Il diritto alla retribuzione del lavoratore ceduto nell'ambito di un trasferimento d'azienda dichiarato illegittimo

Corrado Di Mattina
08 Ottobre 2020

Nel caso di trasferimento d'azienda dichiarato giudizialmente illegittimo, i pagamenti delle retribuzioni effettuati al lavoratore dal cessionario, anche dopo l'accertamento della nullità del trasferimento e nell'ipotesi di ordine ineseguito di ripristino del rapporto lavorativo con il lavoratore ceduto, da parte dell'ex cedente, devono considerarsi satisfattivi del credito retributivo vantato dal lavoratore nei confronti dell'ex cedente...
Massima

Nel caso di trasferimento d'azienda dichiarato giudizialmente illegittimo, i pagamenti delle retribuzioni effettuati al lavoratore dal cessionario, anche dopo l'accertamento della nullità del trasferimento e nell'ipotesi di ordine ineseguito di ripristino del rapporto lavorativo con il lavoratore ceduto, da parte dell'ex cedente, devono considerarsi satisfattivi del credito retributivo vantato dal lavoratore nei confronti dell'ex cedente.

A fronte della prestazione del lavoratore da considerarsi unica, rileva il vincolo di solidarietà intercorrente tra (ex) cedente ed (ex) cessionario, nonché il disposto dell'art. 1292 c.c., secondo cui l'adempimento di uno dei condebitori solidali libera gli altri condebitori.

Il caso

A seguito di un trasferimento d'azienda ex art. 2112 cod.civ. dichiarato giudizialmente illegittimo, con dichiarata prosecuzione dei rapporti di lavoro subordinato con la cedente anche successivamente al predetto trasferimento, un gruppo di lavoratori, dopo aver offerto formalmente le proprie prestazioni lavorative al datore di lavoro ex cedente, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1206 e 1207, comma 1, c.c., proponeva ricorso al Giudice del Lavoro di Trento, chiedendo la condanna del datore di lavoro ex cedente al pagamento, in proprio favore, delle somme corrispondenti alle retribuzioni maturate nel periodo intercorrente dalla data di costituzione in mora della resistente alla data di riassunzione, da parte della stessa, della qualità di datore di lavoro dei ricorrenti, determinatasi per effetto dell'intervenuta fusione per incorporazione dell'ex cessionaria nell'ex cedente.

I ricorrenti invocavano il disposto ex art. 1207, comma 1, c.c, in forza del quale, quando il creditore è in mora, è a suo carico l'impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa non imputabile al debitore.

Avverso la sentenza dichiarativa dell'illegittimità del trasferimento d'azienda, intanto, era stata proposta impugnazione, respinta dalla Corte di Appello di Trento con sentenza, oggetto successivamente di ricorso per cassazione, respinto per inammissibilità dalla Suprema Corte.

Le questioni giuridiche

La questione giuridica affrontata dal Tribunale di Trento rappresenta la riproposizione di un tema affrontato molte volte dalla giurisprudenza, su cui si sono sviluppati negli ultimi anni due opposti orientamenti in Cassazione, l'ultimo dei quali ha assunto matrice prevalente con un serie di pronunce emesse tra il 2019 ed il 2020.

La sentenza in commento si pone in contrasto con l'orientamento maggioritario prevalso, assumendo rilevanza per la difformità del giudizio espresso e per l'iter argomentativo proposto a supporto della decisione.

Il tema sotteso alla questione è se, dalle retribuzioni spettanti al lavoratore dal datore di lavoro che abbia operato un trasferimento di azienda dichiarato illegittimo, sia detraibile quanto il lavoratore medesimo abbia percepito, nello stesso periodo, pure a tiolo di retribuzione, per l'attività prestata alle dipendenze dell'imprenditore già cessionario, ma non più tale, una volta dichiarata giudizialmente la non opponibilità della cessione al dipendente ceduto.

Argomento dirimente per la fattispecie in esame è l'istituto della mora del creditore dei rapporti di lavoro, su cui si sono avvicendati indirizzi interpretativi, risalenti nel tempo e su cui sono si pronunciate le Sezioni Unite della Corte di cassazione (sent. n. 2990/2018), nonché la Corte costituzionale (sent. n. 29/2018), come di seguito si approfondirà.

Il Giudice del Lavoro di Trento, ponendosi – appunto - in contrasto con la tesi prevalsa nella giurisprudenza di legittimità, dopo aver analizzato i cardini dei due orientamenti interpretativi succedutisi nel tempo, ha offerto una soluzione giuridica alla questione in esame affine ai principi dell'indirizzo affermatosi in un primo tempo. Ovvero, ha ritenuto che, nel caso di un trasferimento d'azienda dichiarato illegittimo, i pagamenti delle retribuzioni effettuati al lavoratore dal cessionario, anche dopo l'accertamento della nullità del trasferimento e nell'ipotesi di ordine ineseguito di ripristino del rapporto lavorativo con il lavoratore ceduto, da parte dell'ex cedente, debbano considerarsi satisfattivi del credito retributivo vantato dal lavoratore nei confronti dell'ex cedente. La tesi espressa dal Giudice del Lavoro di Trento si fonda sulla considerazione che la prestazione di lavoro, fonte del credito retributivo, sia unica, afferendo ad un'unica vicenda lavorativa in cui non sia configurabile una doppia esecuzione (oltre a quella materiale effettuata nei confronti del già cessionario, anche una giuridica resa nei confronti del già cedente, per effetto della mora accipiendi attivata). In questa prospettiva interpretativa, i due rapporti di lavoro subordinato (quello de iure con l'ex cedente e quello de facto con l'ex cessionario) determinano per il lavoratore la medesima prestazione di lavoro e, conseguentemente, la medesima controprestazione retributiva.

A fronte della prestazione del lavoratore da considerarsi unica, rileva il vincolo di solidarietà intercorrente tra (ex) cedente ed (ex) cessionario, nonché il disposto dell'art. 1292 c.c., secondo cui l'adempimento di uno dei condebitori solidali libera gli altri condebitori.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in analisi ha ad oggetto una questione giuridica sulla quale la giurisprudenza di Cassazione non ha fornito nel tempo soluzione univoche, seppur a partire dal 2019 si sia consolidato un indirizzo interpretativo che sembrerebbe aver posizionato definitivamente la vicenda.

Il perno della questione è rappresentato dall'interpretazione dell'istituto della mora del creditore, di cui agli artt. 1206 e 1207 c.c., nell'ambito dei rapporti di lavoro, ovvero degli effetti di una prestazione offerta e rifiutata senza legittimo motivo, nel caso di successione illegittima del contratto di lavoro per effetto di trasferimento di azienda dichiarato nullo e travolto da una sentenza giudiziale.

La natura della mora del creditore e l'estensibilità della sua disciplina ai rapporti di lavoro, nonché gli effetti dell'ordine ineseguito di riassunzione del lavoratore o di prosecuzione del rapporto lavorativo da parte del non più cedente datore di lavoro costituiscono gli elementi di divisione interpretativa.

Il Giudice di Trento, nella consapevolezza che la propria pronuncia si ponga in contrasto con l'orientamento di Cassazione prevalente e tenendo conto della fondamentale funzione di nomofilachia della Suprema Corte, si preoccupa di far scorrere la propria decisione lungo un percorso argomentativo che attraversi, in analisi ed approfondimento, i due orientamenti contrapposti, tenuti in conto ed esaminati criticamente a supporto della propria decisione e delle motivazioni sottesevi, elaborando così un dissenso strutturato e molto articolato.

Dunque, passando in rassegna i due indirizzi interpretativi, la sentenza evidenzia, dapprima, come quello più risalente ed ormai minoritario (Cass., sez. lav., nn. 14019 e 14136 del 2018), consideri che il pagamento della retribuzione al lavoratore ex ceduto, effettuato dall'ex cessionario (anche) dopo l'accertamento giudiziale della nullità del trasferimento di azienda e l'ordine impartito all'ex cedente di ripristinare il rapporto con il lavoratore ceduto, possieda un'efficacia satisfattiva del credito retributivo di cui l'ex ceduto è titolare nei confronti dell'ex cedente. Evidenzia come a fondamento di tale tesi siano stati posti principi di diritto comune ed in particolare quelli inerenti alla disciplina dettata dall'art. 1180 c.c. comma 1 e art. 2036, comma 3, che regolano l'adempimento del terzo e l'indebito soggettivo. Sul presupposto, infatti, che una ed una sola sarebbe la prestazione lavorativa che il lavoratore svolge nel ramo (illegittimamente) ceduto, il pagamento della relativa retribuzione da parte del cessionario costituirebbe un pagamento consapevolmente effettuato da un soggetto che non è il vero creditore della prestazione, e dunque un adempimento del terzo, cui consegue la liberazione del vero obbligato, in applicazione del medesimo principio generale previsto dall'art. 1180 c.c., comma 1. La conseguenza sarebbe che il lavoratore non potrà ottenere dal cedente la medesima retribuzione già corrispostagli dal cessionario, ma solo le differenze rispetto a quanto avrebbe percepito alle dipendenze del primo.

Nell'analizzare poi il mutato orientamento della Cassazione, frutto di più recenti e reiterate pronunce (dalle doppie conformi sentenze del 3 luglio 2019, n. 17785 e n. 17786 alle ultime del maggio 2020 nn. 8800, 8802, 8950, 8952, 9093), il Giudice di Trento evidenzia come esso si fondi sul principio opposto a quello in precedenza prevalso, ossia che dalle retribuzioni spettanti al lavoratore da parte del datore (non più cedente), che abbia effettuato un trasferimento di azienda dichiarato illegittimo e che abbia senza motivo legittimo rifiutato di ripristinare il rapporto con il lavoratore (non più ceduto) e, quindi, di ricevere le sue prestazioni, non sia detraibile quanto lo stesso lavoratore abbia percepito, a titolo di retribuzione, per l'attività prestata in favore dell'utilizzatore (non più datore cessionario). Pertanto, ne consegue che il pagamento delle retribuzioni effettuate dall'ex cessionario, quale corrispettivo delle prestazioni eseguite in suo favore dal lavoratore ex ceduto, non avrebbe effetto estintivo, in tutto o in parte, dell'obbligazione retributiva gravante sull'ex cedente. Il Giudice si sofferma sul principio cardine su cui si fonda la tesi elaborata dalla Suprema Corte di Cassazione, su cui esprime il suo dissenso principale, rappresentato dalla configurabilità di una duplicità di rapporti nella dinamica cedente-ceduto-cessionario. La tesi confutata è quella che, nella fattispecie in esame, si configurerebbe – appunto - una duplicità di rapporti, di cui uno, de iure, ripristinato nei confronti dell'originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; mentre l'altro, di fatto, tenuto nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa. Per cui la prestazione del lavoratore sarebbe unica solo apparentemente, giacché, accanto a quella resa materialmente a favore del cessionario, con cui il lavoratore trasferito illegittimamente abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve ne sarebbe un'altra resa giuridicamente, in favore dell'originario datore di lavoro, ex cedente, con cui il rapporto risulta ripristinato de iure.Infatti “una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l'obbligo di pagare la controprestazione retributiva”.

La sentenza non dissente sulla tesi della coesistenza di due rapporti, ossia sul fatto che l'accertamento dell'illegittimità del trasferimento d'azienda faccia riemergere de iure il rapporto di lavoro tra il lavoratore e l'originario datore di lavoro, a cui si affianca il rapporto instaurato de facto dal lavoratore, nel caso di prestazione resa in favore del già cessionario, successivamente all'accertamento.

La sentenza, infatti, confuta e dissente dall'assunto che la prestazione del lavoratore sia solo apparentemente unica.

La critica, che muove inizialmente dalla constatazione ritenuta scontata che ontologicamente il lavoratore non sia in grado di eseguire materialmente la medesima prestazione, quanto a contenuto, tempo e luogo, in favore di due diversi e distinti datori, si concentra sul concetto di prestazione lavorativa “giuridicamente resa”, che presupporrebbe un'equiparazione tra “messa a disposizione delle energie lavorative” ed “utilizzazione effettiva”, talché sorgerebbe l'obbligo retributivo in capo al datore di lavoro moroso.

Nella critica che il Giudice di Trento muove alla tesi in esame, egli prescinde da ogni valutazione sull'estensibilità della mora del creditore al rapporto di lavoro subordinato, negata peraltro da autorevole dottrina, giacché – come evidenziato in sentenza - la mora accipiendi presuppone che, dopo l'intimazione del creditore ex art. 1217 c.c., da parte del debitore, di ricevere la prestazione o di compiere di atti preparatori o di cooperazione per renderla possibile, nonché dopo il rifiuto della prestazione o l'inerzia cooperatoria non sorretti da motivo legittimo, la prestazione rimanga possibile, mentre nel rapporto di lavoro subordinato, di regola, il lavoratore debitore è tenuto a eseguire la sua prestazione nei giorni e nelle ore prescritte, di talché, se il datore di lavoro la rifiuta o non la consente e, quindi, il lavoratore non la esegue nel giorno stabilito, quella determinata prestazione deve considerarsi divenuta definitivamente impossibile, per soffermarsi invece su altra rilevante considerazione, in base alla quale l'obbligazione retributiva a carico del datore di lavoro moroso deriverebbe, alla luce della disciplina codicistica della mora credendi, da una fattispecie complessa costituita da una serie di elementi - tra cui la sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa con trasferimento del rischio a carico del creditore moroso ex art. 1207 c.c., in deroga all'art. 1463 c.c., il quale, di regola, nei contratti con prestazioni corrispettive preclude alla parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta di chiedere la controprestazione- tali per cui il diritto del lavoratore alla retribuzione sorgerebbe, nei confronti del creditore moroso, non già, come ritiene la Suprema Corte, perché la prestazione è stata “giuridicamente resa”, ma quale effetto legale di una fattispecie che, per di più, annovera – appunto - tra i suoi elementi costitutivi la sopravvenuta impossibilità della prestazione medesima.

Pertanto, la conclusione cui giunge il Giudice di Trento, è che l'inconfigurabilità di due esecuzioni (quella materiale in favore del cessionario e quella giuridica in favore del cedente) accrediterebbe l'orientamento meno recente della Cassazione, secondo cui “una ed una sola” è la prestazione oggetto dell'obbligazione che grava sul lavoratore già (ma non più) ceduto, con l'ulteriore evidenza che i due rapporti di lavoro prospettati (de iure e de facto) abbiano ad oggetto in realtà, ed in concreto, la medesima prestazione di lavoro e, conseguentemente, la medesima controprestazione retributiva.

Il fulcro della motivazione della sentenza è posto proprio su questo ultimo aspetto, giacché nelle argomentazioni sviluppate si evidenzia come l'identità della controprestazione retributiva deriverebbe dal fatto che medesima è la prestazione lavorativa oggetto della contesa, sebbene sia diversa la fonte giuridica dell'obbligazione di cui costituisce oggetto. Nel caso del rapporto de iure tra ex cedente ed ex ceduto si tratterrebbe della complessa fattispecie afferente la mora accipiendi; nel caso del rapporto de facto tra ex cessionario ed ex ceduto risiederebbe nell'avvenuta esecuzione della prestazione lavorativa da parte del secondo in favore del primo.

L'ultimo tassello argomentativo è incentrato sull'efficacia satisfattiva del pagamento effettuato dal cessionario e, dunque, sul vincolo di solidarietà sussistente tra datori di lavoro de iure e de facto, ossia tra ex cedente ed ex cessionario.

La sentenza afferma il principio secondo il quale la sussistenza della doppia fonte giuridica dell'obbligazione retributiva non rappresenterebbe un elemento ostativo alla configurabilità del vincolo di solidarietà tra le due obbligazioni, giacché, sulla scia di quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, non costituirebbe un presupposto essenziale della solidarietà passiva l'eadem causa obligandi, ossia che l'obbligazione sorga dal medesimo fatto giuridico. Né avrebbero valore ostativo per la sussistenza del vincolo di solidarietà eventuali modalità diverse di esecuzione da parte dei condebitori e neppure differenze quantitative, oltre all'inesistenza di un'apposita manifestazione di volontà rivolta ad attribuire natura solidale all'obbligazione, stante la natura presuntiva iuris tantum della solidarietà passiva (art. 1294 c.c.).

Osservazioni

La sentenza in commento affronta un tema certamente complesso, esaminato dalla giurisprudenza con travaglio e senza approdi definitivi, a causa delle molteplici implicazioni che comporta, malgrado il nuovo orientamento giurisprudenziale consolidatosi negli ultimi due anni di cui si è dato conto.

Certamente essa ha il pregio di offrire un ulteriore contributo interpretativo, ma lascia aperte comunque delle questioni su cui si sofferma solo parzialmente, incentrate essenzialmente sull'istituto della mora del creditore in ambito lavoristico, sul principio di corrispettività della retribuzione, sull'effettività della tutela giurisdizionale. Tali temi sono stati, seppur nell'ambito di differenti fattispecie, oggetto di due recenti pronunce, la prima delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, n. 2990/2018, mentre la seconda della Corte costituzionale, n. 29/2019, le cui enunciazioni di principio hanno contribuito all'elaborazione del nuovo prevalente indirizzo giurisprudenziale.

Sebbene queste due sentenze rappresentino uno snodo decisivo nell'evoluzione giurisprudenziale dell'argomento, sono state però ritenute, dal Giudice di Trento, prive di un rapporto di inerenza con la questione oggetto di causa, tanto da essere state espunte dal complesso iter argomentativo che ha condotto alla sua decisione e dunque dalle sue elaborazioni di principio.

Nella consapevolezza che le due pronunce non potessero essere del tutto ignorate, la sentenza le prende immediatamente in considerazione per relegarle però ai margini della questione, sebbene da un confronto più articolato con il loro contenuto le tesi esposte dal Giudicante avrebbero pouto assumere maggior robustezza argomentativa e maggior forza persuasiva. Sono poste fuori dal perimetro valutativo, poiché ritenute dal Giudice non afferenti, almeno direttamente, alla questione oggetto della causa.

Il Giudice di Trento limita la portata precettiva delle due pronunce, pur nella diversità delle fattispecie cui fanno riferimento, all'enunciazione del principio secondo cui il datore di lavoro, che non ha eseguito l'ordine giudiziale di riassunzione e, quindi, ha rifiutato senza legittimo motivo ex art. 1206 c.c. la prestazione offerta dal lavoratore nel rispetto dell'art. 1217 c.c., ha diritto di ricevere la retribuzione secondo la previsione 1207 comma 1, primo periodo c.c. e non solo il risarcimento, previsto dal comma successivo, dei danni derivati dalla mora del datore.

La sentenza pone in evidenza, quanto alla sentenza della Cassazione, come essa abbia esaminato la diversa fattispecie in cui l'utilizzatore, dopo la declaratoria giudiziale che ha accertato l'illecita interposizione di manodopera, non abbia riammesso in servizio il lavoratore, nonostante questi gli abbia offerto le proprie prestazioni (peraltro negando, in ragione della presenza di una specifica norma ostativa – l'art. 27 comma 2 d.lgs. n. 276/2003 – il diritto al lavoratore di ricevere la retribuzione sia dall'interponente che dall'interposto); mentre, quanto alla sentenza della Consulta, pur attinente alla stessa fattispecie cui è riconducibile la vicenda in esame, per essa è evidenziato come abbia delimitato il thema decidendum allaqualificazione in termini risarcitori dell'obbligo del datore di lavoro che non ottemperi all'ordine di riammettere il lavoratore nell'impresa, dopo l'accertamento della nullità, dell'inefficacia o dell'inopponibilità della cessione del ramo di azienda, nonché come abbia sancito “§ 6.3 [...] Invero, sul punto della qualificazione retributiva dell'obbligazione del datore di lavoro moroso, che rappresenta il fulcro delle questioni di legittimità costituzionale, si riscontra una piena convergenza tra le enunciazioni di principio delle Sezioni unite e l'assunto del rimettente […] Spetterà alla Corte rimettente rivalutare la questione interpretativa dibattuta nel giudizio principale, che investe il diritto del lavoratore ceduto, già retribuito dal cessionario, di rivendicare la retribuzione anche nei confronti del cedente”.

Nella trama argomentativa della sentenza in commento, è affrontata anche la questione dell'effettività della tutela giurisdizionale, alla cui garanzia è proiettato l'indirizzo prevalente della giurisprudenza. Risulta assicurata attraverso un coerente percorso logico-giuridico di effettività del dictum giuridico, su cui il Giudice di Trento di fatto soprassiede sulla base della considerazione che anche nell'ambito di altre rilevanti fattispecie lavoristiche non sia del tutto assicurato.

Di fronte all'esigenza di assicurare pienezza di effettività alla pronuncia giurisdizionale, che non ammette svuotamenti di tutela come accadrebbe nel caso in cui non vi fosse deterrente idoneo ad indurre il datore di lavoro a riattivare il rapporto lavorativo, ovvero non ammette affievolimenti della propria forza cogente, come accadrebbe ad una pronuncia se in concreto risultasse priva di efficacia per il protrarsi dell'inosservanza senza reali conseguenze, il Giudice di Trento infatti osserva come la stessa esigenza di effettività della giurisdizione, che nel caso in esame verrebbe soddisfatta attribuendo ai lavoratori ex ceduti il diritto di ricevere la retribuzione sia dall'ex cedente sia dall'ex cessionario, non si realizzi in un'altra fattispecie, dove i lavoratori sono esposti al rischio di rimanere addirittura privi di tutela economica. Viene citata espressamente l'ipotesi del lavoratore licenziato in favore del quale è intervenuto un ordine giudiziale di reintegrazione a cui il datore di lavoro ha ritenuto di non ottemperare, analizzata considerando la novella ex l. 11 maggio 1990, n. 108 (confermata sul punto da quella ex l. 28 giugno 2012, n. 92), in forza della quale l'art. 18 St. lav. qualifica come risarcimento del danno anche l'indennità commisurata alla retribuzione spettante al lavoratore nel periodo in cui il datore di lavoro non ottemperi all'ordine di reintegrazione. La riflessione del Giudice è che, oltre alla decurtazione dell'indennità nella misura dell'aliunde perceptum e, in forza della novella ex l. n. 92/2012 anche dell'aliunde percipiendum, il lavoratore, nell'ipotesi di riforma nella fase o nei gradi successivi dell'ordine di reintegrazione, sarà chiamato a restituire, essendo venuta meno l'illegittimità del licenziamento, le somme ricevute a titolo risarcitorio, ivi comprese quelle percepite nel periodo in cui il datore di lavoro si era rifiutato di ottemperare all'ordine di reintegrazione.

A supporto della considerazione, viene citata la sentenza n. 86 del 2018 della Corte costituzionale, che, nel ritenere legittime le disposizioni dell'art. 18 St. lav., ha riaffermato il principio di corrispettività (derogato invece da Cass., sez. un. n. 2990/2018 e da Corte cost. n. 29/2019), secondo cui il diritto alla retribuzione scaturisce solo quando la prestazione lavorativa sia stata effettivamente resa, sussistendo -al contrario - soltanto un obbligo risarcitorio in capo al datore di lavoro.

La sentenza della Corte costituzionale è citata anche in relazione al principio di effettività, evidenziandone il contenuto difforme rispetto alle enunciazioni dell'orientamento prevalente di Cassazione contrastato, richiamanti peraltro Corte cost. n. 29/2019, riportando testualmente: “Se è pur vero, quindi, che l'ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato ripristina, sul piano giuridico, la lex contractus, ciò non è vero anche sul piano fattuale, poiché la concreta attuazione di quell'ordine non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro, avendo ad oggetto un facere infungibile”; inoltre ha considerato costituire “due situazioni non omogenee e non suscettibili per ciò di entrare in comparazione nell'ottica dell'art. 3 Cost. quella del datore di lavoro che, medio tempore, adempia all'ordine di reintegrazione del dipendente e il datore di lavoro che, "scommettendo" su quella riforma, viceversa non vi ottemperi, limitandosi a corrispondere al lavoratore l'indennità risarcitoria”, sebbene “il primo non avrà titolo a ripetere le retribuzioni corrisposte al dipendente all'interno del periodo in questione, mentre il secondo potrà ripetere l'indennità risarcitoria versatagli una volta accertata la legittimità del licenziamento ed escluso, quindi, che abbia agito contra ius”.

Il vero nodo da sciogliere, che ci si permette di porre in rilievo e di considerare come irrisolto, è quello dell'unicità della prestazione, ossia la sussistenza nella fattispecie in esame di una medesima prestazione lavorativa, da cui sorgerebbe la medesima controprestazione retributiva.

Si ritiene di non condividere l'approdo argomentativo della sentenza in commento, prescindendo dal principio di corrispettività che accompagna la prestazione lavorativa, peraltro supportato da deroghe legislative (il riferimento è agli istituti delle ferie e dei riposi settimanali) e giurisprudenziali, che pure potrebbe avere un rilievo nella vicenda, giacché il cessionario, con il proprio pagamento, non farebbe altro che retribuire una prestazione lavorativa effettivamente ottenuta e di cui ha beneficiato, che rimarrebbe indifferente al resto della vicenda e alle conseguenze della declaratoria di nullità del trasferimento, nonché all'inerzia e al rifiuto ripristinatorio datoriale. Così come irrilevante sarebbe la matrice della reazione alla condotta inadempiente del datore di lavoro non più cedente, ossia se risarcitoria o retributiva, da tracciare nell'ambito dello schema della mora accipiendi.

Invero la critica che ci si permette di avanzare investe propriamente la configurabilità di unica prestazione, ovvero la sussistenza teorizzata di una medesima prestazione lavorativa nella relazione cedente-ceduto-cessionario, su cui piomba l'accertamento giudiziale di illegittimità del trasferimento e nell'ambito del quale, pertanto, non si determina la circolazione del contratto di lavoro, ossia di quel contratto di lavoro costituito originariamente alle dipendenze del cedente e che sarebbe rimasto unico e sarebbe succeduto, se solo l'impianto traslativo fosse stato conforme allo schema legale tipico.

Non si vuol porre in discussione l'affermazione, ovvia ontologicamente, che il lavoratore non possa essere in grado di eseguire materialmente la medesima prestazione, quanto a contenuto, tempo e luogo, in favore di due diversi e distinti datori, assunto da cui prende le mosse la tesi elaborata nella sentenza, bensì l'approdo concettuale cui si perviene, ossia che si tratti – per tale stessa premessa - di una medesima ed un'unica prestazione lavorativa, a fronte della quale si porrebbe la medesima controprestazione retributiva.

In conseguenza della condotta dell'ex cedente, che non dà seguito alla pronuncia giudiziale che travolge il trasferimento d'azienda, si determina una doppia realtà giuridica: la prima lega l'ex cessionario e l'ex ceduto, incentrata su un effettivo rapporto lavorativo, costituitosi esclusivamente di fatto, giacché privo di cornice contrattuale e legale, derivante dalla prestazione lavorativa eseguita dal lavoratore ex ceduto; la seconda, che scorre lungo le condotte dei già cedente e ceduto, imperniata su un rapporto ripristinato ex iure, a cui il cedente non dà seguito, impedendo al lavoratore di proseguire la propria attività e rifiutandogli la prestazione offerta, in cui il diritto alla retribuzione sorge attraverso lo schema della mora del creditore.

Sono pertanto due prestazioni differenti, che assumono configurazione giuridica differente, nell'ambito di due distinti rapporti giuridici (di fatto e di diritto), promanando da differenti fonti.

Assumendo il concetto – come comunque fa il Giudice di Trento – che si identifichino due distinti rapporti contrattuali di lavoro, la conclusione cui pervenire non può che essere quella della doppia prestazione lavorativa, prescindendo anche da ogni valutazione giuridica sull'estensibilità della mora del creditore alle vicende lavoristiche. Si ritiene non si possa parlare di unicità della prestazione lavorativa, giacché significherebbe ammettere concettualmente che essa possa assumere tratto indistinto ed autonomo, indifferentemente se servita a favore di un datore di lavoro o di un altro, quando in realtà la prestazione lavorativa si pone in diretta correlazione alla pretesa datoriale, ovvero si conforma notoriamente al potere direttivo e gerarchico del datore di lavoro, così che la sua esecuzione non può prescindere dalla richiesta e dalla volontà del datore di lavoro. E, dunque, va da sé che l'unicità della prestazione presupporrebbe l'unicità del datore di lavoro, della controparte contrattuale, perché non può ammettersi ontologicamente che ci siano due distinti ma al contempo medesimi poteri datoriali esercitabili a fronte di un'unica prestazione lavorativa.

Superando il concetto dei due rapporti aventi ad oggetto la medesima prestazione di lavoro, verrebbe superata anche la tesi della medesima controprestazione retributiva.