Archiviazione per incertezza sulle prove e azione civile per risarcimento danni

07 Ottobre 2020

La figura del contratto con effetti protettivi viene ammessa solo per il caso di contratto stipulato dalla gestante e dunque con effetti protettivi verso il padre ed il figlio nascituro, mentre è esclusa per fattispecie diverse; la figura del contratto con effetti protettivi verso terzi presuppone che il terzo abbia l'identico interesse del contraente, che viene coinvolto allo stesso modo dalla esecuzione (o dall'inadempimento) del contratto come appunto nel caso della gestante, dove l'interesse della donna alla nascita del figlio è lo stesso dell'altro genitore e non v'è motivo di distinguere il titolo della responsabilità.

Se riguardo ad un fatto illecito astrattamente configurabile come reato sia pronunciato decreto di archiviazione, il giudice civile non può «sovrapporre alla veste formale di tale provvedimento una valutazione sostanziale ed equipararlo alla sentenza di proscioglimento» e così escludere l'applicazione del più lungo periodo di prescrizione eventualmente previsto, poiché l'art. 2947 comma 3 c.c. seconda parte, non prevede l'archiviazione tra i presupposti che giustificano il regime ivi applicato.
Il ragionamento presuntivo deve considerare tutti e non solo alcuni degli elementi indicativi emersi dall'istruttoria.
Quanto all'indicazione della causa del decesso il certificato di morte non ha fede privilegiata.
Il consenso può ritenersi informato qualora l'informazione data riguardi oltre l'intervento da eseguire, ma anche sui rischi e le ragioni della scelta.
Tale in sintesi il contenuto dell'ordinanza della Corte di Cassazione n. 19188/2020, depositata il 15 settembre, che ora andiamo ad analizzare più da vicino.

Fatti di causa. Questi, in sintesi i fatti di causa: una donna viene ricoverata in ospedale a causa di alcuni sintomi connessi all'utilizzo di lassativi prescritti dal medico curante. Qui, i medici, effettuano un'ecografia e, per il sospetto che la massa così rilevata, di sette centimetri, sia una neoplasia, programmano per il giorno seguente un esame endoscopico (precisamente una gastro-duodeno endoscopia) dando avviso della necessità del suddetto esame alla donna e alle sue due figlie. Succede poi che l'esame viene interrotto nel momento in cui il medico operante nota una perforazione, ma la donna ma va in arresto cardiaco e, nonostante i tentativi compiuti per rianimarla, dopo un'ora e mezza decede.
Le due figlie depositano una denuncia querela che avvia un'inchiesta per omicidio colposo; qui il primo perito incaricato dal P.M., ritenuto di non dover effettuare l'autopsia, afferma l'incertezza delle cause del decesso. Il P.M. richiede l'archiviazione, ma le figlie della donna propongono opposizione e così il G.I.P. richiede al P.M. un supplemento di consulenza tecnica, che viene così disposta; ma anche in questo caso la conclusione è simile: mancando l'autopsia, non è possibile affermare con certezza le cause della morte; il PM chiede nuovamente l'archiviazione.
Segue nuova opposizione delle donne e un nuovo ampliamento delle indagini da parte del GIP, ma l'esito è sempre lo stesso.
Le due donne si rivolgono così al tribunale civile dove addebitano ai medici: l'avere procurato una perforazione gastrica nel corso dell'esame endoscopico; a quel punto, il non avere soccorso o assistito adeguatamente la donna; il non avere raccolto il consenso informato.
Il tribunale rigetta la domanda, senza nemmeno procedere ad istruttoria, ma mandando la causa in decisione direttamente sulla questione preliminare della prescrizione della domanda e della mancanza di prova del nesso di casualità: la decisione rileva, per un verso, per la mancata autopsia, il mancato assolvimento dell'onere probatorio circa il nesso causale e, per un altro, la prescrizione della domanda di risarcimento iure proprio essendo trascorsi cinque anni, trattandosi di responsabilità extracontrattuale e non contrattuale e non potendosi applicare il termine più lungo previsto da reato, non essendo questo stato accertato.
In secondo grado, la Corte d'Appello giudice inammissibile l'appello ex art. 348-ter c.p.c.
In cassazione il ricorso è affidato a sette motivi contro la sentenza di primo grado, come previsto dall'art. 348-ter comma 3 primo per. c.p.c. (secondo cui «Quando è pronunciata l'inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a norma dell'articolo 360, ricorso per cassazione»).

Primo motivo: la prescrizione non è quinquennale. Il primo motivo contesta la violazione degli artt. 2043, 1218 e 2947 c.c.
La questione posta riguarda la prescrizione del diritto al risarcimento iure proprio delle figlie dalla deceduta.
Il tribunale ha ritenuto che si è compiuta la prescrizione per due ragioni, distinte da un punto di vista logico: primo, il diritto al risarcimento è vantato a titolo extracontrattuale e non contrattuale: non sono qui richiamabili gli effetti protettivi del contratto tra la madre e l'ospedale, in quanto questi si producono solo a vantaggio del nascituro e di suo padre; secondo, il termine quinquennale previsto per le prescrizioni per il risarcimento del danno fatto illecito non può essere allungato ai sensi dell'art. 2947 c.c. in quanto il reato è stato escluso con il provvedimento di archiviazione.
Le ricorrenti contestano tali ragioni in quanto: primo, il contratto “di spedalità” ha effetti protettivi verso tutti, senza distinzione tra padre e figlio nascituro (da un lato) e altri parenti; secondo, la prescrizione prevista per il reato non si applica solo in caso di accertata insussistenza del reato e non in caso di archiviazione.
I giudici ritengono fondato il secondo profilo.

Gli effetti protettivi verso terzi della responsabilità contrattuale sono ammessi solo nel caso della gestante. Ed invero, quanto al primo, i giudici escludono che la responsabilità della ASL abbia natura contrattuale, il che presupporrebbe che il contratto stipulato dalla madre abbia effetti appunto protettivi verso terzi, cioè le figlie. Spiega la Corte che la figura del contratto con effetti protettivi è stata dalla sua giurisprudenza ammessa solo per il caso di contratto stipulato dalla gestante e dunque con effetti protettivi verso padre e figlio nascituro, mentre è esclusa per fattispecie diverse (qui la Corte menziona i precedenti di Cass. nn. 10741/2009, 10812/2019, 5590/2015, 14258/2020). Spiega in sintesi la corte, con l'approfondimento che ritiene idoneo ad escluderne l'applicazione al caso de quo, che la figura del contratto con effetti protettivi verso terzi presuppone che il terzo abbia l'identico interesse del contraente, che viene convolto allo stesso modo dalla esecuzione (o dall'inadempimento) del contratto come appunto nel caso della gestante, dove l'interesse della donna alla nascita del figlio è lo stesso dell'altro genitore e non v'è motivo di distinguere il titolo della responsabilità. Tale osservazione è sufficiente per escludere nel caso di specie l'applicazione della detta figura dato che qui l'inadempimento della ASL ha leso due beni distinti: la vita della donna e il rapporto parentale delle due figlie.

Il decreto di archiviazione non preclude l'allungamento della prescrizione del reato. Quanto al secondo profilo, invece, è corretto affermare che se riguardo ad un fatto illecito, che sia astrattamente configurabile come reato, sia pronunciato decreto di archiviazione, il giudice civile non può «sovrapporre alla veste formale di tale provvedimento una valutazione sostanziale ed equipararlo alla sentenza di proscioglimento», poiché l'art. 2947 comma 3 c.c. (l'art. 2947, dopo avere previsto al comma 1 la prescrizione quinquennale per il risarcimento del danno da fatto illecito e al comma 2 la prescrizione biennale per il risarcimento del danno da circolazione dei veicoli, al comma 3 prevede che «In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all'azione civile. Tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile») non prevede l'archiviazione tra le cause di applicazione della prescrizione, nel nostro caso di cui all'art. 2947 comma 1 c.c., cioè quinquennale (qui la Corte richiama il precedente di Cass. civ., n. 6858/2018). La decisione che consente di escludere l'applicazione del più lungo termine di prescrizione previsto per il reato ipotizzato è solo la sentenza irrevocabile, la quale contenendo un accertamento negativo del reato, ha riflessi sull'azione civile impedendo i benefici che si è accertato insussistente. Diversamene, il decreto di archiviazione non impedisce al giudice civile di compiere una sua valutazione circa la sussistenza del reato al fine di individuare il termine di prescrizione applicabile ai sensi dell'art. 2947 c.c.
Peraltro, osservano i giudici, nel caso de quo il provvedimento di archiviazione è stato emesso alla luce dell'assenza dell'autopsia, cioè preso atto che era difficile individuare le cause del decesso, e dunque secondo una valutazione probabilistica da parte del PM circa le possibilità di sostenere l'accusa nel dibattimento. Non si tratta dell'accertamento dell'insussistenza del reato. Esito che non può impedire al giudice civile di compiere la sua valutazione ai fini dell'applicazione dei termini della prescrizione.

Se il giudizio è mandato in decisione su questioni preliminari, ma la decisione viene emessa per altre ragioni. Con il secondo motivo le ricorrenti contestano la violazione dell'art. 187 c.p.c. per il fatto che, avendo deciso di rinviare per la decisione su determinate questioni preliminari, il tribunale ha poi fondato la decisione su altre, e ciò dimostra che il rinvio era infondato; per i giudici il motivo è fondato ma assorbito dall'accoglimento del primo e, vedremo più avanti, del terzo.

Il ragionamento presuntivo deve considerare tutti e non solo alcuni degli elementi indicativi emersi dall'istruttoria. Con il terzo motivo le ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 2727 e 2697 c.c. circa la mancata prova del nesso eziologico affermata nella decisione.
Il tribunale civile, in linea con quanto asserito nel decreto di archiviazione, ha asserito che l'omissione dell'autopsia ha impedito di accertare le cause del decesso e in particolare il nesso con l'esame endoscopico. Dunque, il tribunale ha concluso che non vi è prova del nesso di causalità. Osservano invece le ricorrenti che altri elementi erano da porre a base di una presunzione e cioè: il fatto inoppugnabile che la perforazione non esistesse prima dell'intervento, che nessun elemento era a favore della tesi di un carcinoma gastrico che potesse incidere sulla permeabilità dei tessuti che invece risultavano, dato pacifico, ispessiti. Infine, le ricorrenti lamentano l'erronea applicazione della regola dell'onere della prova, per cui la prova della mancata imputabilità della causa lesiva veniva posta a loro carico.
Il motivo, per i giudici, è fondato.
Afferma la Corte che la regola da essa fissata per la prova sufficiente del nesso di causalità è quella del “più è probabile che no”, per la quale il nesso causale si considera accertato qualora risulti che sia più probabile che il fatto antecedente abbia causato l'evento, piuttosto che no. Accertamento che può raggiungersi anche mediante presunzioni e non necessariamente tramite prove dirette.
Non che il giudice non abbia fatto ricorso allo strumento delle presunzioni, dal momento che ha deciso sulla base delle valutazioni del decreto di archiviazione; ma la regola è che devono prendersi in considerazione tutti e non solo alcuni degli elementi indicativi emersi dall'istruttoria e che gli elementi presi come indicativi devono essere gravi, precisi e concordanti.
Il tribunale conclude per l'incertezza del nesso eziologico per via della mancata effettuazione dell'autopsia in sede penale, l'unico elemento posto a base della decisione, così violando le regole del giudizio induttivo.
Ma tale ragionamento, che peraltro attribuisce alle ricorrenti un inadempimento sulla base di un atto estraneo alla loro sfera d'azione, qual è l'autopsia, è incompleto perché non prende in considerazione gli ulteriori elementi indiziari indicati dalle ricorrenti (suindicati).
Il giudice avrebbe dovuto porre a base della decisione presunzioni che tenessero conto di tutti gli elementi indicativi, anziché considerare come “esclusiva fonte di conoscenza” un dato indicato nel decreto di archiviazione e considerato come dirimente.

Il consenso informato è validamente richiesto quanto l'informazione è completa. I giudici accolgono anche il successivo motivo, con il quale le ricorrenti contestano che il giudice non ha pronunciato circa la domanda (volando l'art. 112 c.p.c.) di risarcimento per violazione delle norme sul consenso informato. I giudici accolgono la doglianza: sulla violazione del consenso informato la sentenza non si esprime esplicitamente, e nemmeno implicitamente, visto che gli altri argomenti attengono al diverso ed autonomo bene della salute. Il consenso può ritenersi informato qualora l'informazione data riguardi oltre l'intervento da eseguire, ma anche sui rischi e le ragioni della scelta.

Inammissibile il motivo riferito ad un elemento non a base della decisione, anzi con questa incompatibile. Il motivo quinto è giudicato inammissibile in quanto si tratta di un obiter che non ha alcun nesso con la decisione, basata sul difetto di prova della causa del decesso, anzi con questa incompatibile. Si tratta dell'inciso per cui “il decesso era peraltro da attribuire alla neoplasia in atto”, elemento non provato e nemmeno allegato dalla ASL, rilevano le ricorrenti.

Quanto all'indicazione della causa del decesso il certificato di morte non ha fede privilegiata. È invece accolto il sesto motivo, a mezzo del quale le donne contestano che il giudice abbia fatto riferimento a quanto asserito nel certificato di morte circa le cause del decesso, ritenendo che il documento fosse assistito da fede privilegiata e che dunque le informazioni ivi contenute facessero fede fino a querela di falso.
Me le ricorrenti rilevano che non si tratta di un certificato emesso da un medico, ma da un ufficiale di stato civile. Il motivo per la Corte è fondato; l'art. 2700 c.c. dispone che «L'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti».
L'atto è stato sì redatto dall'ufficiale di stato civile ma non riguarda fatti avvenuti in sua presenza, né ha avuto diretta contezza delle cause che lo hanno provocato, ma si è limitato a recepire quanto riferitogli dai medici.
Il settimo ed ultimo motivo, riguardante la liquidazione delle spese, è assorbito dall'accoglimento degli altri.
La sentenza è così cassata ed il giudizio rinviato al tribunale, in diversa composizione per la decisone, anche in merito alla liquidazione delle spese.

* Fonte: dirittoegiustizia.it

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