Il tempo-tuta e l'eterodirezione implicita o in re ipsa
08 Ottobre 2020
Massima
Nell'ambito sanitario, essendo la divisa funzionalmente diretta a garantire l'igiene e la sicurezza pubblica, il tempo necessario all'esecuzione delle attività di vestizione/svestizione, sebbene riconducibile alla fase preparatoria, deve ritenersi incluso nell'orario di lavoro. Non rileva il difetto di espresse disposizioni o direttive datoriali, potendo l'eterodirezione ritenersi sussistente anche implicitamente, in ragione della funzione riconosciuta alla divisa. Il caso
La lavoratrice, dedotto di essere dipendente della ASL convenuta con qualifica di infermiere, allegava di essere tenuta a giungere sul posto di lavoro 15 minuti prima dell'orario stabilito per l'inizio del turno, dovendo recarsi nello spogliatoio ed effettuare le operazioni di vestizione. Finito il turno di servizio, la lavoratrice affermava di dover raggiungere nuovamente lo spogliatoio per la svestizione. Tanto premesso, chiedeva che il tempo impiegato per le suddette operazioni (pari a 15 minuti prima dell'inizio di ogni turno ed a ulteriori 15 minuti dopo la fine di ogni turno) venisse riconosciuto come tempo di lavoro, con condanna della datrice al pagamento delle differenze retributive maturate. La questione
In assenza di una eterodirezione diretta, il tempo necessario per le operazioni di vestizione/svestizione può qualificarsi come orario di lavoro da retribuire? La soluzione giudiziale
Il Tribunale di Bari ha confermato l'orientamento secondo il quale le attività di vestizione/svestizione attengono a comportamenti integrativi della obbligazione principale alla quale il lavoratore è tenuto. In particolare, per il lavoro all'interno delle strutture sanitarie, anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa, il tempo necessario allo svolgimento di suddette operazioni deve essere retribuito, essendo l'esecuzione imposta da superiori esigenze di sicurezza ed igiene, riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto.
Tale conclusione, ha sottolineato il Tribunale, non si pone in contrasto con il principio espresso dalla Corte di Cassazione secondo cui, nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l'abbigliamento di servizio – c.d. tempo-tuta –deve essere retribuito solo ove qualificato da eterodirezione, dovendo diversamente tali attività essere ricondotte alla diligenza preparatoria cui è tenuto il dipendente, con esclusione del diritto ad un autonomo corrispettivo.
Il giudice barese ha rammentato come l'eterodirezione possa derivare non solo dall'esplicita disciplina d'impresa, ma implicitamente anche dalla natura degli indumenti qualora funzionalmente diretti ad assolvere superiori esigenze di sicurezza ed igiene pubblica, sicché l'uso dei medesimi sarebbe implicitamente autorizzato da parte del datore.
Il Tribunale ha rammentato l'orientamento della giurisprudenza di legittimità saldamente ancorato al riconoscimento dell'attività di vestizione/svestizione degli infermieri come rientrante nell'orario di lavoro ove effettuata prima dell'inizio e dopo la fine del turno, sebbene tale soluzione sia stata raggiunta con definizioni non sempre coincidenti (in alcuni casi, infatti, è stato utilizzato il concetto di “eterodirezione implicita”, in altri si è fatto riferimento all'obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, discendente dall'interesse all'igiene pubblica, in altri ancora all'esistenza di una “autorizzazione implicita”).
Nonostante suddette operazioni fossero correlate alla fase preparatoria, esse non risultavano lasciate alla libera scelta del lavoratore circa il tempo ed il luogo del loro compimento. A supporto delle proprie argomentazioni il Tribunale ha inoltre sottolineato il ruolo primario assunto, in termini di tutela della salute pubblica, dalle attività di vestizione/svestizione durante l'emergenza epidemiologica da COVID-19. Per tali motivi sono state respinte le censure fondate sul difetto di prova dell'esistenza di puntuali disposizioni e/o direttive dell'Azienda. Conseguentemente tali attività sono state incluse nell'orario di lavoro, riconoscendo il diritto della lavoratrice alla retribuzione relativa, anche nel silenzio della contrattazione collettiva, in quanto, proprio per le peculiarità che le connotano, dovevano ritenersi implicitamente autorizzate da parte dell'ASL. Osservazioni
In base all'art. 1, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 66/2003 è incluso nell'orario di lavoro “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni”, sicché ad esso dovrebbero ricondursi anche quegli intervalli di tempo - antecedenti o successivi all'esecuzione della prestazione lavorativa effettiva - nei quali sia riscontrabile una situazione di messa a disposizione del prestatore a beneficio del datore, e dunque l'attività del dipendente risulti eterodiretta.
La questione afferente la riconducibilità o meno all'orario di lavoro di attività strumentali/preparatorie, rispetto alla prestazione lavorativa, è stata risolta dalla giurisprudenza facendo leva proprio sulla possibilità del dipendente di autodeterminarsi circa il luogo ed il tempo di esecuzione delle medesime.
Il c.d. tempo-tuta, in particolare, è stato collegato agli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'obbligazione principale ove il lavoratore sia libero di scegliere quando e dove indossare la divisa (anche presso la propria abitazione e prima di recarsi al lavoro) sicché il tempo a ciò necessario non dovrà essere retribuito. Qualora, invece, le modalità esecutive di detta operazione siano predisposte dal datore – recte fissate in sede negoziale o mediante espresse direttive – la vestizione - così come la svestizione - rientrerebbe nell'orario di lavoro effettivo, con conseguente diritto del dipendente alla retribuzione.
L'accertamento dell'eterodirezione ha dunque assunto un carattere centrale.
Con riferimento al c.d. tempo-tuta la giurisprudenza ha posto l'accento anche sulla funzione assegnata alla divisa, distinguendo a seconda che il suo utilizzo venga prescritto a tutela dell'integrità fisica del lavoratore o sia imposto da esigenze connesse all'immagine dell'azienda: nel primo caso si è ritenuto che il tempo impiegato per la vestizione rientri nell'orario di lavoro (Cass.,n. 27799/2017). Diversa soluzione è stata sostenuta per la seconda ipotesi, essendo la divisa indossata in luogo degli indumenti personali. Proprio l'aspetto funzionale ha condotto la giurisprudenza ad affermare che l'eterodirezione possa desumersi non solo direttamente dalla disciplina negoziale del rapporto, ma anche indirettamente qualora la divisa sia indispensabile per l'espletamento della prestazione principale e funzionalmente diretta alla tutela dello stesso lavoratore o, in generale, della sicurezza ed igiene pubblica. Tali considerazioni hanno portato la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, ad includere nell'orario di lavoro da retribuire anche il tempo necessario alla vestizione/svestizione dei dipendenti presso istituti sanitari (es. ASL), non potendo tali operazioni essere eseguite in un luogo e in un tempo lasciati alla libera scelta del lavoratore.
La sentenza in commento ha dato continuità a tale orientamento ermeneutico, tenuto conto anche della peculiarità dell'ultimo periodo storico, caratterizzato dallo stato di emergenza epidemiologica- Covid-19.
In sintesi il dipendente è tenuto all'osservanza di una regola aziendale implicita, imposta dalla natura stessa dell'attività svolta, essendo l'operazione preparatoria obbligatoriamente richiesta in quanto indispensabile allo svolgimento delle mansioni.
In assenza di regolamentazione normativa e negoziale, dunque, fulcro dell'accertamento continua ad essere la soggezione al potere organizzativo e direttivo del datore, il che però potrebbe riscontrarsi anche implicitamente - o, addirittura, ritenersi in re ipsa - tenuto conto dell'attività espletata dal dipendente.
Non sembrano, tuttavia, trascurabili alcune osservazioni. L'obbligo di indossare la tuta presso il luogo di lavoro – gravante ad esempio sugli infermieri di un'azienda sanitaria – dovrebbe ricondursi alla normativa legale in materia di salute e sicurezza, la quale è diretta a garantire la salute non solo del lavoratore ma anche dei soggetti assistiti. Non si rinverrebbe, pertanto, una sostanziale manifestazione del potere datoriale di interferenza sui tempi e sulle modalità relative a suddette attività. Il datore, come si evince anche dalla sentenza in commento, non “dispone” ma “autorizza” le operazioni preparatorie, le quali costituirebbero comunque esecuzione di un obbligo da collegare ad un'esigenza di ordine pubblico, prima ancora che all'interesse datoriale al corretto svolgimento delle mansioni.
Si ricorda che il lavoratore è tenuto ad eseguire non solo le mansioni per le quali è stato assunto, ma anche tutti quei comportamenti accessori, collegati alla natura dell'attività lavorativa che consentono al datore la piena utilizzazione della prestazione (Cass. n. 3845/1992). Ciò si riflette nell'individuazione degli obblighi gravanti sul dipendente, comprendenti sia i compiti connessi al profilo professionale per il quale è avvenuta l'assunzione, sia l'esecuzione di operazioni strumentali ed accessorie rispetto ai primi. Ogni prestazione che il lavoratore si impegna ad eseguire necessita, infatti, di una fase preparatoria, più o meno “impegnativa”, ed il tempo a ciò necessario è riconducibile all'orario di lavoro ove connotato dalla determinazione da parte del datore delle modalità e della tempistica dell'esecuzione.2
L'orientamento sostenuto anche dal Tribunale di Bari si spinge oltre: la predisposizione datoriale del modus procedendi del lavoratore può ritenersi sussistente anche qualora non sia individuabile una espressa disciplina negoziale, ovvero puntuali disposizioni e/o direttive, ma sia desumibile dalla funzione svolta dalla divisa. Una forma di eterodirezione implicita, appunto.
Tale posizione interpretativa non sembra esente da critiche. Relativamente al luogo presso il quale il dipendente procede alla vestizione/svestizione, esso risulta de facto imposto dall'esigenza di assicurare l'igiene e, dunque, la sicurezza dei pazienti e del medesimo lavoratore. L'esigenza di procedere a suddette attività presso il luogo di lavoro, infatti, sembrerebbe immanente alla stessa natura della prestazione svolta. Per quanto concerne il tempo, invece, salva l'ipotesi in cui la parte datoriale abbia stabilito – nei limiti della ragionevolezza – un termine entro il quale procedere alla vestizione/svestizione, non si rinverrebbe l'esercizio del potere datoriale direttivo e di controllo ( ad es. la rilevazione dell'effettiva durata dell'operazione), sicché il lavoratore sarebbe libero nella scelta circa il tempo necessario all'esecuzione di dette operazioni, con conseguente riconduzione delle stesse alla diligenza preparatoria inclusa nell'obbligazione principale (Cass., sez. un., n. 11828/2013).
Ancora una volta sembrerebbe preferibile lasciare la soluzione della questione (riconduzione o meno del tempo-tuta all'orario di lavoro) alle parti sociali, puntualizzando l'attenzione sulla disciplina contrattuale, piuttosto che ricorrere a forme di eterodirezione implicita o, addirittura, in re ipsa, fondate essenzialmente sulla funzione della divisa la quale, in taluni casi, è inscindibile dalla natura stessa della prestazione finale.
Per approfondire - V. Miraglia, La Cassazione torna a pronunciarsi sul c.d. tempo-tuta, in Giur. it., 2019, 4, pp. 896 ss.; - M. Bellina, Note critiche in tema di orario di lavoro e attività preparatorie alla prestazione, in Dir. rel. ind., 2013, 1, pp. 158 ss. |