoranza alla base di tale fattispecie non possa estendersi anche nell'ipotesi in cui le delibere assembleari si riflettano solo indirettamente sui diritti di voto e partecipazione (Cariello, Il sistema dualistico. Vincoli tipologici ed autonomia statutaria, Milano, 2009, 14 e ss.). Né tantomeno sembra che, a favore di una diversa soluzione, possa essere invocata la formulazione letterale della norma, là dove afferma che il recesso è riconosciuto a fronte delle "modificazioni concernenti i diritti di voto o di partecipazione" e non delle "modificazioni dei diritti di voto e di partecipazione" (Abu Awwad, I "diritti di voto e di partecipazione" fra recesso e assemblee speciali, Banca, borsa, tit. cred.,2009, I, 329).

A tale riguardo, è opportuno segnalare la sentenza della Suprema Corte n.13845 del 22 maggio 2019, con la quale afferma il principio di diritto secondo il quale, “in tema di recesso dalla società di capitali, nonostante sia pacifica l'interpretazione restrittiva dell'art. 2437, lett. g) c.c., la modifica di una clausola statutaria che incida direttamente sulla distribuzione degli utili e influenzi in negativo i diritti patrimoniali dei soci prevedendo l'abbattimento della percentuale ammissibile di distribuzione dell'utile di esercizio in considerazione dell'aumento della percentuale da destinare a riserva, giustifica il diritto di recesso dei soci di minoranza”.

Per concludere sul punto, la previsione con cui si attribuisce il diritto di exit in caso di modifica diretta dei diritti di voto e di partecipazione ex art. 2437, comma 1, lett. g) c.c. risponde all'obiettivo di tutela del socio di minoranza, analogamente ad altre fattispecie ineliminabili di recesso, in cui è possibile per il socio uscire dalla società, senza valutare a priori se tali modifiche siano o meno vantaggiose per il singolo.

Le fattispecie di recesso nelle società eterodirette

Il discorso sin qui svolto merita di essere integrato con l'analisi del recesso del socio di società eterodiretta. Infatti, la verifica dell'idoneità dell'istituto quale strumento di tutela dell'azionista non può prescindere da una tale indagine se si tiene conto che, in queste ipotesi, la posizione del socio può essere pregiudicata da vicende riguardanti la società dominante, rispetto alle quali l'azionista di società eterodiretta non può avvalersi della disciplina degli artt. 2437 ss. c.c..

Peraltro, è possibile rilevare come nelle società sottoposte a direzione e coordinamento la definizione dell'area di applicazione dell'istituto sia ancora più rilevante di quanto avviene in quelle monadi, poichè rappresenta uno dei pochi rimedi concessi all'azionista di società eterodiretta per la tutela dei propri interessi di fronte alle vicende della dominante. Infatti, il recesso costituisce insieme all'esercizio dell'azione di responsabilità ex art. 2497 c.c. uno dei mezzi attribuiti all'azionista di società eterodiretta per la tutela della propria posizione sociale; rimedio che, tuttavia, a differenza delle azioni risarcitorie non richiede né i costi, né i tempi lunghi di un giudizio.

A tale riguardo, risultano controversi i presupposti del diritto di recesso dell'azionista di società eterodiretta nell'ipotesi in cui esercita l'attività di direzione e coordinamento deliberi il mutamento dell'oggetto sociale, consentendo attività che alterino in modo sensibile e diretto le condizioni economiche e patrimoniali della società dominata. È in primo luogo discusso se il tenore letterale della norma possa indurre a limitare la sfera di applicazione del diritto di exit alle sole ipotesi di ampliamento dell'oggetto (Callegari, Commento all'art. 2497 quater c.c., Il nuovo diritto societario. Commentario, diretto da Cottino, Bonfante, Cagnasso e Montalenti, III, Bologna, 2004, 2209), oppure sia preferibile un'interpretazione estensiva della norma, sul presupposto che, anche la restrizione del medesimo, può avere un riflesso rilevante sulle condizioni economico patrimoniali della società dominata (Brodasca, Commento all'art. 2497 quater c.c., Codice commentato delle s.p.a., diretto da Fauceglia e Schiano di Pepe, Torino, 2007, 1649).

Sotto altro aspetto, non è agevole stabilire se la fattispecie legittimante si esaurisca nella modifica statutaria o presupponga una verifica delle conseguenze pregiudizievoli della stessa sul patrimonio della società eterodiretta e sia, pertanto, necessario l'accertamento dell'alterazione della situazione della società figlia (Paciello, Appunti per uno studio del recesso dal gruppo, in Scritti in onore di Vincenzo Buonocore, III, Milano, 2005, 3299), con la naturale conseguenza di dilatare notevolmente i tempi di esercizio della facoltà di uscire dalla compagine sociale.

Il complesso intreccio degli interessi in gioco e l'equivoca formulazione delle norme hanno determinato incertezza anche con riferimento ai presupposti del recesso in caso di abuso dell'attività di direzione e coordinamento, in relazione alla quale è controverso se lo stesso possa essere esercitato dal socio solo quando abbia ottenuto una sentenza di condanna della società dominante, oppure anche in quelle ipotesi in cui sia stato soddisfatto in via pregiudiziale dalla eterodiretta ai sensi dell'art. 2497, comma 3, c.c. La circostanza che il contenuto precettivo dell'art. 2497 quater, comma 1, lett. b). c.c. richiede espressamente una sentenza di condanna ha condotto a ritenere che la facoltà di recesso non sussiste quando si è giunti ad un provvedimenti dell'autorità giudiziaria (Pennisi, La disciplina delle società a direzione unitaria, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, III, Torino, 2007, 887). Per contro, la preoccupazione che l'esclusione del diritto di recesso possa favorire manovre della società dominante con lo scopo di paralizzarne l'esercizio è alla base della tesi della permanenza dell'exit pure nel caso in cui il pregiudizio sia stato risarcito (Valzer, Le responsabilità da direzione e coordinamento di società, Torino, 2011, 59 e ss..).

Inoltre, è controverso se il diritto di uscita possa essere riconosciuto anche nell'ipotesi di mero mutamento del soggetto che svolge l'attività di direzione e coordinamento. Il cuore delle argomentazioni dell'orientamento a favore della sussistenza del diritto di exit può essere colto nel fatto che anche il cambiamento del soggetto al vertice del gruppo comporta una variazione delle condizioni di rischio dell'investimento al pari dell'inizio o della cessazione dell'eterodirezione, atteso che a tale modifica possono seguire nuove politiche di gruppo capaci di riflettersi sulla posizione dei soci di minoranza delle società dominate (Annunziata, Commento all'art. 2497 quater c.c., in Direzione e coordinamento di società, a cura di Sbisà, in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti, Bianchi, Milano, 2012, 278).

In questa prospettiva, si ritiene che il riconoscimento del diritto di recesso può garantire al socio la realizzazione del valore dell'investimento sul presupposto che il cambiamento del soggetto al vertice costituisce un fattore in grado di condizionare le prospettive di remunerazione (Ferri jr.-Guizzi, In tema di recesso ex art. 2497 quater, lett. c) c.c., in Società, 2014, 43) e consentire altresì ai soci di minoranza titolari di una partecipazione consistente di entrare nelle trattative per la cessione del pacchetto di controllo, in quanto l'uscita potrebbe modificare significativamente la convenienza economica dell'operazione per l'acquirente (Pavone La Rosa, Nuovi profili della disciplina dei gruppi di società, in Riv. Soc., 2003, 777). Pertanto, la facoltà di disinvestire concessa al socio di minoranza rappresenterebbe una tutela nei confronti di strategie aziendali che, alterando le posizioni di rischio, siano in grado di pregiudicare il suo investimento, così il recesso si presenta come la tecnica utilizzata dal legislatore per ottimizzare il mercato della proprietà delle imprese appartenenti al gruppo.

La funzione del recesso del socio di società sottoposta a direzione e coordinamento

Seguendo la prospettiva di indagine delineata, è necessario analizzare le ragioni sottese all'attribuzione del diritto di recesso ai soci delle società sottoposte a direzione e coordinamento, ricostruendo la funzione delle diverse ipotesi disciplinate dall'art. 2497 quater c.c..

Si tratta di una tematica che, per il suo rilievo centrale nell'ambito della regolamentazione dei gruppi di società, ha formato oggetto di vivaci discussioni. Tuttavia, per verificare l'incidenza di tale disciplina sull'individuazione delle fattispecie di recesso nonché i confini dell'autonomia statutaria nella predisposizione delle clausole convenzionali è sufficiente analizzare le ragioni alla base delle previsioni con cui si consente il diritto di exit del socio di società eterodiretta.

Se, per un verso, l'elemento comune delle diverse ipotesi di recesso dell'azionista di società controllata può essere colto nella modifica delle condizioni di rischio del proprio investimento, vi sono state anche ricostruzioni che hanno focalizzato l'attenzione sui caratteri differenziali delle stesse e, in particolare, sulle peculiarità dell'exit attribuito in seguito ad una sentenza di condanna per abuso di direzione e coordinamento (art. 2498 quater, comma 1, lett. b) c.c.). Pertanto, risulta fondamentale analizzare brevemente le differenti cause, per ricostruire la ratio delle stesse e accertare se possono essere ricondotte ad un fondamento comune.

In primo luogo, va esaminata la previsione con cui si consente l'uscita volontaria nel caso di cambiamento della natura giuridica dell'ente che esercita l'attività di direzione e coordinamento (art. 2497 quater, comma 1, lett. a, prima parte, c.c.). Al riguardo, non c'è alcun dubbio che, quando viene modificato lo scopo mutualistico o lucrativo della capogruppo, si realizza, mediante un effetto a cascata, una variazione delle condizioni di rischio dell'investimento nelle società eterodirette. Il mutamento dello scopo della holding si riflette, infatti, sulla posizione dei soci e la modifica del profilo di rischio, che si deve considerare esistente in re ipsa in seguito al cambiamento del fine (Pasquariello, Il recesso nei gruppi di società, Padova, 2008). È del resto chiaro che tale cambiamento produce i suoi effetti sulle società eterodirette e, in particolare, sul valore e sulla redditività delle partecipazioni.

Il diritto di recesso è inoltre riconosciuto al socio di società dominata nell'ipotesi in cui la holding deliberi la modifica dell'oggetto sociale, permettendo l'esercizio di attività che alterino in modo sensibile e diretto le condizioni economiche e patrimoniali della società eterodiretta ( art. 2497 quater, comma 1, lett. a, seconda parte, c.c.). Anche in questo caso, il diritto di exit viene attribuito, poiché la modifica statutaria può determinare una serie di conseguenze a catena, che incidono sulle condizioni di rischio dell'investimento degli azionisti della società figlia.

Peraltro, la modifica dell'oggetto sociale della holding consente l'esercizio di attività in grado di influire sulla situazione della società eterodiretta ed il recesso rappresenta un rimedio preventivo che è finalizzato a neutralizzare i pregiudizi di una determinata operazione societaria o di un'attività con oggetto diverso da quello stabilito in precedenza.

In conclusione, nelle fattispecie disciplinate dall'art. 2497 quater, comma 1, lett. a), c.c. il diritto di recesso è attribuito in conseguenza del mutamento, anche solo potenziale, delle condizioni economiche e patrimoniali dell'investimento effettuato nella società eterodiretta, intendendosi per condizioni economiche un'alterazione dei costi e dei ricavi e, quindi, del risultato del conto economico degli esercizi futuri e, per quelle patrimoniali, una variazione del patrimonio della società (Pennisi, La disciplina delle società a direzione unitaria, Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, III, Torino, 2007, 887).

Le ulteriori fattispecie di recesso nelle società eterodirette

Per completare la presente analisi, è necessario indagare le ulteriori fattispecie di recesso disciplinate dall'art. 2497 quater c.c.. In quest'ottica di indagine, è fondamentale esaminare l'exit a favore del socio che abbia ottenuto una condanna di risarcimento dei danni determinati dall'abuso nell'attività di direzione e coordinamento (art. 2497 quater, comma 1, lett. b) c.c.). Se è vero che questa fattispecie di uscita dalla compagine sociale non si verifica spesso, attese le notevoli difficoltà di provare i danni derivanti dalla violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale, (Ventoruzzo, Recesso e valore della partecipazione nelle società di capitali, Milano, 2012) è anche vero che l'analisi della ratio posta alla base di tale disciplina può rivelarsi di grande aiuto allo scopo di ricostruire le ragioni che giustificano l'istituto.

La considerazione che il diritto di exit è attribuito solo in seguito ad una condanna esecutiva al risarcimento dei danni determinati da un comportamento illegittimo ha condotto alcuni interpreti a concentrare l'attenzione sul carattere sanzionatorio di tale ipotesi di recesso (sul punto, Cariello, Commento all'art. 2497 quater c.c., in Società di capitali, Commentario, a cura di Niccolini e Stagno d'Alcontres, Napoli, 2004). Per contro, si è affermato che la norma svolge solo di riflesso una funzione punitiva e, dunque, di deterrente degli abusi, così, anche in questo caso, il fondamento del diritto di recesso può essere colto nella protezione dalle conseguenze della modifica delle condizioni dell'investimento. Nello specifico, il tratto differenziale rispetto alle altre fattispecie ex art. 2497 quater, comma 1, c.c. starebbe nel fatto che tale mutamento si è già concretizzato, essendo stato determinato dagli abusi che hanno portato alla condanna. È chiaro che le caratteristiche della fattispecie e, soprattutto, la circostanza che, in questa ipotesi, il diritto di exit è attribuito solo successivamente all'accertamento giudiziale di un abuso sembrano indicare come le ragioni di tale previsione non possano essere colte in una semplice variazione delle condizioni economiche dell'investimento nella società eterodiretta. A tale riguardo, l'espresso divieto di recesso parziale mostra come la finalità dell'istituto, quale strumento di composizione dei conflitti tra i soci, si affianchi a quella di tecnica di smobilizzo, in presenza di un'alterazione delle condizioni esistenti al momento dell'ingresso in società (si veda, Rosapepe, Modificazioni statutarie e recesso, in Diritto delle società. Manuale breve, Milano, 2012, 419).

Infatti, il recesso parziale costituisce uno strumento destinato a soddisfare un'esigenza di diversificazione del rischio dei soci mediante cui esplica la sua funzione di disinvestimento.

È vero che il diritto di recesso parziale appare strettamente collegato con la necessità di far valere interamente la lesione ai fini del risarcimento del danno, ma è altrettanto vero che, sotto il profilo della dialettica endosocietaria, tale previsione è volta ad evitare che il socio in dissidio con il gruppo di comando mantenga una partecipazione con finalità ostruzionistiche allo scopo di ostacolare l'attività del management della capogruppo. Ed invero, la subordinazione dell'esercizio del diritto di uscita alla dismissione dell'intera partecipazione rivela come si sia perseguito l'obiettivo di evitare la permanenza all'interno della società di un socio di minoranza con cui si è creata un'insanabile situazione di contrasto, pertanto le ragioni che fondano tale facoltà possono rinvenirsi anche nell'impatto che la condanna per abusi dell'attività di direzione e coordinamento ha sul fisiologico svolgersi dei rapporti societari (in questi termini, Annunziata, Commento all'art. 2497 quater c.c., in Direzione e coordinamento di società, a cura di Sbisà, Commentario alla riforma delle società di capitali, diretto da P. Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari, Milano, 2012).

Per concludere sul punto, la previsione del recesso successivo all'esercizio vittorioso dell'azione per abuso di direzione e coordinamento pare essere il frutto di un bilanciamento tra interessi diversi, quali la tutela del diritto al disinvestimento dei soci di minoranza, la sanzione di comportamenti pregiudizievoli accertati dall'autorità giudiziale e l'obiettivo di evitare condotte ostruzionistiche. In considerazione di ciò, appare ragionevole ritenere che l'istituto abbia un fondamento molteplice e costituisca, al contempo, uno strumento di disinvestimento concesso al socio di minoranza in presenza di abusi già oggetto di accertamento in giudizio, una sanzione volta a disincentivare azioni pregiudizievoli nell'attività di direzione e coordinamento, nonché una tecnica di risoluzione dei conflitti endosocietari in presenza di dissidi tra i soci.

Infine, l'ultimo aspetto cui bisogna accennare è quello relativo al diritto di recesso nel caso di cessazione dell'attività di direzione e coordinamento, quando comporti un'alterazione delle condizioni di rischio e non si tratti di società con azioni quotate nei mercati regolamentati, né è stata proposta un'offerta pubblica di acquisto ( art. 2497 quater,comma 1, lett.c, c.c.).

Se, da un lato, l'appartenenza ad un gruppo può consentire di sfruttare economie di scala, di fruire di sistemi di tesoreria accentrata, di garanzie intragruppo e di altri vantaggi che sono certamente capaci di incidere favorevolmente sulla posizione dei soci (in argomento, Daccò, Il recesso nelle s.p.a., in Le nuove s.p.a., a cura di Cagnasso e Panzani, Bologna, 2010, 1418); dall'altro, le politiche di gruppo possono comportare un sacrificio degli interessi di alcune delle società eterodirette e condurre, infine, ad una diminuzione del valore della partecipazione degli azionisti di minoranza delle stesse. È infatti ragionevole considerare che chi esercita attività di direzione e coordinamento assuma decisioni volte a massimizzare il valore dell'intero gruppo, che possono a volte essere in contrasto con le ragioni dei soci esterni (Gilotta, Diritto di recesso che consegue all'inizio dell'attività di direzione e coordinamento, in Giur. Comm., 2014, I, 593 e ss..).

Per individuare il fondamento di tale ipotesi di recesso, bisogna esaminare il disposto dell'art. 2497 quater, comma 1, lett. c), c.c.. In tale direzione, è necessario esaminare la regola che subordina il diritto di exit alla prova che si sia verificato il cambiamento delle condizioni di rischio dell'investimento. Questo presupposto è giustificato dalla circostanza che non esiste un nesso inscindibile tra ingresso in un gruppo e variazione delle condizioni, né tantomeno se ne determina un'automatica modifica in peius, così la facoltà di recesso viene riconosciuta solo se il socio veda compromessi i suoi interessi. Ad esempio, per dimostrare l'esistenza delle condizioni per uscire dalla società il socio potrà provare che la stessa godeva di finanziamenti o garanzie infragruppo oppure otteneva commesse mediante la holding e, conseguentemente, il venir meno dell'attività di eterodirezione può determinare la modifica in questione. Seguendo questa direttrice, non può negarsi che il riferimento all'alterazione delle condizioni di rischio dell'investimento porta a ritenere che il riconoscimento della facoltà di uscire dalla compagine sociale sia volto soprattutto a tutelare il valore economico dell'investimento originario. E per raggiungere tale obiettivo si attribuisce al socio di minoranza la facoltà di uscire dalla società, ricevendo il controvalore in danaro del proprio impegno economico.

In definitiva, l'inizio o la cessazione dell'attività di eterodirezione possono determinare una modifica delle condizioni di rischio; pertanto, con il diritto di recesso si vuole tutelare il mantenimento del valore dell'investimento a suo tempo effettuato e, più in generale, l'interesse degli shareholders a massimizzare la redditività e il valore della propria partecipazione (Pasquariello, Il recesso nei gruppi di società, Padova, 2008).

Riferimenti

Normativi

Art. 2437 c.c.

Art. 2497 quater c.c.

Giurisprudenza

Cass. sentenza 22 maggio 2019, n. 13845

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